Eleonora Manca è un'artista visiva e videoperformer che utilizza vari media (principalmente fotografia e video) al fine di creare percorsi comunicativi mediante installazioni e micro-narrazioni (spesso attraverso la compenetrazione tra immagine e parola col fine di dare origine a una forma ibrida di codice poetico). Il suo lavoro ruota attorno ai temi della metamorfosi e della memoria del corpo.
“Ogni corpo è memoria ed essa si stratifica a tal punto che ogni nostro atto è legato ai ricordi che il pensiero cosciente tende ad annullare, ma che sostano inattaccabili nel corpo. Mentre la mente opera secondo azioni di conoscenza e di rimozione, il corpo non dimentica nulla e mantiene nelle proprie cellule ogni avvenimento, ogni pensiero, ogni sguardo, ogni parola. L’idioma del corpo è dunque l’inesplicabile linguaggio della memoria, il non aver paura di toccare”. (E. M.).
In una contemporaneità fatta di troppo fare e troppo poco sentire, il corpo di Eleonora vuole ricordarci che essere se stessi è fondamentalmente un fenomeno corporeo e che l’espressione di sé significa espressione del proprio sentire con il corpo, ... perché “il corpo non mente”.
Eleonora, chi sei?
Una forma di vita complessa, inquieta e contraddittoria. Costantemente in fieri, come è giusto che sia. Nel tempo ho cercato di dare forma a tutto questo, attribuendo anche dei nomi e una silhouette alle parti di me: Madama Fiore è colei che insinua dubbi, incertezze, ansie. È colei che si presenta sottobraccio ai miei fantasmi ed è severa, intransigente e rigorosa, austera. Catena è l'intoccabile energia creatrice, l'essenza che muove il mio fare arte, il Daimon. Ophelia è la parte più piagnucolosa, laconica, fragile, nostalgica e malinconica. Colei che ha paura di aver paura e al contempo di non averne. Gelso è il puer aeternus che mi abita, la bambina dai capelli scarmigliati color miele, la parte più “selvatica”. Tutte queste parti compongono il mio “chi sei”.
Come sei approdata all’arte, e in che modo l’arte ti si è presentata?
Ci sono nata vicina all'arte. Fin da bambina ritagliavo dai libri immagini che avevano il potere di parlarmi e le incollavo al muro di camera (lo faccio tuttora). Istintivamente ho sempre cercato – nella biblioteca di famiglia – unicamente o libri di arte o libri di poesia. La parola scritta, così come l'immagine, sono sempre state icone. Non le scindo. Credo che la ricerca costante di immagini o parole che potessero farmi sentire “a casa” mi abbiano forgiata. Sono stata una bambina piuttosto solitaria, ho sempre preferito visitare le mie “stanze” piuttosto che partecipare al “là fuori”, ma solo perché non mi riconoscevo in quello mi circondava; disegnavo, creavo collage con i miei ritagli, inserendovi i versi dei poeti con i quali trascorrevo il mio tempo. Una specie di inconsapevole Poesia Visiva.
Perché l’arte è importante per te?
È importante la bellezza, per me. E la bellezza è sempre crudele. Si dice che l'etimologia del termine arte in sanscrito significhi andare verso. Ho sempre pensato che già questa, da sola, renda la pena della sua importanza. E dico pena semplicemente perché ritengo che ogni atto di creazione rechi con sé un inevitabile dolore. Lavorare sulla metamorfosi mi sta facendo sempre più comprendere la tragicomica e impossibile ricerca di un punto fisso che possa decretare una risposta definitiva, a tutto. C'è una costante inversione degli schemi interiori ed esteriori più rassicuranti e alla fine si discetta sempre di trovare delle parole per spiegare una parola.
Cosa, in questo momento della tua vita, attrae la tua attenzione e cosa riesce ad avere un effetto tale da influenzare te e la tua ricerca artistica?
