Dopo diversi giorni arrivarono finalmente in vista della città di Palermo. Distesa su una ubertosa pianura, si affacciava sul mare. La ricchezza delle sorgenti sparse per la spianata fra la città e le montagne rendevano il luogo ameno e piacevole. Vigne fiorenti, la copiosa ricchezza della vegetazione e gli orti pregevoli che incontrarono lungo il loro cammino gli diedero l’impressione di essere arrivati nella valle dell’Eden. Melograni agri e dolci, cedri, arance, noci, mandorle, fichi e ancora tante specie di olive, buone da consumare ai pasti o per ricavarne prezioso olio. Ed ecco che, attraversati questi giardini profumati di mille odori, giunsero alle porte della città di Palermo. Alte mura circondavano la città, interrotte da porte immense che consentivano l’accesso ai pellegrini e alle merci. Mentre passavano per una di queste, Ugo disse, rivolgendosi ad Antonio: «Questa per cui stiamo passando è la porta di Sant’Agata».
«Come mai porta il nome della mia patrona?», rispose Antonio.
«È una storia antica ed è legata alla chiesa che vedi là in fondo che è intitolata a Sant’Agata de petra o la pedata, come usa dire il popolo».
«Si racconta che la vergine Agata, nell’uscire da Palermo per dirigersi alla volta della tua città, si sia fermata ad allacciarsi un sandalo», continuò Ugo.
«E che la sua impronta sia rimasta da allora indelebile sulla pietra. Il popolo colpito da quest’evento venerò il luogo e con il tempo una chiesa vi fu edificata, ma non so dirti ad opera di chi».
«Molto interessante. Il mio amico Lindemio sarà contento di udire questa storia!», soggiunse Antonio.
«Questa non è la sola leggenda legata a questa porta. Ti narrerò di un atto di coraggio che mi è stato raccontato da mio padre e che è noto a tutti in città. Riguarda un valoroso cavaliere normanno. Pare che questo giovane guerriero coraggioso e un po’ spavaldo, che mi ricorda qualcuno…».
«Ehmm!».
«Dicevo», continuò Ugo, «questo cavaliere durante l’assedio della città, difesa dagli arabi, ai tempi del padre di mio nonno, si fece beffa degli avversari. Questi, nonostante l’assalto di Ruggero alla città, tenevano aperte la loro porte poco curandosi dei guerrieri che li assalivano e tenendoli in grande spregio. Il cavaliere, allora, entrò in città e causò danni e scompiglio riuscendo persino a uscire da un’altra porta e ricongiungersi incolume al suo esercito».
«Ogni pietra sembra raccontare una storia qui!», soggiunse Antonio.
«In effetti è così! Ma aspetta a vedere il Palazzo Reale, non hai mai visto nulla di così bello nella tua vita».

Continuarono a camminare ed entrarono dalla parte meridionale della città. L’edificio che non si poteva non notare era, come gli spiegò Ugo, il Palazzo Nuovo, costruito con pietre squadrate con prodigiosa precisione. Il Palazzo dava il benvenuto a coloro che giungevano dalla parte inferiore dell’isola. Circondato all’esterno da mura, era accompagnato da due imponenti torri di cui una detta la Pisana, per la custodia dei tesori, e l’altra la Greca. Il palazzo era detto nuovo per distinguerlo dal Palazzo Vecchio, sul lato nord di Palermo, detto anche Castello a Mare, che si ergeva a baluardo dei flutti con le sue numerose torri. Continuando a conversare piacevolmente raggiunsero la via marmorea. Entrati, dopo un po’, in una stradina laterale arrivarono finalmente alla Locanda del Puledro Impennato, dove si ristorarono dalle fatiche del viaggio. Riposato che fu dal viaggio che aveva appena compiuto, Antonio decise di visitare da solo la città. Così, uscito dalla locanda, si avventurò per la via principale che attraversava Palermo da una parte all’altra: la via marmorea appunto.

