È davvero una musica diversa la melodia che emana dai pensieri delle donne, le loro parole esprimono un modo di esperire e argomentare la vita che dà una sensazione di leggerezza, ma anche di completezza, di consistenza e di equilibrio. Questo succede quando le donne sono vere, cioè libere dal dover essere o apparire e perciò sono più a contatto con la loro essenza, quando anche si concedono di fermarsi a riflettere sulla loro esperienza, quando hanno l’opportunità di cercare il significato delle cose, quando si confrontano tra di loro, ma anche con la cultura maschile facendo un lavoro di cernita rispetto a quello in cui possono riconoscersi o meno, quando si danno il permesso e l’onore di essere donne senza sentirsi troppo arrabbiate col mondo maschile, quando non hanno bisogno di essere troppo competitive o rivendicative. Allora possono mettersi in ascolto del loro modo di essere, di scoprire un loro linguaggio, una loro filosofia della vita, di riconoscersi una specificità che non ha bisogno di essere la bella o la brutta copia di qualcos’altro, un’unicità che si manifesta nella disponibilità alla ricerca e all’incontro col nuovo, nel coraggio di non ancorarsi al noto e alle certezze, ma che rivela un approccio tutto speciale all’avventura dell’esistere.
Quando le donne parlano davvero di sé, le loro parole riescono a incarnare il racconto che germinano, sono parole fatte di carne e ossa, sostenute da una struttura logica, razionale ma che, allo stesso tempo, è appassionatamente colorata da emozione. In questa scoperta e manifestazione di sé, in questo sentire al femminile, si sostanzia l’idea di bellezza. Ho incontrato a una cena milanese tra donne, Luisa Fressoia che, tra una prelibatezza e l’altra, raccontava di un suo lavoro-laboratorio di scrittura e pensiero con un gruppo di donne. Mi ha molto incuriosito e le ho chiesto un appuntamento per saperne di più.
Mi ha molto solleticato l’esperienza di cui parlavi l’altra sera e mi piacerebbe approfondire la questione, ma prima vorrei che tu ti presentassi. Cosa mi vuoi dire di te?
Non è così facile parlare di sé, inizierò a raccontare che cosa faccio. Sono una pedagogista che si occupa di educazione alla Diversità, in particolare di pedagogia interculturale. Il mio impegno ha riguardato per numerosi anni l’integrazione scolastica degli alunni stranieri, problematica che stava al momento giungendo alla ribalta nel nostro Paese e che ho affrontato nell’ambito di un progetto ministeriale, da me realizzato, di sperimentazione didattica di educazione interculturale nelle classi della scuola dell’Infanzia e della scuola Elementare e Media. Per nove anni sono stata poi Supervisore delle attività di tirocinio dei futuri insegnanti presso l’Università Bicocca di Milano. Negli ultimi anni ho insegnato Pedagogia e Scienze umane in un liceo psicopedagogico di Milano e Pedagogia e Didattica interculturali all’Istituto Teologico di Assisi. Sempre più frequentemente mi dedico a progetti educativi su tematiche che toccano i problemi di giovani e anziani, di genitori e insegnanti, di donne e madri.
Una vita colma di tanto fare, ma in questo arcobaleno di attività cosa ti appassiona maggiormente?
Ciò che in particolare mi appassiona è il processo formativo in quanto percorso di vita attraverso cui ogni persona si forma e si trasforma, in sostanza il processo che evidenzia come si costruisce e cambia l’identità di ciascuno. In fondo le attività che ho svolto e svolgo insieme ad altri ruotano sempre intorno a questo stesso processo, che si attua nell’incontro con l’Altro diverso da sé.
Come si è sviluppata questa tensione verso l’altro? Riesci a individuarne l’origine?
