Oggi, nel mondo, esistono oltre 120.000 aree protette, pari al 13% delle terre emerse. La prima area protetta della storia fu il Parco Nazionale di Yellowstone, negli Stati Uniti. Quando venne creato, nel 1872, i nativi che vi vivevano da secoli furono inizialmente autorizzati a restare, ma cinque anni dopo furono costretti ad andarsene. La convinzione delle autorità era che a sapere cosa fare per il bene dell’ambiente fossero gli scienziati conservazionisti, e che essi avessero il diritto di liberarlo dalla presenza di qualsiasi essere umano. Lo sfratto dei nativi dal neo-nato Parco di Yellowstone causò battaglie tra le autorità governative e le tribù degli Shoshone, dei Blackfoot e dei Crow; in una sola e singola battaglia si dice siano morte 300 persone. Anche il territorio del parco ne risentì perché, sfrattati i popoli indigeni, alci e bisonti cominciarono a sfruttare i pascoli in modo eccessivo.

Da allora, purtroppo, questo modello di conservazione fondato sugli sfratti forzati è diventato consuetudine in tutto il mondo, con impatti devastanti non soltanto per i popoli indigeni, ma anche per la natura. Il motivo è semplice: questo tipo di approccio – che si adopera per creare “aree inviolate”, libere dalla presenza umana - manca completamente di riconoscere il ruolo giocato da questi popoli nel plasmare e alimentare il mondo naturale.

I popoli indigeni, infatti, sanno prendersi cura dei loro ambienti meglio di chiunque altro, perché è dall’ambiente che dipende la loro sopravvivenza. Nel corso delle generazioni hanno sviluppato stili di vita sostenibili e una conoscenza approfondita delle loro terre; per questo sono motivati a proteggerle più di chiunque altro. Sono i migliori conservazionisti. Qualche numero aiuta ad avere un quadro generale della situazione: l’80% della biodiversità terrestre si trova nei territori dei popoli indigeni, e la stragrande maggioranza dei 200 luoghi a più alta biodiversità del mondo si trova nelle terre indigene.

In Amazzonia, ad esempio, i dati scientifici dimostrano che quando i territori indigeni vengono demarcati ufficialmente e sono gestiti direttamente da questi popoli, la protezione della foresta è molto più efficace. Le immagini satellitari sono davvero impressionanti: in alcuni luoghi la deforestazione si ferma proprio laddove cominciano i territori abitati dalle tribù. In Asia, invece, sono numerosi i casi – come quello del Parco Nazionale di Chitwan in Nepal – che dimostrano che il numero di tigri può essere più alto nelle aree in cui vivono i popoli indigeni. E la lista potrebbe continuare…

Una volta cacciati dalle loro terre i popoli indigeni perdono la loro autosufficienza, mentre l’ambiente – privato dei suoi tradizionali guardiani – ne risente perché il bracconaggio e lo sfruttamento eccessivo delle risorse aumentano di pari passo con il turismo e le imprese. Gli sfratti rischiano quindi di distruggere sia la vita dei popoli indigeni sia l’ambiente che essi hanno plasmato per migliaia di anni.

Con l’obiettivo di denunciare il lato oscuro della “conservazione” e chiedere il rispetto dei diritti indigeni, Survival International ha lanciato di recente la campagna “Parks Need Peoples” [1], ovvero “I parchi hanno bisogno dei popoli”. Nell’omonimo rapporto appena pubblicato, Survival spiega come la conservazione abbia portato allo sfratto di milioni di indigeni dalle “aree protette” e indaga su alcuni casi particolarmente critici.

Tra questi, quello dei “Pigmei” Baka del Camerun sud-orientale, costretti a lasciare le loro foreste perché gran parte della loro terra ancestrale è stata trasformata in parchi nazionali o aree per i safari di caccia. Vengono accusati di “bracconaggio” perché cacciano per nutrirsi, e rischiano di essere arrestati, picchiati, torturati e uccisi dalle squadre anti-bracconaggio, che dipendono largamente dal sostegno finanziario e logistico del gigante della conservazione WWF. Oggi i Baka vivono in villaggi ai margini delle strade, e molti denunciano che le loro condizioni di salute si sono deteriorate. Proprio mentre gli indigeni vengono criminalizzati come bracconieri, però, il traffico di carne di selvaggina da parte degli operatori commerciali continua a gran ritmo.

Drammatica anche la situazione in Botswana, dove le comunità Boscimani che hanno vissuto nel deserto del Kalahari per generazioni sono state sfrattate e trasferite in campi governativi che gli indigeni hanno definito “luoghi di morte”. Nonostante una sentenza della Corte Suprema abbia riconosciuto il loro diritto a vivere e cacciare nella terra ancestrale, la Central Kalahari Game Reserve, i Boscimani vengono abitualmente picchiati e arrestati dai guardaparco proprio perché cacciano. Nel frattempo, però, nella riserva sono state autorizzate l’estrazione di diamanti e la pratica del fracking, ed è stato aperto un complesso turistico di lusso.

In India, infine, sono moltissimi gli indigeni che sono stati sfrattati dalle numerose riserve delle tigri, o che vengono perseguitati per costringerli ad andarsene. Il diritto a gestire e proteggere le foreste gli viene negato. I risarcimenti promessi consistono in ben poca cosa; le famiglie si disperdono e si ritrovano a vivere ai margini del loro territorio, nello squallore più totale.

Purtroppo, questi tre casi sono solo esempi: in tutto il mondo, infatti, i popoli indigeni devono pagare i costi di un modello di conservazione che, semplicemente, non sta funzionando. Anche recenti, e costose, iniziative internazionali come “United for wildlife”– di cui fanno parte giganti della conservazione come The Nature Conservancy e Conservation International – sono quantomeno controverse perché mancano di riconoscere che i popoli indigeni che cacciano per nutrire le loro famiglie non sono “bracconieri”.

A dispetto di quanto afferma nei suoi documenti ufficiali, l’industria della conservazione continua a sostenere programmi che comportano l’alienazione e l’abuso dei popoli indigeni. In questo modo, però, finisce per tirarsi la zappa sui piedi, perché crea una massa di persone che vedono i conservazionisti come nemici.

“Il tempo sta per scadere, sia per l’ambiente che per i popoli indigeni. Le organizzazioni per la conservazione devono ripensare radicalmente il loro modo di lavorare” afferma il Direttore generale di Survival International Stephen Corry. I conservazionisti dovrebbero allearsi con i popoli indigeni: imparare da loro, rispettarli, ascoltarli, e aiutarli a difendere le loro terre.

I segnali che dimostrano che questo cambiamento è necessario, purtroppo, sono moltissimi… ma il lupo saprà cambiare il suo pelo? L’industria della conservazione è troppo legata allo status quo – e a cercare di soddisfare gli interessi di partner influenti come multinazionali e governi – per cercare davvero di contrastare la crisi del mondo naturale?

Testo di Alice Farano
Survival International
http://www.survival.it

Per maggiori informazioni:
[1] Parks Need Peoples, http://www.survival.it/parchi