Quell'idea imbecille della superstrada la poteva escogitare soltanto un cartone!
Il sarcasmo mai abbastanza approfondito di questa battuta di Eddie Valiant – Bob Hoskins in chiusura di Chi ha incastrato Roger Rabbit?(1988) è forse una delle più raffinate appendici a un'idea di Futuro germinata negli States nel crogiuolo della Grande Depressione e consacrata dalla New York World Fair del 1939: è la visione della definitiva motorizzazione di massa della società statunitense, adeguatamente supportata da infrastrutture dedicate quali le superstrade o motorways.
Il collasso finanziario del '29 ha minato nelle fondamenta le certezze della middle class americana e gli USA sembrano essere pronti a una rivoluzione: l'ordine costituito percepisce la gravità della situazione e, consapevole di dover andare ben oltre la pur massiccia repressione delle proteste di piazza, elabora un sogno da vendere all'opinione pubblica: la visione di un futuro chiaro, prospero e confortevole; un'immagine così rassicurante da fugare una volta per tutte la sfiducia delle masse e consolidare definitivamente l'élite.
Questa colossale controrivoluzione preventiva, persuasivamente nominata “New Deal”, richiede un abile profeta, prontamente individuato in Franklyn Delano Roosevelt, paterno e rassicurante presidente-monarca. Ecco allora che gli stessi studiosi americani, in tempi recenti, rileggono il New Deal come avvio di un nuovo modo di fare politica, la corporated democracy, una democrazia controllata in cui la pace sociale si fonda sulla concertazione diretta fra Governo e giganti industriali e finanziari. Far ripartire l'economia statunitense significa far tornare la gente a spendere, risultato raggiungibile solo attraverso una vasta campagna di normalizzazione, che Roosevelt attua alternando sapientemente provvedimenti a effetto, come misure contro le inefficienze burocratiche, e iniziative di lungo corso quali grandi opere infrastrutturali.
Operazioni a cavallo fra questi due livelli di intervento sono le numerose esposizioni organizzate durante gli anni Trenta, da quella del 1933 per il Centenario di Chicago, a quella di Dallas, due anni dopo, per il primo secolo di indipendenza del Texas, fino alla New York World Fair del 1939/40, vero e proprio suggello all'elaborazione di un nuovo mito americano: gli USA come laboratorio del Futuro, nonché, implicitamente, nuova guida mondiale. “The World of Tomorrow”: più che un semplice slogan, una decisione irrevocabile, e gli organizzatori ben lo sanno. Industria, finanza, politica, comunicazione, arte, design, tecnologia: tutte le eccellenze del sistema America sono mobilitate.
In un clima di crescente instabilità internazionale, il presidente della Fiera Grover Whalen, guru della comunicazione e gran cerimoniere della municipalità di New York, ha un bel daffare per scongiurare defezioni, con alterne fortune: se infatti il Terzo Reich, irritato per la presenza di un padiglione ebraico, ha già disdetto la propria partecipazione, l'Italia mussoliniana, seppure ormai irrimediabilmente filonazista e antisemita, conferma la propria presenza, scongiurando a sua volta un effetto "domino" fra alcuni stati sudamericani a lei particolarmente vicini, in primis il Brasile. Nel frattempo la pianificazione dell'area espositiva sull'ex-discarica di Flushing Meadows, per l'occasione rigenerata come parco pubblico, si rivela un'efficacissima vetrina per per un city planner che tanta parte avrà nella configurazione della New York post-bellica: Robert Moses.
L'expo newyorkese, come e più delle precedenti, sintetizza al meglio il credo bifronte rooseveltiano: un futuro migliore e un presente rasserenato, aspetto quest'ultimo immediatamente riscontrabile poiché organizzare un simile evento significa garantire per due anni, fra dipendenti diretti, saltuari e indotto, una fonte di reddito per decine di migliaia di persone in una metropoli in cui è ancora vivo il ricordo di Central Park ridotto a baraccopoli.