Sì, questo interesse trova probabilmente origine nella mia storia personale. Sono nata a Perugia, ho studiato tra Roma e Perugia; sin dal lontano 1973 ho poi scelto di vivere a Milano (seppur con brevi periodi a Perugia e a Bolzano), affascinata dal clima culturale degli anni Settanta, dalla varietà degli ambienti caratterizzati dall’impegno politico e sociale e soprattutto dalla qualità delle relazioni umane di questa città che tutt’oggi mi commuove per lo sforzo di accoglienza cui è continuamente chiamata e cui sembra vocata.
Pertanto la Milano tanto spesso incriminata ti ha accolto “col cuore in mano” e ti ha permesso di fare un percorso di conoscenza e di scoperta.
Assolutamente sì, senza dimenticare fatica e ostacoli. Sono stata inizialmente accolta da tre preti operai e ho vissuto con loro un mese intenso in cui ho conosciuto ambienti diversi, connotati umanamente in maniera forte, dalle famiglie operaie alle famiglie di giovani alternativi, fino a quelle rifugiate per motivi politici. Questo è stato il primo contatto con Milano, esperienza che mi ha molto impressionato, tanto da decidere allora di lasciare Roma e stabilirmi a Milano, una città che mi commuove, come ho detto, perché compie molti sforzi per accogliere chi arriva da fuori.
Come hai impostato il lavoro di insegnamento, di ricerca e di formazione?
Nel mio impegno di insegnamento e di attività di ricerca ho potuto sperimentare l’uso delle metodologie autobiografiche, le quali hanno il potere, attraverso la narrazione, di cogliere la vita nel suo farsi, quindi di offrire a chi si racconta la possibilità di mettere ordine e dare profondità agli eventi che l’ha attraversato. L’autobiografia ci rende più consapevoli di noi stessi e degli altri. E il racconto di sé permette l’incontro con l’Altro, aspetto che rende piena la nostra umanità.
In pratica come si è declinata questa esperienza narrativa?
Un lavoro certamente basato sulla narrazione di sé è quello che ho svolto con il gruppo di dieci donne autrici delle storie di vita che, in seguito, ho raccolto nel libro La coda della cometa. Donne di Milano. Storie degli anni Sessanta e Settanta [1], si tratta di donne che, pur provenendo da città italiane diverse, vivono a Milano da molti anni; donne che erano giovani negli anni Sessanta e Settanta e che, ripercorrendo i momenti apicali della propria vita, hanno intessuto un mosaico di voci nella cornice di una Milano vivace culturalmente e politicamente. Ne è uscito fuori un racconto al femminile che Silvia Vegetti Finzi ha definito “straordinario, in quanto racconto corale, proprio di donne e legato a un’epoca specifica” e che ha associato al dipinto del IV Stato di Pelizza da Volpedo.
Come si parlano le donne tra di loro?
Io ho cercato di creare un gruppo misto perché le diverse esperienze potessero dialogare. Il parlare non è sempre stato facile, specie all’inizio, ma col tempo la vera narrazione femminile ti permette di entrare in una dimensione di intimità che ti offre la possibilità di superare le contrapposizioni in cui solitamente si rimane intrappolati; questo ha permesso di superare i momenti di frizione, di approfondire la conoscenza del periodo degli anni ‘60 e ‘70 al di là delle ideologie e di vivere a livello personale il rispetto di ciò che è diverso da sé. Del resto il gruppo è connotato da forti e differenti personalità e diverse erano anche aspettative riservate al lavoro che si andava facendo; per esempio, c’era chi ambiva a fare una ricerca storica e chi mirava a star bene con l’altro e a farne un esperienza personale arricchente. Nella dimensione d’incontro, che abbiamo condiviso, i contenuti emersi dalle storie sono gradualmente risultati intimamente legati sia alla sfera umana e personale sia alla realtà sociale e politica, quindi al contesto storico. I racconti delle donne vengono dunque ad essere documenti a tutti gli effetti, perché attingono dalla vita raccontando la vita. La narrazione che ne fanno le donne non avviene attraverso sentimenti di rivalità e di competizione, ma, come dice Luisa Muraro, “con un’eloquenza calda di affetti e di sentimenti” che spesso diventa poesia. Narrazioni che ci rendono documenti preziosi per leggere e comprendere la Storia ufficiale.