Palermo era una splendida città, fiorente di commerci e culla di tante civiltà. Seconda città più grande d’Europa vi si potevano incontrare genovesi, veneziani, greci, maomettani, ebrei e cristiani. La ricchezza e la varietà delle vesti dei suoi abitanti non facevano che affascinare Antonio, il quale spesso ne osservava gli abitanti che si recavano a fare commissioni o a prendere acqua alle fonti disseminate per tutta la città. Vi erano diversi mercati e fra questi quello detto Baiharu era particolarmente grande. Fornito di merci provenienti dall’Africa, dall’Italia del nord, dall’Oriente e naturalmente da tutte le parti della Sicilia, questo mercato era estremamente vivace. Il profumo colorato delle spezie inebriava l’animo e si fondeva con il vociare dei venditori che cercavano di sovrastare la caciara della folla. Antonio sentiva parlare siciliano, greco, latino, arabo, e tanti altri dialetti a lui sconosciuti. Il mercato sembrava come un campo di grano dove folate di vento facevano piegare gli steli delle piante formando come un sentiero, che ora si allungava in una direzione ora in un’altra. Donne completamente coperte dalla testa ai piedi da un drappo nero che lasciava intravedere solo gli occhi, con i quali potevano orientarsi tra la folla. Altre erano riccamente vestite con veli di filigrana d’oro e d’argento. Si vedevano frati benedettini, con il loro saio color della terra, che risaltavano fra la folla per la tonsura della testa. Mercanti, dazieri, cambiavalute, mendicanti e ancora avvocati e medici. Una varia umanità passava per i mercati della Palermo di Federico.

In tutto quel bailamme, fra la folla assordante, c’era un uomo con la barba lunga fino a terra vestito con una tunica bianca di lana. Egli sembrava ignorare tutto quel fracasso e pareva che, a differenza dei più, non fosse sfiorato dalla calca che affollava il mercato. Come se fosse cosciente dello sguardo indagatore del catanese, l’uomo alzò lo sguardo e gli sorrise. Antonio incuriosito dallo strano accadimento, si affrettò verso lo sconosciuto ma una corrente tra la folla lo spinse, suo malgrado, nella direzione opposta. Dopo pochi attimi, quando riuscì nuovamente a dirigersi nella giusta direzione, l’uomo era scomparso. Lo cercò con lo sguardo ma senza riuscire a trovarlo. Poi abbandonò le ricerche, pensando che avesse sorriso a qualcuno nella sua direzione e archiviando l’accaduto come una coincidenza.

La sera, quando le campane stavano suonando per la terza volta e Antonio stava rientrando negli alloggi che gli erano stati dati, rispettando il coprifuoco imposto a Palermo in quei giorni, lo rivide nuovamente. Stava seduto per terra in una strana posizione. La gamba sinistra era ripiegata e il piede corrispondente era appoggiato sulla coscia destra, con la pianta rivolta verso l’alto. Allo stesso modo l’altra gamba era similmente appoggiata sulla coscia sinistra. Un turbante gli ricopriva il capo e un perizoma, forse di cotone o lino, lo cingeva alla vita. Per il resto era nudo. L’abito bianco che vestiva quella mattina era semplicemente ripiegato e posato a terra, accanto a lui. Adesso lo poteva vedere meglio, nonostante la penombra. Era molto vecchio con una barba lunga che, nella posizione in cui si trovava adesso, stava attorcigliata fra le gambe come fosse un serpente che ogni tanto si muovesse in accordo con la sua testa. Sembrava come se non fosse presente. Aveva gli occhi aperti che fissavano il vuoto e l’atteggiamento di chi sta pregando, ma il volto era serio e sembrava essere diverso dall’uomo sereno e sorridente che aveva visto nel mercato la stessa mattina. Ma era indubitabilmente lui.

