Dopo la grande mostra dedicata a Edward Weston, il CIAC Centro Italiano Arte Contemporanea di Foligno, nuovamente in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e la sua Fondazione Fotografia ospita fino al 25 gennaio la mostra Visioni del mondo dedicata a Daido Moriyama, fotografo on the road, spirito libero e viaggiatore solitario, tra i maggiori protagonisti della fotografia contemporanea giapponese.
Curata da Filippo Maggia e Italo Tomassoni, la mostra raccoglie una selezione di oltre 120 fotografie realizzate dagli anni sessanta fino ad oggi, che ripercorrono l’intensa carriera dell’artista evidenziandone il personale approccio col mondo e offrendo al contempo una lucida visione sulle trasformazioni che hanno segnato la storia giapponese. È una ricerca quotidiana senza fine quella che spinge Moriyama a realizzare migliaia e migliaia di scatti, per anni, per una vita. Immagini dai bianchi e neri contrastati, spesso sfocate, graffiate, sovraesposte o sgranate, che tracciano i contorni di un’esistenza priva di legami con un luogo d’origine o di vincoli dettati dalle convenzioni sociali.
Per Moriyama ogni singola cosa che si offre al suo sguardo è degna di essere fotografata: non è importante il soggetto, né chi sia l’autore, perché non c’è distinzione tra la realtà vissuta e la realtà nell’immagine – spesso fotografie di fotografie tratte da magazine, poster, pubblicità, televisione si mischiano a quelle scattate dal vivo. Ciò che conta è il frammento di esperienza, parziale e permanente, che la fotografia può trovare, quell’unica verità che esiste solo nel punto in cui il senso del tempo del fotografo e la natura frammentaria del mondo si incontrano. Parallelamente alla mostra, è inoltre allestita una selezione di opere video di artisti dell’Estremo Oriente dalla collezione di fotografia contemporanea della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena. Sotto il titolo Asian Contemporary, sono presentate le opere di Tabaimo, Yasumasa Morimura, Miwa Yanagi, Kimsooja e Yang Fudong. Il catalogo della mostra edito da Skira contiene molte delle opere in mostra accompagnate da un’intervista a cura di Filippo Maggia, da un testo critico di Akira Hasegawa e da una biografia approfondita redatta da Francesca Lazzarini. Questa esposizione rappresenta dunque un’occasione per scoprire un maestro della fotografia, le cui immagini rivelano una cifra stilistica personalissima e di straordinaria modernità.
Daido Moriyama. Visioni del mondo
Opere presenti in mostra:
Japan: A Photo Theater
L’interesse di Moriyama per il mondo del teatro nasce in seguito all’incontro avuto nel 1965 con il poeta Shuji Terayama, con cui inizia a seguire diversi spettacoli di compagnie itineranti che lo scrittore avrebbe dovuto recensire per la rivista Haiku. Nonostante la collaborazione tra i due termini poco dopo, Moriyama continua il progetto e inizia a fotografare numerosi teatri, a Tokyo come in altre città del Giappone. Gli scatti migliori saranno pubblicati qualche anno più tardi sulla rivista Camera Mainichi sotto il titolo A Japan Photo Theater. Questo primo titolo verrà spesso utilizzato da Moriyama come indicazione complessiva di una lunga ricerca, che negli anni ha visto affiancare alle immagini dei teatri altre fotografie di vita comune, di strade e di persone. Nella serie, il teatro assume un valore quasi simbolico e diviene una chiave di lettura per guardare alla quotidianità, sempre più inserita in un sistema di consumo e di intrattenimento. Nel gruppo Japan: A Photo Theater 36 fotografie in bianco e nero, stampe ai sali d’argento, dimensioni varie: 27x44,5 cm / 44x58 cm.
A Hunter
A partire dal 1968 il lavoro di Moriyama è sempre più permeato all’interno della cultura beat e all’identità dell’artista inizia a sovrapporsi la figura del viaggiatore solitario, istintivo e senza meta, alla continua ricerca di nuove strade da percorrere e nuovi mondi da raccontare. A proposito di A Hunter, l’ampia serie entro cui confluiranno i scatti di questo periodo ed altri successivi, l’artista racconta: “Una volta ho realizzato una fotografia che si intitola A Hunter, l’idea è quella di andare a caccia della realtà che si ha davanti agli occhi, di ciò che ci sta intorno e che abbiamo dinnanzi a noi. Questo è il mio più grande stimolo e per me l’atto del fotografare non è che una reazione istintiva a questo stimolo. Si tratta di un continuo botta e risposta tra me e la realtà. In questo modo vedo, conosco e partecipo alla vita sociale che mi circonda.” Nel gruppo A Hunter 35 fotografie in bianco e nero, stampe ai sali d’argento, dimensioni varie: 27x44,5 cm / 44x58 cm / 90x64 cm / 153x101 cm.