È un parlarsi che coinvolge, che crea nuovi scenari dove i personaggi che animano le storie coinvolgono non solo la mente, ma anche il corpo ha la sua parte. Si può azzardare a dire che le donne usano il linguaggio dello psiche-soma?
Direi proprio di sì, infatti le parole nei racconti di queste donne non sono neutre perché rendono la vita emozionale e dei sentimenti ed è un parlare intimamente legato alla propria identità e personalità, che supera il dualismo corpo-psiche. Ciò è ottenuto anche dal clima di condivisione che crea il gruppo, cessando di mantenere al centro della relazione se stessi e lasciandosi trasportare verso l’altro. Il metodo d’altro canto consente di attivare un rapporto con la propria interiorità, specie attraverso la scrittura, che rende la persona propensa al dialogo e al confronto con se stessa.
Si è formato un vero laboratorio del pensare. Ci puoi aprire la porta e farci entrare in punta di piedi in questa vostra storia?
Le donne hanno raccontato di sé a partire dal corpo, hanno parlato dell’amore, della maternità, del lavoro e della vita pubblica. Vegetti Finzi ha detto che queste donne vengono avanti con la forza e il coraggio di chi entra nella Storia, dopo di che nulla è stato più come prima. Osserva inoltre che il tema emerso con più forza è quello della maternità, esperienza totalizzante che diviene espansione di sé, che amplia gli orizzonti, crea un nuovo rapporto con la natura ed è portatrice di nuove utopie possibili per sé e per la società. Oggi purtroppo le donne più discriminate sono quelle con figli, aspetto che riguarda la maggioranza delle donne, ma che è poco considerato. Le rivendicazioni degli anni Sessanta e Settanta, mirate a poter vivere una maternità libera e consapevole e a ottenere servizi adeguati, sembrano dimenticate. Una battaglia che dovrebbe essere ripresa e continuata.
E tu, come hai vissuto tutto questo?
Mi sono appassionata alla ricostruzione di queste storie, mi hanno toccato in profondità la riflessione e il confronto sorti nel gruppo, specie scoprendo l’originalità di ciascuna in quanto persona e in quanto donna, a partire dall’uso che ognuna fa della lingua, così legata alla propria forma d’intelligenza e di pensiero, così determinante nel dare forma alla vita affettiva e sentimentale; quindi anche di rileggere lo stesso movimento femminista, inoltre mi sono appassionata per l’eredità di valori che le storie di queste donne ci lasciano; per la possibilità che ci danno di rileggere la Storia di quegli anni così carichi di trasformazioni. È interessante, a mio avviso avvertire come, a partire da una stessa epoca storica (che ci lascia contraddizioni ancora da sciogliere) e in molti casi da comuni esigenze e ideali, ciascuna donna ne abbia dato e ancora oggi continui a darne un’interpretazione propria, originale, unica.
Quale altro aspetto ha caratterizzato questo gruppo al femminile?
Senz’altro il riconoscimento e la valorizzazione dell’identità di genere. Queste donne rivendicano la differenza sessuale e ci tengono a non confondersi e a non rincorrere affannosamente modelli di affermazione maschili nella vita personale e nella politica; in controtendenza quindi rispetto alla cultura mediatica attuale, che tende ad affermare un modello androgino di umanità, una sorta di “must” paradossale, poiché generalmente si sbandiera la diversità come ricchezza per poi dimenticare la forma più profonda di diversità, che è data dalla differenza sessuale tra uomo e donna. Dare voce alle donne, pubblicare le loro storie rappresenta un nostro modo di far politica. Per la donna fare politica significa affermare un “modello” di vita che mantiene al centro la cura dei legami, anche in una pluralità di relazioni, in famiglia, nella professione, nell’istituzione e nel fare cultura, quindi diversa dalla politica del potere, tipicamente maschile.