Sono una spugna visionaria e molto curiosa. Da sempre. Riesco a trarre ispirazione da tutto, perché tutto è potenzialmente foriero di coinvolgimento. Esco spesso, e spesso senza meta, perché mi aiuta a relativizzare poter immergermi nelle vie cittadine, a non essere troppo concentrata su di me, a non prendermi troppo sul serio. Vivere in città per me è vitale. Voci, rumori, luci, persone che ti urtano... ogni elemento esterno riesce a incantarmi. Tutto è già lì, credo che fondamentale sia l'accorgersene, il ricevere a piene mani. Tutto, quindi, può influenzarmi. Leggo molto, guardo molti film, molta videoarte. Visito mostre, vado a concerti. Violento la mia timidezza e parlo con gli sconosciuti. Ultimamente sono molto attratta dal teatro-danza; ho assistito di recente ad alcune performance che hanno sedotto la mia ricerca sul movimento e l'uso della parola. Una specie di conferma a un approccio – in video – che ho già iniziato da qualche mese e attorno al quale giravo già dal tempo dei miei studi in Storia del teatro.
Se ti chiedo di rivolgere la tua attenzione dal cosa ricordi (il contenuto di una determinata esperienza) al come la ricordi (come rappresenti interiormente le esperienze già fatte):
• ricordi soprattutto le sensazioni?
• oppure è più forte il ricordo dei colori?
• ricordi soprattutto le voci o i suoni o il silenzio?
• oppure il volto delle persone?
• il profumo o l'odore di qualcosa in particolare?
• altro?
Ragiono per immagini, ma da questo punto di vista sono un'autentica proustiana, riesco a ricordare tutto principalmente attraverso gli odori. Al contempo però, la ricerca sulla metamorfosi e la memoria del corpo sta facendo emergere in me la capacità di sentire un ricordo mediante, ad esempio, dolori in parti di me che puntualmente si ripetono e si comportano come campanelli d'allarme. Mi assale un ricordo, un'emozione, il “sapore” di una sofferenza e contemporaneamente il mio corpo reagisce con un dolore acuto. Ho imparato a convivere con il mio involucro, che è spesso dolorante. Negli anni sono riuscita a sopportare degli spasmi indicibili, durati mesi. Come in una scarnificazione lenta e costante. Questo mi ha resa più consapevole dei limiti del mio corpo, ma anche delle sue potenzialità.
Attraverso quale dei cinque sensi entri in relazione con il mondo, e quale utilizzi più frequentemente, più volentieri e con più familiarità quando lavori?
Se si tratta di entrare in relazione col mondo direi la vista e l'udito. Ma riesco a stancarmi quasi subito di questo rapporto effimero. Così mi fermo, cerco di provare a “sentire” mediante altri accenti che non siano presi in prestito da una specie di convenzione dei sensi. Il tatto è una sintesi interessante, permette di vedere a occhi chiusi e di ascoltare in altri modi. Ad ogni modo quando lavoro ogni senso è in allerta, entro in una dimensione di concentrazione che si avvicina molto a una trance metafisica. Allora ogni percezione sensoriale risulta amplificata, esasperata, tuttavia ovattata. Alcune volte è insopportabile. Letteralmente.
Il tuo lavoro nasce dall’impulso che segue a un’idea o a una necessità? C’è un filo conduttore che ti porta a tessere la trama delle tue opere?
