Nella storia di Peter Pan si legge a un certo punto che i bimbi perduti “Sono i bambini che cadono dalle carrozzine non appena le bambinaie guardano da un'altra parte. Se nessuno li reclama, dopo sette giorni partono per l'isola e non torneranno più”.
In realtà questa isola è definita dall'autore del romanzo, James Barrie, “l'isola-che-non-c'è”, conferendole così un senso di mistero e di inquietudine. E nell'“isola-che-non-c'è”, narra sempre la storia, è vietato pronunciare la parola “mamma” perché solo il suo suono richiamerebbe un senso di vuoto, attiverebbe un dolore impensabile che devasterebbe la mente impedendole di controllare gli attacchi di Capitano Uncino e di far fronte al “grande coccodrillo”, personaggio primordiale che, con la sveglia nella pancia, segna inesorabilmente lo scandire del tempo.
L'“isola-che-non-c'è” sembra proprio rappresentare il “non posto”, cioè il non sapere dove stare, il sentirsi a disagio e stranieri in qualsiasi parte ci si trovi, senza il conforto di una casa-rifugio, senza ancoraggio a un porto sicuro. L'“isola-che-non-c'è” simbolizza anche il vuoto dell'anima e la sensazione di tristezza infinita quando si percepisce inesorabilmente persa la madre reale, ma soprattutto “la madre interna”, cioè quella possibilità di farsi compagnia anche stando da soli, quella sensazione di pace e di stare bene con se stessi che fornisce un senso di sicurezza e di stabilità. La pienezza interiore permette di essere in grado di orientarsi nei propri percorsi, di avere fiducia nella vita, di trovare appoggi a cui aggrapparsi, tutte situazioni positive indispensabili per vivere.
La storia di Peter Pan è spesso interpretata come difficoltà a lasciare il paradiso dell'infanzia felice per entrare nel tormentato e problematico mondo degli adulti, ma credo che si possa anche leggere come l'impossibilità di vivere l'infanzia serenamente e, di conseguenza, l'adolescenza in tutta la sua pienezza. Infatti, solo se questi periodi della vita sono intensamente vissuti e conquistati si possono lasciare andare senza troppa paura, altrimenti si è sempre impastati nell'ansia del poterli finalmente possedere e sperimentare. Il sentimento di malinconia è la sofferenza che connota la solitudine, in pratica è il vissuto di “mancanza di mamma-buona dentro”, e ciò comporta una certa difficoltà a crescere e a cavarsela nella vita poiché non si possiede un equipaggiamento mentale ed emotivo adeguato.
E a proposito di mamma, incontro Fanny, una donna di circa 70 anni, madre di tre figli, Paola di 45 anni, Marco di 42 e Giovanni di 39. E' una persona giovanile e affascinante, dallo sguardo intelligente e, a volte, meravigliato, è una donna colta e molto curiosa della vita, sempre attratta dal sapere e dal vivere in prima persona esperienze sociali e culturali. Ci incontriamo, non per parlare di massimi sistemi su cui Fanny normalmente si muove con scioltezza e competenza, ma di emozioni, argomento scottante in cui le certezze sembrano traballare, ma confidiamo che il pensare assieme forse ci aiuterà ad andare più in fondo nella comprensione. E' di sua figlia Paola che vogliamo parlare, Paola bambina, ragazza e poi donna che ha sempre manifestato difficoltà nel muoversi nella vita: le separazioni, le relazioni con l'esterno, il riconoscimento dei propri desideri sono sempre stati motivo di angosce profonde.
I passaggi della crescita, le prime autonomie, gli innamoramenti hanno comportato per Paola delle fatiche emotive, a volte intollerabili, tanto da essere costretta a restringere sempre di più il suo spazio di libertà e di movimento per sentirsi protetta e non esposta ai pericoli del vivere. La vita è sempre stata percepita da lei come un campo di battaglia dove gli altri rappresentano inesorabilmente il nemico da combattere o, meglio, da evitare con cura, per poter sopravvivere. Che tormento, che paura, che batticuore! Uscire di casa col terrore di essere catturati dai vari Capitan Uncino o di incontrare il “grande coccodrillo”. È davvero lancinante per una madre scoprire e rendersi conto degli impedimenti che imprigionano la propria figlia in una sorta di carcere interno. È terribile anche perché è difficile accettare e trovare una motivazione logica a tanta sofferenza, soprattutto se appare nella mente la domanda inquietante: starà così male a causa mia? Certo è un argomento doloroso, che può suscitare comprensibili resistenze, ma man mano che il discorso si dipana, Fanny diventa sempre più ricca di ricordi e di particolari che descrivono il suo rapporto con la figlia.