E siamo arrivate anche quest’anno alla fatidica data dell’8 marzo... quale “mimosa” doni alle donne di oggi?
L’augurio è che i valori non vadano perduti. I valori che le storie di queste donne ci donano sono da non perdere e anche se partono dagli anni Sessanta e Settanta, sono in verità rivolti al futuro. Ci trasmettono una grande forza e senso di libertà, ad esempio nel ricominciare dopo un fallimento, nella ricerca di senso nel nostro operare, nell’impegno per il bene comune. Libertà che non s’intende dunque solo come autodeterminazione e soddisfazione dell’impulso, ma come cura, governo di sé attraverso l’assunzione di responsabilità, in vista di conquiste coerenti con un’integrità di corpo e psiche femminili. Tutte le donne del gruppo trasmettono impegno verso una società migliore, a testimonianza di una controtendenza rispetto all’indifferenza per la politica che sembra dominare oggi tra i giovani; il messaggio che riceviamo dalle storie scritte dalle donne è una sorta di mandato transgenerazionale, le loro esperienze, le loro passioni, le loro scelte sono valore da cui trarre l’energia per credere e progettare con fiducia il futuro.
In questo percorso così forte l’uomo come si posiziona? Ha un posto o è estromesso? L’uomo, pur sullo sfondo trattandosi di storie di donne, non viene ad essere l’interlocutore principale?
Nei loro racconti le donne esprimono l’esigenza e il desiderio di costruire un’alleanza con l’uomo in vista di un mondo migliore. I tempi della contrapposizione e dell’antagonismo sembrano superati, anche se il rapporto con l’altro sesso (l’uomo, Altro da sé per la donna) suscita problematiche diverse in ogni epoca e necessita pertanto di essere sempre coltivato e negoziato. La necessità di dialogo che rivendichiamo incessantemente, interessa tutti, non può ignorare il rapporto uomo-donna. C’è un tempo in cui la contrapposizione può essere utile alla presa di coscienza, ma bisogna fare attenzione alle forme di irrigidimento del pensiero e alle posizioni ideologiche che bloccano la crescita e impediscono di costruire nuove realtà. Del resto il rifiuto tout court dell’Altro, in questo caso del maschio, nasconde una logica di pensiero che ha a che fare col potere, in quanto visione univoca di sé e in concorrenza con l’Altro; una modalità respingente allo stesso modo l’accoglienza e la morbidezza propria della donna, come ci lascia intravedere la fessura che si apre ne La Madonna del parto di Piero della Francesca, simbolo dell’accoglimento dell’Altro, nella vita del corpo e della psiche femminili.
Questa posizione dinamica e non fissata in un vetero ideologismo paralizzante mi ricorda il funzionamento e lo sviluppo del pensiero che, agli albori, da un’iniziale confusività che crea sofferenza mentale, necessita di fare ordine separando il buono dal cattivo per poi arrivare a un’integrazione di buono-cattivo che forma l’intero. Tornando al tuo laboratorio di scrittura-pensiero di donne, mi pare di poter dire che questa esperienza ha il valore di un dono.
Questa raccolta di storie mi ha donato la speranza nel futuro. Ho potuto sperimentare con queste donne come i diversi credo e fedi politiche, valoriali e religiose differenti, pur dando luogo a volte a confronti vivaci, abbiano potuto convivere e produrre anzi arricchimenti reciproci, permettendo di concorrere alla realizzazione di un progetto comune, mantenendo ciascuna le proprie differenze. Il percorso vissuto insieme ci ha permesso inoltre di maturare un affetto e una solidarietà reciproci che può ben chiamarsi legame: un fatto importante nella società liquida e individualista che pare dominare oggi.
[1] La coda della cometa. Donne di Milano. Storie degli anni Sessanta e Settanta, a cura di Luisa Fressoia, ali&no Editrice