Non credo all'arte consolatoria, all'arte come terapia e quindi, semplificando, non vedo una necessità “medicamentosa” in ciò che creo. Uso il mio corpo – e il mio corpo mi è veramente strumento – perché ho a che fare con lui quotidianamente, so quando è sincero e quando – con la complicità della mente – riesce a ingannare. Si tratta di essere contemporaneamente pensiero, carne, immagine e luogo dell'opera d'arte. Ciononostante, per quanto possa essere il soggetto più manifesto, sono anche il più complicato. Presto fede all’effimera gnosi di ogni frammento del mio volto, del mio corpo, di ogni tratto, estrinsecazione. Ma tutto questo viene eluso. Mistificato. Senza sosta. D’un tratto una (in)coscienza dichiara quanto in realtà il mio involucro mi sfugga, quanto diventi estraneo a ciò che riempie l’interno. Nel momento in cui sento che non ne posso più di vedermi, mi rendo conto che l’immagine che ho di fronte non è la mia, bensì groviglio di cellule che gridano un «non-sei-te». Per questo potrei tranquillamente asserire che – benché la mia opera, sia video sia fotografica, abbia come fulcro il corpo, il mio corpo – ogni mio esito artistico è anti Body Art (se assumiamo che essa ponga al centro del processo artistico il corpo nella sua esibizione) e questo perché ciò che nasce dai miei lavori è una rappresentazione di me assolutamente non autoreferenziale (tanto meno atta al famigerato autoritratto del: «mi fotografo per conoscermi, per vedermi, per salvarmi... eccetera»), ma filtrata dal mezzo che ho utilizzato, dalla luce di quel momento, dalla me di quel momento, dalla post produzione. Il mio corpo diviene, quindi, segno di tutti i corpi, esplorandosi si archetipizza dimenticando la propria soggettività; rivendica l'umiliazione estrema di essere segregati in un corpo unico e sessuato e al contempo la nostra natura di essere fragili tanto nella carne quanto nello spirito. È un corpo che non smette di dissolversi, di essere predatore del proprio sé mediante gesti sottrattivi. È fenomenologia d'una presenza assente. Di un'assenza presente.
Nella resa finale di un tuo progetto artistico quanto peso hanno la pianificazione e la ricerca e quanto è imputabile, invece, all’imprevedibilità?
Direi che hanno tutte e tre il medesimo peso nella misura in cui sono parti inscindibili. Studiare, cercare continuamente il punto zero, il punto di vuoto attorno al quale costruire l'armonia fra significato e significante; disciplinare i lampi intuitivi in un “pentagramma” che possa funzionare attraverso disegni, frasi scritte di getto, appunti, prove coreutiche o di semplici movimenti reiterati e frazionati, sogni, ricordi, stralci di diari, immagini che mi hanno attraversata e che – con calma - so che ho la responsabilità di far riemergere allo stato cosciente; reimpostare ogni volta ogni atto e pensiero sulla certezza del dover lasciar decantare, del non aver fretta di chiudere un lavoro. E, per ultima, concedersi la grazia di inchinarsi a sua maestà il caso che spesso è un galantuomo e riesce a darmi la chiave di volta. L'imprevedibilità è dunque uno dei momenti più affascinanti perché dopo la lotta, fra me e lei, subentra l'accoglimento di un'idea che non volevo seguire, ma che forse già albergava dentro. Nel processo creativo accetto tutto ciò che possa promanare da me, dalle mie esperienze, dalle mie conoscenze, dall'esterno... senza preclusioni.
Prima che una tua opera “accada”, che immagini e che sensazioni hai e che tipo di emozioni e sentimenti sperimenti quando, poi, l’opera “accade”?
Ogni mia opera “accade”. Semplicemente lei accade. Possono trascorrere anche mesi prima che mi metta al lavoro. Generalmente un'opera devo prima “vederla” davanti a me, come in una visione. Comprendo che potrebbe essere una buona opera quando si insinua nel mio quotidiano senza darmi tregua, quando diventa un pensiero che instilla una specie di energia che sento ampliarsi e che insiste nello stato onirico. Di base sono molto inquieta in quei momenti. Come prima di un temporale quando un qualcosa di magnetico ti aleggia attorno e aspetti la tregua che solo le prime gocce di pioggia porteranno. Una volta che ho raggiunto la tensione massima mi metto al lavoro e – appunto – l'opera accade e dopo che è accaduta sento un fondo di tranquillità mista a emozioni discordanti. Posso piangere (soprattutto mi accade dopo le performance video), sentirmi nervosa, ilare, svuotata. Mi hanno detto che sono emozioni che si avvicinano molto a quelle del parto.
Che approccio hai con la materia per arrivare agli aspetti contenutistici e concettuali delle tue opere?
Se per materia intendiamo la tecnica, la padronanza del supporto che utilizzo (macchina fotografica, videocamera) o i software di post produzione ho sicuramente un approccio che definirei sanamente distaccato. Non sono una fanatica dei vari modelli di macchina, degli ultimi ritrovati para scientifici che possano darmi l'illusione di poter essere più brava e più competente. E questo perché per me foto e video sono unicamente mezzi di comunicazione con i quali ho scelto di esprimermi. So di loro ciò che mi basta per portare avanti il discorso che ho intrapreso (ma non escludo la necessità di imparare anche altro). Credo che siano il contenuto e il concetto a rendere potente un'opera, il dentro che hai e che immetti nel dentro di un oggetto che necessita di destarsi premendo un bottone.