Antonio, dopo averlo osservato attentamente, gli si avvicinò con circospezione. Ma neanche l’avvicinarsi o il mettersi direttamente davanti al suo sguardo, che appariva come spento e perso in chissà quali pensieri, gli permise di farsi notare. Provò a destarlo da quel suo strano torpore alzando la voce in modo da farsi udire, ma neanche quello funzionò. Alla fine si risolse ad aspettare sedendogli accanto. Dopo aver pazientato per un bel pezzo, e già le ombre della sera si allungavano sopra di loro, come dal nulla il vecchio esordì: «Salute a te straniero, cosa desidera il tuo cuore?».
«Come conosci la mia condizione e cosa ti fa pensare che io cerchi qualcosa?», disse Antonio.
«Il tuo modo di guardare il mondo mi dice molto di te», sorrise il vecchio.
«In che senso. Spiegati vecchio!», soggiunse Antonio con gentilezza.
«Devi sapere figliuolo che tutti su questa terra sono figli di Allah, il misericordioso! No, non è necessario dirmi che sei un cristiano, lo vedo da me», aggiunse ancora il maomettano.
«Comunque lo si chiami è Dio che genera i nostri destini. Vedi ognuno di noi è alla ricerca di qualcosa. Che sia vecchio, giovane o sulla soglia della morte. Tutti siamo fratelli in questo. Non siamo altro che viandanti in una notte oscura. Unica lucerna che può indicarci il cammino è la nostra ragione».
«Ma a volte la ragione ci spinge a commettere azioni che non vorremmo fare!», ribatté Antonio.
«È vero cristiano», rispose il saggio, «e tu come ti comporti in questi casi?».
«In genere ascolto il mio cuore, ma non sempre. In realtà non sono rari i momenti in cui la mia mano non ha la completa fiducia del mio cuore!».
«Invero la ragione è una delle due sorelle che ci guidano. Non può esserci l’una senza l’altra. Esse vanno sempre a braccetto o almeno così dovrebbe essere», disse il vecchio.
«E chi è l’altra sorella?», chiese con insistenza Antonio.
«Poiché cerchi il vero la pietà del cielo ti dia la conoscenza». E dopo lunghi istanti durante i quali Antonio attese pazientemente, riprese: «L’amore! La forza della ragione è importante, ma se questa non è illuminata dall’amore non porterà a nulla di buono. Ricorda figlio, un vostro sant’uomo, un giorno disse: “Ama e fa ciò che vuoi”».
«Agostino di Ippona! Si mi ricordo, me ne parlò padre Giovanni», chiosò Antonio.
«Il mio nome è Antonio e tu come ti chiami saggio padre?».
«Kassam. Che possa trovare la tua strada, Antonio, e che Allah sia con te!».
«Se avrai bisogno di un amico io ci sarò», rispose Antonio, e con questo si allontanò che la sera era già inoltrata.

Antonio fu confermato nella sua posizione di guardia personale del Re. Grazie a questo prestigioso incarico e al favore del suo Capitano, Ugo di Troina, prosperò alla corte di Federico II. Ebbe occasione di studiare meglio il latino e di conoscere un po’ di greco e di arabo. Inoltre, frequenti incontri con il saggio Kassam lo fecero progredire più speditamente nella conoscenza delle cose del mondo di qua e di là. Banchetti, feste e frequenti cacce rallegrarono i mesi alla corte del sovrano. Fino a quando giunse il momento di partire. Federico II a lungo aveva procrastinato la partenza per la Terrasanta. Adesso su ordine papale doveva andare. Si costrinse a partire alla volta dell’Egitto dove si trovava il nipote di Saladino il grande, al Malik al Kamil, che aveva giurisdizione su Gerusalemme la Sacra. Antonio, come parte della guardia lo accompagnò. Le esperienze che fece durante questo viaggio furono innumerevoli. Parlò e conobbe saggi e uomini di potere, monaci e imam, cammellieri e contadini. Per non parlare delle terre che attraversò e dei popoli e delle usanze con cui entrò in contatto. Molti dubbi furono chiariti al suo animo ed egli conobbe la pace interiore. Inoltre il sovrano lo ricompensò per i suoi servizi in onore e in beni di fortuna.

Con questo bagaglio Antonio, al seguito di Federico, approdò in Sicilia. Qui con l’assenza del Re erano scoppiate rivolte per ogni dove causate dalla sete di potere dei baroni e dal desiderio di autonomia dei comuni.

Continua il 13 Luglio...