So di non sapere. Socrate ci illuminò secoli orsono, con uno degli assunti filosofici più conosciuti di sempre. Dalla Grecia classica ancora questa presa di coscienza vive e interroga. Nel cuore della Firenze rinascimentale, il Museo Gucci che si affaccia invidiabilmente su Piazza della Signoria ospita negli spazi del suo contemporary art space l'opera video del 2013, Grosse Fatigue della giovane artista francese Camille Henrot a cura di Martin Bethenod. Meritatamente, dal mio personale punto di vista, premiato con il Leone d'Argento all'ultima Biennale d'arte di Venezia, la 55a, era stata fortemente voluta dal curatore Massimiliano Gioni e se ne desume anche il perché.
La Biennale Endiclopedica e Utopica gioniana trova una perfetta e corrispettiva, calzante anima gemella nel lavoro dell'artista francese. Grosse Fatigue è l'impossibile utopica presa di coscienza del saper di non sapere. E' l'infinito e bulimico succedersi di immagini. Un immenso e fagocitante lavoro di ricerca svolto non a caso al più grande complesso museale scientifico al mondo, lo Smithsonian Institute di Washington, che può vantare ben circa 142 milioni di pezzi nelle sue collezioni. Un film di 13 minuti che si muove a ritmo ancestrale di rap musicato dal compositore Joakim e dalla voce dello slammer Akwetey Orraca - Tetteh, che declama in "spoken word" una lunga poesia scritta in collaborazione con lo scrittore Jacob Bromberg. Dal sito dell'artista un breve ma significativo passo:
In the beginning there was no earth, no water – nothing. There was a single hill called Nunne Chaha.
In the beginning everything was dead.
In the beginning there was nothing; nothing at all. No light, no life, no movement no breath.
In the beginning there was an immense unit of energy.
In the beginning there was nothing but shadow and only darkness and water and the great god Bumba.
In the beginning were quantum fluctuations.
Genesi, evoluzione e probabilmente la fine del mondo. L'ambiziosa volontà di voler sovrapporre tutti i racconti scientifici, storici, mitologici, artistici, antropologici, la stessa artista racconta: "Nel mio video la volontà di universalizzare le conoscenze si accompagna alla coscienza che ho di questo atto. Vale a dire che nel momento stesso in cui aspiro a rendere il mondo abitabile mediante una totalizzazione soggettiva, sono anche consapevole della follia di questo tentativo è dei suoi limiti intrinseci".
Grosse Fatigue è sensorialmente affaticante. Davanti a noi si apre un desktop di computer e di pari passo alla declamazione vocale quasi sempre più pressante, in the beginning, in the beginning, in the beginning, si generano e si aprono molteplici finestre, quelle che il digitale ci insegna ad aprire con estrema velocità e facilita, che allo stesso tempo non permettono, diventano un limite fisico nell'assorbimento, nel porre attenzione a ciò che si sta manifestando.
E' allora che si viene travolti dal flusso inarrestabile, di suono, voce e immagine. Mani smaltate ad hoc, tartarughe, onde, biglie, pitture trecentesche, pagine di Wikipedia o libri illustrati scientifici, si mischiano a porzioni di corpi intenti a farsi una doccia, e ancora, animali imbalsamati, custoditi in maniera tassonomica, schedati, inquietanti, sinistri, vengono ripresi con ammirazione e sgomento al Museo di storia naturale parigino. In alcuni frame, soprattutto quelli dove le protagoniste sono mani femminili, talvolta con arance, uova o bulbi oculari, la regia visiva adottata mi ricorda come un flash l'immaginario pop surreale acido del duo Cattelan-Ferrari in Toilet Paper.
L'Henrot colleziona saperi, li sedimenta, li stratifica in maniera del tutto evanescente e digitale, è come se gli studioli, le wunderkammer cinquecentesche venissero proiettate fluidamente nello spazio immateriale della rete. E poi un click ed è un colpo di spugna, tutto quello assorbito fino a quel momento si dissolve e ricomincia l'aprirsi di nuove finestre. Un Mash Up visivo e sonoro stremante, faticoso, frenetico, estenuante. Un remix che diviene apologia dell'impotenza. Un'ossessione isterica. L'accumulo opulescente e virale. Non si può contenere il contenibile, la sensazione che si ha è quella di un eterno infrangersi, un irrompere più grande del grande, una diga spezzata, e il flusso non si può contenere, ci sovrasta folle. Non c'è fine, lo sguardo non può domare, e si china all'orizzonte dell'utopia.
Le immagini continuano sovrane aprendosi a enumerati saperi, e mi colpisce una che eleggerei quasi a emblema, un ranocchio è posto su un'iphone, ecco delicato irrompere il fragile e teso limen tra natura e cultura, la tecnologia ruba all'infazia l'antica fiaba naturale, se si bacia il ranocchio, c'è l'alto rischio che l'amore si proietti nel virtuale anziché nel reale. Quasi una burla, una beffa dei tempi post moderni. E poi l'atto masturbatorio, ma sempre delicato, l'Henrot ha una grande purezza e finezza formale in tutte le immagini che "spara" a ritmo di rap sono proiettili ad alta definizione. La storia a colpi di click. Una guerra all'ultimo sapere e il piacere sensuale dell'impossibilità di un godimento totalitario. Un piacere voyeuristico, che si declina in voyeur-ostico. Tra le infinite finestre compare l'inquadratura su un bacino femminile, e lentamente la mano candida scivola nelle mutandine.
Poi nuovamente un click e un colpo di spugna. Ecco altri interstizi di scibile che si aprono a noi. Alla fine tutte le finestre sono chiuse, e la cartella sul desktop troneggia minimale, una piccola voragine che prova a contenere l'incontenibile. Una matrioska virtuale che assume le sembianze di un archivio infinito, in continuo processo organico. Quello stesso infinito che si ritrova nell'unica scultura esposta, Tevau del 2009. Manichette antincendio arrotolate in un 8 rovesciato, appunto il simbolo del continuum. L'Henrot è poliedrica e ama sperimentare i più diversi materiali e tecniche. Tevau è il nome di un oggetto rituale melanesiano che simboleggia lo scambio in occasione di transazioni importanti come il matrimonio, destinato a ristabilire l'equilibrio. Nell'opera la natura diventa lo stesso flusso inarrestabile di Grosse Fatigue, in un continuo scorrere incessante di passato, presente e futuro. Mi viene alla mente il video La Pluie, project pour un texte del 1969 di Marcel Broodthaers.
Da capo, scrivere, sotto una pioggia incessante. Nuovamente, nell'impossibilità.
In the beginning.
Fino all’8 Febbraio 2015 al Museo Gucci di Firenze.