Memoria, Presenza, Consapevolezza, Persona, Tempo, Luogo... che accezione hanno per te e nella tua ricerca artistica?
Sono parti integranti del mio progetto. Lavoro sulla metamorfosi e sull'accoglimento di ogni possibile cicatrice. Il cambiamento è inevitabile quanto facoltativo nel senso che ognuno di noi può decidere o meno se e come procedere, come reagire ai segni della muta. Accettare questo significa accettare le tracce d'ogni possibile dolore. Qualsiasi muta comporta, esige spasmo. Senza dolore il corpo (e con corpo intendo anche la psiche) non cambia, senza l'implacabile crudeltà (anche e soprattutto artaudiana) della sacralità di un cambiar-pelle non è possibile nessuna conoscenza. Al contempo senza memoria rimane tutto provvisorio, in perpetua attesa d'ogni possibile Godot che possa affrancarci dall'essere solo carne in putrefazione. Il pensiero comunica con il corpo e scrive su di esso le proprie emozioni recuperando incessantemente i contenuti della memoria. Ogni corpo è memoria ed essa si stratifica a tal punto che ogni nostro atto è legato ai ricordi che il pensiero cosciente tende ad annullare, ma che sostano inattaccabili nel corpo. Mentre la mente opera secondo azioni di conoscenza e di rimozione, il corpo non dimentica nulla e mantiene nelle proprie cellule ogni avvenimento, ogni pensiero, ogni sguardo, ogni parola. L’idioma del corpo è dunque l’inesplicabile linguaggio della memoria, il non aver paura di toccare.
Come e da cosa sai di avere raggiunto l’obiettivo nel tuo processo di creazione dell’opera? Quali sensazioni prova il tuo corpo quando hai la consapevolezza di aver raggiunto questa meta?
Quando mi accorgo che l'esito finale fa un po' male. Questa emozione si lega spietatamente alla fisica sensazione di un qualcosa che scorre giù per il corpo e all'istinto di proteggere questo qualcosa dal dubbio. Alcune volte ho come la percezione che sia una piccola ricompensa che abbisogna, però, di essere prima consolata.
Quali sono le motivazioni, le spinte, i condizionamenti, i limiti e le conseguenze di essere un artista oggi?
Non credo siano tanto dissimili da chi mi ha preceduta. Qualsiasi esperienza estetica si è manifestata - nelle fasi iniziali dell'espansione sociale dell'umanità - come urgenza collettiva di assaporare la realtà mediante uno stato della coscienza non ordinario e che è stato accolto come specifico della dimensione del rito. Lo “stato di flusso” (flow) individuato dallo psicologo americano d'origine ungherese Mihalyi Csikszentmihalyi, che corrisponde a uno stato di appagamento quasi estatico, rendendo l'esperienza gratificante in se stessa (e quindi scevra da qualsiasi forma di “ricompensa”), a quanto pare presenta quegli stessi parametri individuati negli stati alterati della coscienza. Mi piace dunque pensare che le motivazioni che spingono inevitabilmente a non poter far altro che creare siano benedette da un unico flow e che è il come si utilizza il dono che si ha a decretarne sia i limiti sia le conseguenze.
In che senso il fatto di essere donna ha determinato la tua vita? Quali possibilità ti sono state offerte, e quali rifiutate? Che destino possono aspettarsi le nostre sorelle più giovani e in che direzione bisogna orientarle?