Col proseguire del racconto, si manifesta in maniera evidente il tormento di Paola nella ricerca del proprio spazio, il luogo dove ritrovarsi, dove sentirsi riconosciuta, il luogo del benessere, della pace, della tranquillità. Ma questo posto per lei sembra proprio difficile da conquistare, sembra non esistere né come nome, né come collocazione e tanto meno come base sicura su cui appoggiare i piedi con fiducia, lasciarsi andare e finalmente riposarsi. Che stanchezza per Paola questa ricerca affannosa del posto che per ora ancora non c'è, come fare per trovare ristoro alle sue ansie, al senso di vuoto che infligge la paura di perdersi? I bimbi persi, ci racconta sempre Barrie, hanno bisogno di essere cercati e ritrovati per non cadere nel baratro del nulla, dell'“isola-che-non-c'è”.
Ricordo a Fanny la fiaba di Peter Pan e le leggo il passaggio che riguarda i bambini caduti dalle carrozzine; le chiedo, poi, se le pare che sia capitato anche a lei di essere stata con Paola un po' come le balie distratte che guardano dall'altra parte e perdono, senza volerlo, i piccoli. “Ripercorrendo con la memoria gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza di Paola, con la consapevolezza che ho acquistato sull'importanza degli affetti che una relazione madre-figlia hanno sulla crescita e lo sviluppo dell'autonomia della figlia, posso riconoscere di essere stata anch'io una "balia distratta". Ma distratta da cosa? Paradossalmente, e mi costa dirlo, dalla mia mente e dalla mia evoluzione di persona-individuo. Sposata giovanissima, sono subito diventata mamma di tre figli, ho lasciato il lavoro che mi appassionava e ho vissuto con loro la meraviglia della creazione del mondo attraverso i loro occhi, le loro parole, i loro giochi. Ritornata al lavoro, mi sono trovata immersa in un contesto sociale e politico di grandi cambiamenti: era il '68!
Fin da bambina ho sempre amato pensare, riflettere: mia madre mi chiamava “la filosofa di casa”. Le rivoluzioni culturali del '68 e del femminismo mi hanno stimolato a sottoporre a critica approfondita le mie idee sulla appartenenza religiosa e politica, sul ruolo di moglie e di madre. Ho letto, discusso e ho affrontato conflitti cognitivi ed emotivi con mio marito. Davo per scontato che i miei figli si sentissero protetti dal mio amore che non gli ho mai fatto mancare. Solo a posteriori mi sono resa conto di quanta incertezza e paura avevo provocato in loro. Pensavo che le idee messe a confronto sul tavolo di cucina avrebbero appassionato anche loro, ma questo purtroppo non è accaduto e io non me ne ero accorta… Così, presa dai miei pensieri, volevo fare il meglio per loro scegliendo tra i dettami della pediatria, psicologia e addirittura psicoanalisi. È stata la sofferenza conclamata di mia figlia che ha rivoluzionato la mia mente. Perché non avevo colto tanti piccoli segnali che lei mi aveva inviato?
Il dolore condiviso mi ha costretto ad abbandonare le mie certezze, la mia ricerca di una verità, per patire nella mia carne il suo dolore e accogliere nel mio cuore il labirinto del suo percorso di crescita alla ricerca della liberazione”. Fanny con questa accorata testimonianza ci ha aperto la porta rendendoci partecipi dell'intimità dei suoi pensieri con grande generosità. Capiamo che è stata la sua passione per Paola che l'ha condotta a cercarla, a sfidare i pirati di Capitan Uncino, ad affrontare il grande coccodrillo, per riportarla a casa e sottrarla alla solitudine dell'“isola-che-non-c'è”. “Peter Pan spiegò a Wendy e ai suoi fratelli che venivano sotto le finestre ad ascoltare novelle. -Nessuno dei bimbi perduti ne conosce -, confessò”.
E Fanny, ripensando sua figlia, si è resa emotivamente disponibile a “sognare” il loro rapporto e a raccontare la loro storia, davvero ingrediente prezioso per entrambe: per Fanny al fine di riscoprire “con la pancia” il suo ruolo di madre e per Paola l’occasione straordinaria di percepirsi davvero ospitata dentro la mente materna, una mente pienamente disponibile, finalmente carnale e non imbrattata da teorie, recuperando così il contatto originario, fatto di quella sensorialità appagante dove odori, calore, suoni familiari generano una rassicurazione profonda, ma soprattutto dove si realizza la pacificante sensazione di sentirsi in un posto, il proprio posto che finalmente c'è.