Era maggio, il sole primaverile rideva e mi schiacciava la testa. Camminavo in un vialone larghissimo pieno di negozi. Mi scontravo con la folla cercando un posto dove comprare una qualsiasi cosa carina, ma allo stesso tempo non volevo proprio entrare da nessuna parte. Presa dal panico mi addossai al muro, tentando la fuga. Finii chissà dove, schiacciata tra la gente carica di sacchetti e barboni accasciati a terra. Sospirando mi guardavo attorno. Sul pavimento, seduto a gambe incrociate, notai un ragazzino con i capelli verdi e gli occhi bruni. Sembrava perso quanto me, e proprio per questo pensai di chiedere a lui qualche indicazione: "Scusa, sai dove siamo?"
"Oh, ho l’impressione che qui ci fosse una pineta", rispose muovendo le sopracciglia folte.
"Che vuoi dire?"
"Sono un po’ confuso, casa mia è sparita".
"Chi sei?"
"Ecco, non ne sono più sicuro ormai".
"Dove vivevi?"
"Crescevo con gli alberi".
"Ripartiamo da zero: come ti chiami?"
Mi chiamavano spirito della pineta… della pineta… non ricordo più il nome della pineta", si rabbuiò.
"Quanti anni hai? Non hai una famiglia?"
"Ho vari anni. La famiglia non so, ma avevo le gocce di rugiada e gli aghi e le pigne odorose di resina... ".
"Se qui c’era una pineta, l’hanno di sicuro abbattuta per costruire la città", risposi.
"Devo ritrovare la mia pineta!" pianse il ragazzino.
Gli porsi la mano: "Per prima cosa alzati".
Non appena le nostre dita si sfiorarono sentii il corpo fresco, come inondato di una brezza leggera, e rividi me bambina, saltare sotto i pini nelle chiazze di sole. Sentivo le lacrime raccogliersi nei miei occhi, emozioni dimenticate rinverdire in un istante. Il ragazzino mi sorrise. "Ci… conosciamo?" chiesi io. Socchiuse le labbra: "Meno male", rise, "che qualcuno si ricorda di me". E la sua risata era cristallina, dolce, disumana. Mano nella mano cominciammo a camminare. Era strano: mi pareva di tenere allo stesso tempo la mano di mio figlio, di mio padre, del mio ragazzo, di mio nonno, e persino dei miei antenati sconosciuti.
"Dove stiamo andando?" mi chiese a un certo punto. Io mi riscossi: "Boh, che si fa?". Poi mi ricordai di avere il cellulare in tasca: "Aspetta, controllo su internet". Scoprii che il parco più vicino era a quattro fermate di metrò. Il ragazzino mi fissava. "Ok, fidati di me" dissi, e lo condussi sotto terra. Lui stava in silenzio e gli sudava un po’ la mano. Dopo poco eravamo davanti ai cancelli del parco. Il ragazzino mi lasciò la mano e corse dentro, io lo seguii. Il sole era così bello tra le foglie e sui fiori! L’aria diversa, come per magia. Il ragazzino carezzava il tronco di un castagno, mi avvicinai sorridendo. Lui si voltò: "Chissà se ci sono dei pini… ". "Beh, penso di sì. Ma se vuoi posso cercare su internet la pineta più vicina. So che nessun posto sarà mai come la tua pineta però… ". "Oh, per ora voglio stare un po’ qui", m’interruppe sovrappensiero. Le ombre del bosco danzavano sui nostri visi.