Lucky Artist
Negli anni i viaggi di Moriyama si spingono anche al di là del Giappone, negli Stati Uniti così come in tutta l’Asia. Queste immagini appartengono a due serie realizzate rispettivamente a Shanghai e nel sud-est asiatico, che l’artista ha selezionato come sua personale risposta alla domanda “sei un artista fortunato?”, posta da Fondazione Fotografia in occasione di una sua mostra tenuta a Modena nel 2010. In un’intervista rilasciata qualche anno fa, l’artista ha affermato: “Molte delle città che ho visitato e che sono rimaste nei miei ricordi, le luci che vi ho trovato, ognuna delle quali legate a un proprio diverso contesto di memoria, si intersecano e si riflettono dentro di me, in attesa di risvegliare nuovamente luce e memoria. Tutte queste luci e memorie sparse convergono in un unico punto: quello della storia. La fotografia è memoria di luce, è la storia della memoria”. Nel gruppo Lucky Artist 32 fotografie in bianco e nero, stampe ai sali d’argento, dimensioni 55x70cm.
A proposito del suo lavoro, Moriyama spiega: “La realtà proiettata davanti ai miei occhi è quasi tutta un mistero ed è per questo che la indago. All’interno di questo enigma esistono varie sfaccettature: l’erotismo, il dolore, il divertimento… Ci sono molti elementi, la cui totalità costituisce un puzzle infinito. In questo consiste la ragione della fotografia, nella sua capacità di rappresentare questo intrigo, senza però il dovere o la responsabilità di giungere a una soluzione, di svelare l’arcano. Non è possibile comprendere né attraverso una, né attraverso cento fotografie. Camminare per la città per me è come camminare in un labirinto, ed è per questo che mi piace. Non voglio offrire risposte, preferisco lasciare irrisolta la questione, sospesa la domanda su ciò che abbiamo di fronte, anche dopo aver guardato le immagini.” Nel gruppo, 13 fotografie in bianco e nero, stampe ai sali d’argento, dimensioni 22x30 cm.
Asian Contemporary
Opere presenti in mostra:
Tabaimo
Dream diary, 2000
video, 5′ loop
Tabaimo è nata a Kobe nel 1975. Vive e lavora a Tokyo, Giappone e New York, Usa. Nel 1999, all’età di ventiquattro anni, è stata l’artista più giovane ad esser premiata - per l’installazione Japanese Kitchen - al Kirin Contemporary Art Awards e nel 2009 ha rappresentato il suo Paese alla Biennale Internazionale d’Arte di Venezia. Fin dal suo precoce esordio realizza film d’animazione onirici e inquietanti che combinano raffinate capacità di disegno, connotate da forti richiami alla pittura tradizionale in stile ukiyo-e di Hokusai Katsushika, con l’uso di sofisticate tecnologie digitali. Le installazioni coinvolgono lo spettatore in un susseguirsi di immagini in cui il ricorrere dei simboli della cultura giapponese - come la bandiera con il sole rosso, le gru, i fiori – e degli stereotipi sociali - dai suicidi giovanili ai licenziamenti, dal sushi alla condizione femminile - crea un quadro pessimista ma ironico della società contemporanea in cui vive. La video installazione Dream diary è ispirata alla teoria psicoanalitica di Carl Gustav Jung che vede il sogno come una proiezione del futuro. Costruito ricalcando il meccanismo onirico, che procedendo per associazioni è privo di relazioni di causa ed effetto, il video è un susseguirsi di immagini che rappresentano parole chiave del vocabolario dei sogni, individuate dall’artista quali strumenti per affrontare i più gravi problemi della società giapponese. Attraverso tali concetti Tabaimo proietta - in senso letterale e psicoanalitico - la propria visione del Giappone futuro.