Essere donna necessita di un profondo atto di coraggio al fine di assumersi il rischio di rivendicare la propria vulnerabilità come parte integrante di un continuo partorir-si. L'archetipo della Dea Madre, dell'energia creatrice è, ad ogni modo, in noi. Nondimeno mentre progredisce la necrosi di alcuni stereotipi altri se ne inventano o re-inventano. Siamo ancora soggiogate al maschio alfa (sia dal punto di vista individuale, sia sociale; senza contare che il maschio alfa è in grado di asservire anche il proprio “branco”), la dinamica maschio/femmina (con la reiterazione ostinata dell'incomunicabilità) pone una tensione - destinata ad abortire - nella definizione di noi stesse attraverso le limitanti tradizionali costrizioni di genere. Probabilmente l'affermazione del sé femminile non può prescindere dalla relazione con il sé maschile; ho sempre pensato che non ci sia niente di più seducente di una donna con del maschile e di un uomo con del femminile. Fermo restando che spesso ancora mi domando che cosa sia maschile e che cosa femminile. Come donna – e come donna artista che lavora con e sul proprio corpo – mi trovo a scontrarmi costantemente con quei cliché che la mia arte intende, invece, abbattere. Faccio sempre fatica a spiegare che ogni corpo è a suo modo sempre fonte di bellezza, indipendentemente da come sia. Che non mi interessa sottostare a quelle ignobili leggi che vorrebbero relegarlo in una casella da barrare con una generica “X”. Che un corpo nudo è quanto di meno osceno possa esserci, che può essere sì irriverente, ma mai “inguardabile”. Che la carne non è merce, che non dovrebbe essere ancora un tabù, l'anticamera della parola “sesso”. Parafrasando Simone de Beauvoir, “il corpo è una situazione” e a questo guardo. Ma è – a suo modo – un discorso privo di controllo. Per quanto possa (e con me altre mie colleghe) rimanere convinta di questo messaggio, mi accorgo che attorno c'è una specie di mero esibizionismo di ritorno. Un'ostentazione bulimica e umiliante di pelle niente affatto dedita all'idea sacra di corpo, bensì figlia una realtà economica-politica-culturale che altro non fa che esacerbare l'atavica disparità fra i sessi e la nostra percezione di inferiorità al cospetto degli uomini. Detto questo, per le mie sorelle più giovani non ho ricette se non quella di essere sempre se stesse. Ma questo suppongo possa (e debba) essere possibile per ogni essere.
Quali sono i valori alla base delle tue intenzioni e delle tue azioni nel contesto artistico contemporanea?
L'unico valore che so che mai tradirò e che per me rappresenta una salda roccia sulla quale stagliarmi è il rimanere fedele a ciò che intendo dire, al come intendo dirlo. Non mi interessa il passare da uno “stile” all'altro solo per accontentare un mercato che decreta nascita e morte di una moda. Non me ne faccio niente di un: «dovresti farlo così, perché così piace». Non riuscirei mai a vendermi per una vanagloria effimera e non ho stima di quegli artisti che hanno abbandonato una ricerca perché non riuscivano a piazzarla sul mercato. Non ho mai avuto il dono della commerciante. Oltre a questo aggiungo il mio perentorio “no” a qualsiasi proposta di esposizione a pagamento. Trovo svilente, sia per l'artista sia per la Galleria (o altro spazio), doversi ridurre a instaurare un rapporto dal sapore unicamente feudale.
A che cosa può aprirsi il mondo attraverso l’arte?
Tecnicamente entrambi hanno bisogno l'uno dell'altra. Condivido l'idea della sintesi delle arti. Sono allergica alle etichette, ai vari “ismi”, ai “pre”, “post”, “neo”. Sono solo parole, suffissi che servono a dare un ordine laddove vive già di per sé un ordine intoccabile; sono esigenze (di critica, di mercato) atte a ingabbiare la libertà d'espressione. Al contempo anche il concetto di “arte” è sopravvalutato, paradossalmente tutto e niente possono esserlo. Suppongo sia laddove subentrano l'emozione, una data percezione (che derivano da noi-nel-mondo) che si possa sentire appieno di essere dinnanzi a un qualcosa che ha sforato i confini di questo mondo. Mi sono auto-educata alla nozione di veggente di cui parla Rimbaud, probabilmente questo fa di me un'inguaribile “ingenua”, ma tant'è, credo fermamente che arte sia l'evocazione di una fenomenologia nella quale si ripristini l'ordine fra ciò che è oggettivo e soggettivo. Una specie di onda propagatrice della realtà stessa che l'ha suscitata.
