(Questo testo è stato scritto in occasione di un festival letterario sull’ambiente tenutosi nei pressi di Genova sei anni fa circa. Ovviamente i contenuti sono ancora validi).
Qualunque cosa dirò quest’oggi verrà sempre dopo la seguente affermazione: che io ho peccato. Non soltanto perché quando ero un bambino mi è capitato di incendiare formicai e di alimentare la fiamma gettando bottigliette d’acqua, sacchetti di patatine e carte di caramelle, ma anche perché dal 2002 fino al 2006 dall’età di ventiquattro anni ho preso a lavorare in una ditta che produceva conglomerato bituminoso. La ditta si chiamava Interstrade Spa. Era una ditta che faceva capo al gruppo Gavio. Il Presidente di Interstrade Spa era il figlio di Marcellino Gavio, Beniamino Gavio.
All’epoca in cui ero sotto contratto l’Interstrade Spa aveva ventiquatttro commesse aperte. Ogni commessa aveva un importo di almeno seicento-ottocentomila euro. C’erano commesse con importi anche molto superiori. Se non ricordo sbagliato, l’Interstrade Spa fatturava quarantacinque milioni di euro netti l’anno. Io in questo sistema occupavo il posto di addetto alla Qualità, Sicurezza e Ambiente. In parole semplici mi preoccupavo che gli operatori di cantiere non si rompessero un braccio, non si spezzassero una gamba, non perdessero un occhio o anche molto peggio mentre lavoravano; che i processi aziendali producessero carta a sufficenza perché alla verifica ispettiva di fine anno fosse incontestabile che l’azienda lavorasse in qualità; infine applicando le allora Iso 14001:1996 controllavo periodicamente che negli impianti di frantumazione inerti e di produzione del conglomerato bituminoso non ci fossero tettoie in fibrocemento o latte d’olii sventrate in stato d’abbandono o cumuli di polvere e sporcizia. Nel nostro ufficio c’erano pratiche che riguardavano l’inquinamento acustico, le emissioni in atmosfera e molto altro.
Bene, e tuttavia ricordo che appena arrivato una delle mansioni che mi spettavano più sovente era prendere l’automobile che la ditta metteva a disposizione per eseguire gli spostamenti di controllo nei cantieri e negli impianti e portarla in un impianto di frantumazione dove si trovava anche un distributore di gasolio per riempire il serbatoio. Posteggiavo l’auto davanti al distributore di gasolio (in realtà, la procedura era molto più macchinosa, ma come per tutto quel che ho descritto fin qui semplifico anche questo), afferravo la pistola dal distributore, la infilavo nella bocca del serbatoio e sparavo dentro combustibile. Poi estraevo la pistola e ricordo che ogni volta quattro o cinque gocce di gasolio finivano inevitabilmente sul selciato.
Così con questa immagine voglio soltanto suggerire che mentre lavoravo perché si limitassero i danni ambientali io stesso nel mio piccolo contribuivo a inquinare. Insomma, voglio suggerire, fermandomi solo a questo e lasciando immaginare il resto, che anch’io ho peccato. Mi sembra di una certa importanza mettere avanti questo dato di fatto perché ogni volta che si affronta una tematica ambientale il rischio dannato che si corre è quello di salire sulla cassetta della frutta e indossare subito una candida veste di leggiadra purezza. Certo, si usa “noi” al posto di “voi”, si attacca la “specie umana”, gli “uomini”, il “genere umano”, eppure troppo spesso si trasforma l’ambiente in un gigantesco pretesto per prodursi solamente in una più o meno apocalittica concione moralistica.
Ciò premesso, dirò che in questo periodo mi sono trovato nella condizione di meditare proprio sul potere che la natura esercita nei confronti dell’uomo. Infatti ho abitato per sei mesi a Grand Forks nello Stato del North Dakota, negli Stati Uniti d’America. Sono atterrato il 4 ottobre 2008. Il 15 novembre la neve ha cominciato a scendere e ha smesso di farlo circa un mese fa ossia a maggio. Per tre mesi la temperatura poteva arrivare anche a trentototto gradi centigradi sotto zero. Il rischio di ipodermia era reale. La neve ricopriva ogni cosa, anche le carreggiate delle strade. Lo stato del North Dakota non ha abbastanza soldi per sovvenzionare le spargisale e da quello che ho visto probabilmente quelle macchine non sarebbero servite nemmeno.
Per dare un’idea quando ripenso a quell’incredibile paesaggio immerso in una sorta di biancore assoluto non posso fare a meno di ricordare le ultime indimenticabili pagine del Gordon Pym di Edgard Allan Poe che cito non a caso visto che questa sera in questo stesso contesto Raul Montanari si esibirà in un reading-show proprio su componimenti dello scrittore statunitense. Era un paesaggio onirico, surreale. A causa della neve il livello del fiume che taglia Grand Forks in due metà (una metà nel North Dakota, l’altra nel Minnesota) si è alzato così tanto che è stato necessario chiudere il ponte attivando un sistema di dighe monumentale costato diversi milioni di dollari. Se il fiume avesse rotto gli argini e l’acqua avesse superato anche la diga avanzando verso il centro città sarebbe scattata una sirena e noi avremmo avuto quindici minuti per prendere gli oggetti più importanti e metterci al sicuro. Il tempo infausto ha sballato anche la rete fognaria. Così per un paio di mesi quando si attivava lo sciacquone, l’acqua anziché scendere traboccava fuori portando in superficie tutto ciò che di meno gradevole si possa immaginare.
Tuttavia, e qui arrivo alla semplice cosa che ho da dire quest’oggi, anche in un luogo come Grand Forks, che si dice sia il punto più freddo degli Stati Uniti d’America, anche più dell’Alaska, bene, anche qui, si trovano aggregati umani. C’è un’università meravigliosa. Ci sono famiglie che comprano casa – in verità, però, il costo di una casa a Grand Forks è notevolmente basso. Ci sono parchi sconfinati. Campi da golf. Luoghi di intrattenimento fantastici. Insomma, anche in un luogo come questo, l’uomo si organizza, vive, anche quando sa benissimo che basta una tempesta di neve più violenta del solito o un’inondazione per mettere in pericolo tutto quello che possiede, mandare all’aria la sua vita intera. Così, per concludere, mi viene solo da constatare che mentre l’uomo si illude o talvolta spera soltanto di piegare la natura alle sue esigenze, e di vincere la sfida con il suo potere immenso o di poter fingere di vivere ignorando questo potere, proprio quella stessa natura può ancora cancellarlo in un momento qualunque.