Yasumasa Morimura
A Requiem: Laugh at the Dictator, 2007
Video, 10′ 27″
Yasumasa Morimura è nato nel 1951 a Osaka, dove vive e lavora. Tra i più celebri artisti giapponesi contemporanei, Morimura ha fatto dell’arte del travestimento un’efficace chiave di lettura di cultura, miti e storia del nostro tempo. Dopo aver interpretato in prima persona opere importanti di artisti del passato, come Leonardo da Vinci, Van Gogh, Rembrandt o Vermeer (Self-Portrait as Art History), ed essersi calato nei panni delle più famose attrici del secolo scorso, da Marilyn Monroe a Brigitte Bardot, da Audrey Hepburn a Ingrid Bergman (Self-Portraits as Actress), nella serie Requiem per il XX secolo l’artista analizza la storia del Novecento passandone in rassegna i protagonisti. Utilizzando il video e la fotografia Morimura fa rivivere, attraverso i suoi lineamenti orientali, personaggi quali Mao Tsedong, Einstein, Che Guevara, Lenin o Lee Harvey Osvald.
A Requiem: Laugh at the Dictator è il video dedicato alla drammatica figura di Adolf Hitler, la cui interpretazione è mediata dalla caratterizzazione che ne fece Charlie Chaplin nel film Il Grande Dittatore del 1940. Hitler/Chaplin/Morimura è solo nel suo studio e tiene un accorato monologo. “Non voglio essere un dittatore”, dichiara all’inizio, e prosegue poi ammonendo: “Uno Stato, non solo un individuo può diventare dittatore” e possono trasformarsi in dittature le mode, le tecnologie, le multinazionali e tutti coloro che per vivere meglio sfruttano, anche indirettamente, altre persone. Per questo motivo conclude dicendo: “Sono un dittatore anch’io. Siete dittatori anche voi. Il dittatore del XXI secolo non ha la faccia da cattivo. Il dittatore del XXI secolo è un fantasma che nessuno riesce a vedere. Non voglio essere un dittatore.”
Miwa Yanagi
Kagome Kagome, 1998
video, 12’57″
Miwa Yanagi è nata a Kobe nel 1967. Vive e lavora a Kyoto, Giappone. Il filo rosso che lega tutte le sue opere è un’idea maturata nei primi anni Novanta quando, terminati gli studi alla Kyoto City University of Art, l’artista si dedica per un periodo all’insegnamento: la convinzione di vivere in una società fortemente standardizzata, in cui le persone, e le donne in particolar modo, sono costrette a ricoprire ruoli che invece di ricalcare i loro sogni e desideri, assecondano aspettative ed esigenze altrui. Nella serie fotografica Elevator Girls, come nel video Kagome Kagome (1998), Miwa Yanagi mette in scena, in uno spazio asettico e sintetico, donne vestite di uniformi identiche e dalle movenze simili: sembrano automi intercambiabili, programmati per deliziare chi li guarda o per servire diligentemente un ipotetico avventore. Più che una critica all’omologazione imposta dalla moda - che raggiunge tra i giovani giapponesi forme estreme nei fenomeni di gruppi come i Ganguro, gli Yenkee, i Kogal, gli Otaku, ma che contagia anche gli adulti sempre più assuefatti al richiamo delle griffe - l’artista propone una riflessione sulla difficoltà a costruire la propria identità in un mondo dominato dal consumismo, dove la libertà degli individui viene intaccata fin nella capacità stessa di percepire ciò che realmente si desidera.
Kimsooja
A Homeless Woman – Cairo, 2001
video, 6′ 33″
Kimsooja è nata a Taegu, Corea del Sud nel 1957. Vive e lavora tra New York, Parigi e Seul. La decisione di trasferirsi nel 1998 a New York dopo aver studiato pittura a Seoul e successivamente a Parigi, non sembra aver intaccato nell’artista il legame con le sue origini asiatiche. Le sue opere, esposte nelle più prestigiose sedi internazionali d’arte contemporanea, si avvalgono di linguaggi diversi che vanno dal video alla performance, dal cucito, appreso da bambina osservando la madre, all’uso dei tessuti tradizionali. Il corpo stesso dell’artista è sempre elemento centrale delle performance e dei video. Il suo aspetto è quello tipico della donna coreana, veste tradizionale e lunghi capelli neri raccolti in una coda di cavallo. L’immobilità assoluta di Kimsooja catalizza l’attenzione sui movimenti del pubblico che le si raccoglie intorno e che, preoccupato o divertito, comunque incuriosito dalla scena, cerca un’interazione con l’artista. Il video A Homeless Woman - Cairo è la documentazione di una performance svolta nel 2001, riflessione sul tema dell’anonimia. Stesa a terra, immobile e silenziosa, in una piazza della città egiziana l’artista esercita con perseveranza un progressivo annullamento della personalità. Il suo corpo anonimo e inerme suscita l’attenzione dei passanti le cui reazioni divengono le vere protagoniste del video. Sovvertendo la tendenza individualistica che domina il nostro mondo Kimsooja offre altruisticamente il proprio corpo che, libero dal sé, agisce come un ago capace di connettere tra loro le persone e la realtà circostante.
