Sullo sfondo paesaggistico quanto pittoresco dei rapporti sociali e della comunicazione, non sempre tutte le raffigurazioni riescono ad essere la voce e l’orecchio di un quadro compreso. Lungo quella strada scandita di parole dove a frane contigue s’alterna il nostro tempo, non tutti possono e riescono a parlare con tutti, non tutti ce la fanno ad “arrivare”. Un mondo a sé, questo, interno, lontano però da quello variegato quanto squilibrato dei caratteri dove, verosimilmente, a netto delle sue esperienze, una tigre può trovarsi a suo agio pure con una formica e, al contrario, coesistere difficilmente con i propri simili. Si dilatano e si richiudono queste alchimie/empatie che, mentendo e ridendo, cambiano come stagioni irregolari che sembrano ripetersi. Stagioni nel quale il punto di declinazione del Sole è massimo/minimo e le fasi del giorno si confondono con quelle notturne, le temperature ne scelgono il vestito e non mancano mai all’appuntamento. Armonie e complicità che vanno dall’incontrare di continuo rifugio e primavera al finire di conseguenza in chiaroscuro, dal toccarsi ed annullarsi nell’irreparabile fino a diventare foglie cadute di un albero che, per forza di cose, sentono ancora dentro. Siamo sempre uguali? D’altronde l’essere umano è nato per fingere con indifferenza, senza neanche quasi saperlo. È abituato ad adeguarsi a se stesso, a fare la muta anche se non è un rettile, a perdere il pelo ma non il sacrosanto vizio di calarsi nelle più diverse parti. Un mondo di una razza che porta l’identico colore innominabile dalle tonalità eternamente differenti: sono le sfumature a fare il passo, a correre e ad esclamare il distacco, a dargli quella parvenza di nome che nella grazia del corpo rimane scheletrico fino all’aldilà, segreto, dove si risolve in chissà cosa… Un mondo, infine, nel paradosso in cui siamo attori non protagonisti, dove a monologare non è altro che la profondità di un mistero invisibile: è l’universo dell’intendersi, del cogliersi e del capirsi, del sovrastarsi e del ridursi. Anche dell’inspiegato, quindi, dell’incomunicabile che non lascia campo aperto e pone solo limiti, dell’ingovernabile affidato alla casistica e all’inganno. Dei fraintendimenti, soprattutto, delle coincidenze che sono diavoli con l’oro in bocca, dei raptus linguistici in preda a intonazioni bastarde ed artistiche, dei rancori sul filo di significati intraducibili. Una sottogalassia causa del reale, una lingua sotto la lingua, il mare dentro il mare Baudelairiano alla ricerca di un abisso fradicio di tenerezza. Un semaforo sempre arancione che invita al rivelamento, al pericolo non carpito, ad esitare prima di un incrocio fra codici e sentimenti a velocità poco specifiche. È un mondo ingrato e necessario, bellissimo e disgraziato che, se siamo fortunati, ci denuda fino al punto in cui ci accorgiamo di vedere alla perfezione, sorridendo alla cecità del dolore. Siamo, come ha detto Pessoa, isole nel mare della vita. Entrare in contatto è l’unica apparenza possibile, dove apparenza è sottile verità oltreché un velo di bugia. Buttarsi a capofitto dal tetto di un’Idea, a questo punto, diventa un rischio irrinunciabile. All’orizzonte, varrebbe tanto la pena impossibile di non sapersi fare male.