Dopo l’orgia consumistica che ha abusato del povero Tolkien traslandolo dal ghetto di pochi anni fa al supermercato di oggi, ci voleva un’opera che riposizionasse il concetto stesso di fantasy e lo stesso rapporto fra testo antico e nuova narrazione. Il primo merito di Matteo Garrone è stato quello di attingere a una meraviglia della letteratura fiabesca: Lo Cunto de li Cunti overo Lo trattenemiento de'peccerillei, detto anche Il Pentamerone, a similitudine del Decamerone di Boccaccio, opera che si pone quale innovativa e preziosa raccolta barocca di varie antiche fiabe e costituisce la più antica e organica traccia in Italia di un’attenzione culturale e di una nobile sensibilità letteraria verso una dimensione perenne dell’essere umano di tutti i tempi.
Fra le fiabe riformulate e salvate dal letterato Gianbattista Basile troviamo ad esempio La Gatta Cenerentola, la prima versione italiana della celebre fiaba (le prime tracce in Europa sono solo di un secolo prima, cinquecentesche). Il valore culturale e letterario del seicentesco Racconto dei racconti è stato profondamente indagato da Benedetto Croce. A noi basta ricordare il merito dell’italianità di questa immensa e creativa radice culturale a cui Garrone è acutamente tornato. La sua operazione è per fortuna opposta a quella fatta su Tolkien. Mentre sulle opere del bardo inglese è intervenuta una mano di potente spettacolarizzazione industriale, tale da operare una vera e propria “sostituzione linguistica” per cui oggi non ha quasi più senso leggere Tolkien dopo i potenti film tolkeniani, e data l’importanza dell’“esperienza orale” di condivisione per l’immaginario tolkeniano quale nuova “mitologia in fieri”, Garrone ha operato con sapiente delicatezza, muovendosi verso una sorta di sottrazione e di rarefazione che veicola un importante senso spirituale.
Non si è trattato solo di marketing (dal Racconto dei racconti si potrebbero trarre centinaia di film, non i tre che forse si sono pensati) ma di un nuovo e giusto approccio alla materia immaginale. Lo dimostra il profondo rispetto per la struttura narrativa essenziale della Fiaba e per la scelta felicissima di un tempo narrativo speciale, rarissimo, quasi primigenio. Un vero e proprio miracolo culturale. Non sto esagerando. Chi ascolta attentamente il film di Garrone sentirà scorrere un ritmo non definibile in senso cronologico (veloce, lento) né in senso spaziale (curvo, progressivo). Garrone è riuscito, per la prima volta, nel cinema, a salvare e riprodurre un tempo rivelativo, proprio, mai imitativo, nuovo, libero da qualsiasi “ansia da prestazione”, sgravato finalmente dalla “fretta di stupire”, dall’inquietudine di “riempiere i vuoti” dicendo tutto subito, che tanto logora e affligge il fantasy e il cinema attuale. Un tempo narrativo che si autocostruisce come una sfera che si espanda generando riccioli spiraliformi in avanti e al suo interno.
Per trovare qualcosa di simile dobbiamo risalire alla madre di ogni racconto oltre la quarta dimensione: l’Apocalisse di Giovanni (sul tema si veda: Apocalisse, linearità e reversibilità del tempo di Renato Ammannati e I mostri dell’Apocalisse di Mario Bacchiega). Garrone supera lo stesso concetto di fantasy quale “rimescolamento narrativo di materiali antichi in uno scenario neoromantico” (possibile, mia, definizione omnicomprensiva) per giungere a un tempo continuo, di durata, indeterminato ma concreto, come l’aoristo greco. Un tempo carnale quanto metafisico. E’ questa la Fiaba. Un tipo di Tempo. Un tipo di kairòs. Racconto senza narratore, Stupore diffuso, mai recitato, senza autocelebrazione, Continuità inesausta, liquida. Anche a livello strutturale Garrone è riuscito nel miracolo della liberazione della Fiaba dal peso del folklore: le tre storie che si sfiorano vivono di vita propria, eppure si percepisce che appartengono a un Racconto più grande dei singoli racconti, ma che non si vuole tentare di risolvere; palpita restando Ineffabile. L’Opera si racconta da sola. Si sente la musica del silenzio. Tutte le radici della Fiaba danzano e fioriscono: la dialettica fra limite e sacrificio, il tema del ritorno, la Prova che capita all’improvviso, ma già ineluttabile, il fascino del Doppio, l’ossessione per il controllo e il possesso, la Nemesi, il Desiderio che provoca ribaltamenti, e molto altro…
Un film dove anche gli ambienti e i costumi sono perfetti, vividi, concreti, affidabili nello stupire ma senza teatralità e dove tutto è manifestato senza perdere mai un senso continuo di mistero e di attesa. Il baricentro fra fantastico e narratività viene invertito magicamente a favore di quest’ultima. La Fiaba non è infatti mai tale perché parla di draghi e di eroi ma perché, parlando di draghi e di eroi, riesce a parlare di tutto e a tutti. Il centro del racconto è e resta la persona umana, con il suo mistero innato, le sue scelte, le sue vocazioni e destini, le sfuggenti dinamiche del Kosmos. Questa è e resterà la Fiaba più grande, e Garrone ce lo fa percepire in profondità. Non avvertiamo il senso di fastidiosa allegoria, di macchietta fumettistica, che purtroppo spesso domina negli altri fantasy, né la volgarità di una violenza che è ideologia, ma scendiamo alle fonti primigenie e originali della narrazione: archetipi, tensioni spirituali, anagogìa. Iconologia e Iconosofia, non più iconografia! Un Racconto dei racconti non solo nel senso che li include e li assorbe tutti, ma specialmente nel senso che apre la mente al cuore ritmico di ogni fiaba, dove morale, bellezza, traccia e forma appaiono un’Unità organica e trasfigurata, mai scindibile e né del tutto razionalizzabile.