Quanto può essere utile oggi a un artista esporre in un determinato contesto? E quanto può essere utile il loro passaggio al contesto che li accoglie?”.
Bisognerebbe definire “contesto”. Esiste tutto un sottobosco di piccole Gallerie, Associazioni Culturali, spazi improvvisati troppo spesso a scopo di lucro che fungono solo da specchietto per le allodole, dove per “allodole” intendo chi ha un vitale bisogno dei tanto osannati e bestemmiati “quindici minuti di celebrità”. Personalmente, allora, preferisco rimanere ferma e non esporre, concentrarmi sul mio lavoro e aspettare realtà espositive con le quali creare una sinergia di sviluppo corale. Qualsiasi spazio (on, off oppure off-off) può essere utilizzato per creare un'ottima esposizione, anzi... gli spazi decontestualizzati sono sempre i più emozionanti perché in essi si può progettare un percorso visivo che dialoghi con l'ambiente che ospita l'opera, purché alle spalle ci siano persone competenti, sensibili e non opportuniste (e questo vale per entrambi le parti).
Quali delle tue opere ci proporresti come fondamentali punti di snodo nel tuo percorso?
Per quanto riguarda i video credo - con METAMOR(PH) - di essere arrivata a quella che considero un'evoluzione della ricerca sulla metamorfosi. In questo video-Haiku convergono parole (in questo caso una frase di Gilles Deleuze, “Niente è più fragile della superficie”, ripetuta da me a mo' di mantra), azioni performative e determinate immagini le quali riescono a potenziare, su un piano più simbolico, il substrato di ogni tappa fin qui percorsa. Sul versante fotografico la serie Madre (una micro-narrazione composta di ventotto foto di 30x30 cm l'una) è quella che forse meglio sintetizza il prima che c'è stato (un lavoro più serrato sul mio corpo come confine) e un dopo che si sta aprendo a nuove sperimentazioni sia dal punto di vista del movimento, sia dal punto di vista del trattamento dell'immagine in post produzione (sempre meno presente). Il titolo Madre ha una doppia lettura; c'è la madre in senso comune e il suo significato di interno (così, ad esempio, è chiamato il dentro del cuscino, il fondo che si deposita nella bottiglia di aceto, l'interno del nocciolo di alcuna frutta); in qualche misura volevo rendere evidente quanto alla fine fossi madre di me stessa, quanto sentissi su di me la fisica percezione della perdita d'ogni possibile figura materna allorché si è diventati armonia prenatale.
Cosa c’è di importante per te che vuoi che le tue opere dicano a te stessa e a chi le osserva? Cosa desideri che le persone sentano quando entrano in contatto con le tue opere?
Ogni mia opera nel momento stesso che l'ho concepita aveva qualcosa da dire. Reputo, però, la mia arte leggibile in più sensi e adattabile a ogni momento dell'esistenza. Sono convinta che abbia in sé qualcosa di talmente archetipico che oltrepassi le mondane concezioni di tempo e spazio. Ogni volta che riguardo foto o video da me già realizzati vi scorgo accenti nuovi e diversi. Dipende sempre da come uno si rapporta, da ciò che è in quell'attimo. In ragione di questo considero ogni mia opera “aperta”, come un non-luogo all'interno del quale ognuno possa scorgervi un po' di ciò che è stato, di ciò che è e che probabilmente sarà. Non ho messaggi univoci perché ritengo che ognuno abbia il proprio percorso (culturale, di vita, emotivo) ed è sempre entusiasmante per me costatare che ogni sguardo che si posa sulla mia arte in qualche modo la ridesti e la incrementi di nuova “pelle”. Al contempo non ho desideri specifici rispetto al sentire altrui, ognuno sentirà (o non sentirà affatto) in modo irripetibile... come in una specie di eucarestia.
In seguito alla tua esperienza di vita, alla tua esperienza dell’esistenza umana in senso ampio, qual è la tua concezione della vita?