Il simbolo della NYWF sono due enormi e candidi solidi accostati, il Trylon e la Perisphere, ma il cuore tematico, allegorico e mediatico è il padiglione della General Motors: il più grande, il più costoso, il più visitato, il più ricordato. Questa struttura, vero e proprio santuario della corporated democracy, è opera di Norman Bel Geddes, industrial designer, scenografo e architetto fra i massimi esponenti (se non il padre) dello Streamline Modern, una sorta di tardo déco riconoscibile per le volumetrie dagli spigoli sistematicamente arrotondati in virtù dei primi embrionali studi sull'aerodinamica.
Il vero prodigio di Bel Geddes, della GM e del nuovo ordine roosveltiano è però all'interno del padiglione: il suo nome è FUTURAMA. Un plastico gigantesco, esteso ben 3200mq , riproduce con estrema cura una porzione rappresentativa del territorio statunitense in un ipotetico 1960: una regione prospera, dall'agricoltura florida (mai piu code per il pane... ), segnata da canali che alimentano titaniche centrali idroelettriche, punteggiata qua e là da aeroporti e innervata da possenti autostrade che collegano tecnocratiche metropoli con sonnacchiose città-giardino. L'artificio che forse rimane più impresso nei visitatori, comodamente seduti su poltrone semoventi, è l'animazione meccanica delle autostrade stesse: un traffico incessante ma ordinato di automobiline dalla linea filante celebra la vera conquista del prossimo futuro, ovvero la libertà di spostamento individuale, privato, autonomo.
Lo spettacolo di Futurama si correda inoltre di un video programmatico-promozionale intitolato To New Horizons, a cura di Henry “Jam” Handy, il massimo documentarista industriale dell'epoca, che ripercorre la storia dei trasporti statunitensi dalle origini fino all'agognato traguardo, caldeggiato da GM e altri, della motorizzazione di massa. Scandito dalla ripetizione costante, quasi ipnotica, dell'espressione new horizons da parte di una calda e profonda voce narrante, il filmato riserva un'ultima sorpresa: la scena conclusiva, ovvero la visione di un futuristico angolo di città strutturato da vie carrabili ribassate e spaziosi sovrappassi pedonali, è lo stesso identico scorcio che il visitatore, uscendo dal padiglione, si trova davanti in scala reale. L'incantesimo è completo, avvolgente, totale. A questo punto, il turista di ritorno dalla NYWF in generale e da Futurama in particolare ha più di un motivo per appuntarsi al bavero la spilletta commemorativa recante la scritta I have seen the Future, ma di quale futuro si tratta?
Complice il potentissimo apparato di fascinazione dispiegato da Bel Geddes, almeno in prima battuta la tentazione di definire Futurama un'utopia è fortissima. Considerando poi che gli States del 1960, caratterizzati da lunghe highways, aeroporti, turriti centri direzionali e sterminati sobborghi di villette unifamiliari, avrebbero ricalcato in gran parte lo scenario preconizzato da Futurama, si potrebbe addirittura parlare di utopia realizzata, ma l'entusiasmo di una simile dichiarazione è destinato a una raggelante smentita, nel momento stesso in cui utopia realizzata si manifesta per quello che è: un ossimoro. L'Utopia o non si realizza o non è un'utopia.
E Futurama non lo è, come si può evincere dal confronto con altre, coeve visioni realmente utopiche. Si prenda l'esempio del “Plan Obus” di Le Corbusier per Algeri e lo si accosti, materialmente, a Futurama. Da una parte, scenari e combinazioni del tutto inediti, quali i palazzi-autostrada; dall'altra l'ottimizzazione di un repertorio già familiare, dai grattacieli identici al Rockefeller Centre, alle automobili simili a un prototipo presentato anni prima dallo stesso Bel Geddes, alle mega dighe ispirate alla Hoover Dam, alle stesse autostrade già ampiamente sperimentate in Europa. Da una parte pochi segni, poche mosse radicali, che lasciano campo libero alla fantasia; dall'altra un'offerta “chiavi in mano”, una profusione di dettagli fino alle minuzie che scongiura qualsiasi incertezza. L'ermetismo dell'oracolo contro la logorrea del piazzista, la vertigine contro il compiacimento. Utopia contro Eutopia.