Recentemente sto riflettendo sul fatto che la parola “abbandono” contiene in sé la parola “dono”. E quindi sto facendo pace con questa mia nevrosi e con tutte quelle che sono nate – negli anni – a seguito dell'effettivo abbandono che ho incassato da parte dei miei genitori (sono cresciuta con i nonni materni). Convivo con vari disturbi, una sensibilità spesso ingestibile, paure alcune volte soffocanti, mi creo o cedo ad allarmismi, angosce, strane fobie. Ma le considero, oramai, niente più che metafore. A 37 anni, se mi guardo indietro, vedo da parte mia molti atti di coraggio, molte esperienze effettuate esclusivamente a rivendicare il diritto di vivermi secondo leggi decretate da me. Ho fatto scelte sbagliate, alcune quasi giuste, altre di cui mai mi pentirò. Ho mortificato il mio corpo credendo di poter annullare una specie di debito, ho inveito contro ogni dio chiedendogli il perché mi avesse fatto a sua immagine. Sono stata picchiata e mi sono lasciata picchiare. Ho ingannato il mio corpo. E quanti mi hanno illusa di amarlo. Ho cercato ogni possibile catarsi. Ho stretto le mani a chi stava per morire. Ho avuto freddo nelle braccia di mia nonna. Sono inciampata, caduta, ma mi sono sempre rialzata. E so che altre volte dovrò rialzarmi. Ma conosco la mia forza, ed è la forza di chi ha lottato per mantenere incontaminata la propria fragilità. La mia dignità - di donna, di artista, di essere umano – è il palcoscenico sul quale va in scena la mia esistenza. A ciò che è stato devo ciò che sono e del resto ho fatto mio l'aforisma di Marcello Marchesi: “L'importante è che la morte ci trovi vivi”.
C’è un momento o un’esperienza alla quale colleghi quella sensazione intensa che fa dire “Io sono viva!”?
Quando l'impulso creativo è rigoglioso e inarrestabile, quando bevo del buon vino, quando faccio l'amore, quando sono in acqua. E soprattutto quando tutte queste cose avvengono in contemporanea!
Quali sono per te le situazioni quotidiane più difficili da sopportare?
Il mio quotidiano è regolato su cortocircuiti che mi sono scelta e che condivido con quelli scelti a sua volta dal mio compagno. Ho impiegato molto ad accettare che ho bisogno di una determinata cosa e del suo esatto contrario. All'esterno posso dunque apparire “scombinata”, ma so che per me è l'unico modo per non soccombere. Ho bisogno di essere asceta, monastica, ma anche dionisiaca e intemperante. Ho bisogno di disordine, ma anche di molto ordine. Tendenzialmente sono iperbolica, in tutto. Non considero i miei giorni “quotidiani”, cerco di rendere ogni gesto, ogni atto speciale. Come in una liturgia. Ad ogni modo, divento insofferente, ansiosa, ingestibile e insopportabile quando sta per cambiare la condizione atmosferica o quando sento seriamente minate la mia libertà e il rispetto verso ciò che sono e non sono.
Eleonora, dubiti mai di te stessa?
Fortunatamente in ogni attimo della mia esistenza. Lo considero l'unico modo per comprendere le mie disonestà senza giudicarle mediante tormentati sensi di colpa.
Come sai che sei un’artista?
So che non posso essere altro che questa, ma francamente il sostantivo “artista” potrebbe anche mutare in un semplice aggettivo come in un altro.
Che progetti hai in cantiere?
A oggi portare in vita gli appunti sui prossimi lavori che intendo realizzare. Aprirmi a possibili contaminazioni e collaborazioni, non temere dunque nuove idee nelle quali far convergere le mie foto e miei video. Rimanere concentrata, dedita ai richiami del mio intimo, eliminare quelle scorie che non mi servono più (anche per quanto concerne la mia arte).
Qual è il desiderio del tuo cuore?
Non aver paura di desiderare e di ottenere ciò che ho desiderato. Non aver paura di comprendere che il desiderio potrebbe diventare uno scopo.
Dai la risposta alla domanda che volevi io ti facessi e che non ti ho fatto...
Un labirinto di embrioni.
Eleonora Manca (Lucca, 1978), vive e lavora a Torino.
https://vimeo.com/eleonoramanca
https://eleonoramanca.see.me/