Fondamentale poi per dare il giusto senso a Futurama è comprendere il ruolo di Bel Geddes: in questo è ancora utile il confronto con Le Corbusier. Se l'illustre svizzero-francese, al momento di proporre il Plan Obus così come altre visioni quali la Ville Radieuse, di fatto presenta se stesso al pubblico cercando consensi e finanziamenti, l'americano elabora una veste persuasiva per un progetto altrui. È dagli anni Venti infatti che GM e gli altri gruppi industriali automobilistici scommettono sulla motorizzazione di massa, processo all'epoca in fase di avvio ma vanificato poi dalla crisi. Il New Deal però' offre un'altra possibilità: le corporation infatti possono ventilare l'ipotesi di un incremento sensibile di occupazione e di produzione qualora il Governo si faccia carico della costruzione di una rete autostradale transamericana, progetto in agenda già dal 1921 per esigenze militari.
Parallelamente esiste un temibile concorrente da neutralizzare a ogni costo: si tratta del trasporto pubblico su ferro, sia esso a lunga percorrenza (le compagnie ferroviarie) o di ambito locale (le società tranviarie). Di nuovo torna alla mente una scena di Roger Rabbit, ambientato nel 1947, in cui sempre Eddie Valiant, insieme a tre bambini, prende il tram a scrocco sedendosi sul paraurti posteriore:
"Hey amico, non ce l'hai una macchina?"
"E che te ne fai? A Los Angeles abbiamo i migliori mezzi pubblici del mondo!"
È proprio su questi due tavoli che si gioca la realizzazione di Futurama: passata la guerra, entro la metà degli anni Cinquanta la GM, in cordata con altri marchi automobilistici e petroliferi, tramite società controllate acquista in tutti gli States mille compagnie tranviarie, sostituendone le reti con autolinee, contando spesso sulla partecipazione solerte delle autorità locali, prima fra tutte la New York di Robert Moses. Inoltre, a partire dal 1956, l'amministrazione Eisenhower, in attuazione del Federal-Aid Highway Act del 1944, avvia il tanto atteso piano federale di infrastrutturazione autostradale, che unitamente al boom dei collegamenti aerei interni provoca in pochi lustri il collasso del trasporto ferroviario passeggeri.
Il modello Futurama, vincente in patria, è ora pronto a esser esportato nel resto del mondo occidentale, con profondi effetti sociali e ambientali: in tal senso, almeno a livello europeo, il caso italiano è forse il più disastroso. La marcia trionfale di Futurama sembra concludersi con lo shock petrolifero, così come i decenni successivi sembrano segnare un'inversione di tendenza; la “rivoluzione green” però, aldilà del sollievo psicologico tipico delle procedure anti-panico, nella pratica incide sul bilancio globale tanto quanto una limatura d'unghie; nel frattempo Futurama è diventato un habitus mentale e ogniqualvolta uno Stato ambisca a entrare nella cerchia delle potenze mondiali, non può non adottare, con minimi adattamenti, questo modello di modernità, come gli stravolgimenti in corso in Cina e India dimostrano.
Eccoci allora oggi, e chissà per quanti altri decenni, salvo cambiamenti drastici, a fare i conti con la pesantissima eredità di Futurama: una mutazione antropologica irreversibile iniziata ammantando dell'aura romantica dell'Utopia uno dei più vasti, radicali e capillari piani industriali mai tentati. E riusciti.
Riferimenti bibliografici
Robert W. Rydell, World of Fairs, Chicago 1993
Giovanni Galli, Il Futuro non è più quello di una volta, in Nuova Corrente n.154, Novara 2015
Lindsay Turley, I have seen the future, MCNY blog, New York 2013