Yang Fudong
The Half Hitching Post, 2005
35 mm film trasferito su dvd, 7′
Yang Fudong è nato a Pechino nel 1971. Vive e lavora a Shanghai, Cina. Dopo il diploma in Pittura presso la China Academy of Fine Art di Hangzhou la sua produzione artistica si orienta subito verso la fotografia, il video e i film. Accolto sulla scena internazionale fin dagli anni Novanta come giovane promessa, Yang Fudong è oggi considerato uno dei principali protagonisti della nuova generazione di artisti cinesi che, quasi inevitabilmente, pongono al centro del loro lavoro le conseguenze dei cambiamenti economici, politici e sociali che investono la Cina contemporanea. In particolare, l’attenzione dell’artista è volta ad analizzare la relazione tra la nuova generazione di intellettuali e le profonde trasformazioni in atto nel Paese, mettendo in rilievo le inquietudini che caratterizzano il dibattito culturale attuale. Le difficoltà della vita in Cina vengono spesso metaforizzate, nei film di Yang Fudong come una vera e propria lotta per la sopravvivenza. In The Half Hitching Post questo tema viene declinato seguendo il peregrinare di due coppie nell’aspro paesaggio della Cina del nord. Le raffinate immagini, girate in 35 mm, narrano di due giovani che stanchi del rumore e della confusione della città decidono di trasferirsi in montagna. Una seconda coppia conduce una vita monotona e di duro lavoro in un villaggio montano. Anche loro vogliono partire, lasciare quei luoghi poveri e austeri. Agognano la vita frenetica della città. Il lento procedere dei protagonisti sul terreno impervio lascia il tempo di riflettere su come un luogo possa rappresentare per alcuni il paradiso mentre per altri l’inferno.
Daido Moriyama: una conversazione con Filippo Maggia
(estratto dal libro)
Tokyo Shinjuku, 13 maggio 2010
Filippo Maggia: Il tuo vero nome è Hiromichi Moriyama: da dove deriva Daido?
Daido Moriyama: Il mio nome è composto da due caratteri: HIRO + MICHI. Hiro vuol dire “ampio” e michi significa “strada”, quindi letteralmente “ampia strada”. Ma questi due caratteri si possono leggere anche DAI e DO, da cui Daido. La lettura più naturale e immediata sarebbe quindi Daido e la gente quando vedeva scritto il mio nome pronunciava Daido, sebbene ogni volta io spiegassi: no, vi sbagliate: si legge “Hiromichi”. Poi, col tempo ho lasciato perdere e sono diventato Daido.
Quindi è come se il destino fosse già stato scritto nel tuo nome, dato che il tema del viaggio è centrale nel tuo lavoro e di strada ne hai davvero percorsa tanta.
Sì, infatti in qualche maniera deve esserci un collegamento, anche se a dire il vero preferisco le piccole strade a quelle grandi. In realtà, comunque, le strade sono il teatro di moltissime mie fotografie, in alcuni casi il vero soggetto, ed è quindi molto curioso il fatto che io mi chiami così: è proprio il nome giusto per me!
Tu sei nato nel 1938 e la tua infanzia corre parallela alla seconda Guerra Mondiale sino al suo drammatico epilogo: hai memoria di quel periodo?
Ricordo molte cose della guerra, diversi avvenimenti e situazioni. Avevo 7 anni e frequentavo il primo anno di scuola elementare nel 1945: a quell'età non provavo affatto paura né percepivo come reale la devastazione della guerra: ricordi ne ho tanti, ma l'orrore non è tra questi.
Hai conosciuto e lavorato con due grandi maestri giapponesi: Shomei Tomatsu ed Eikoh Hosoe, di cui sei anche stato assistente. Quale dei due senti più vicino?
Sicuramente Shomei Tomatsu. Ricordo l'emozione che da subito provai nel vedere le sue fotografie. Il lavoro di Shomei Tomatsu è stato fondamentale nella mia formazione artistica, un vero punto di riferimento, mentre dal punto di vista tecnico il mio vero maestro è stato Eikoh Hosoe, è lui che mi ha insegnato a fotografare. La sua però è una ricerca che si manifesta in visioni molto drammatiche, con venature surrealiste, mentre quella di Shomei Tomatsu è più simile alla mia: un’indagine senza fine del mondo, una voglia inesauribile di raccontare le città, le strade e la gente che le popola.
A un certo punto, in piena giovinezza, hai letto Sulla strada di Jack Kerouac, che è stato per te un importante compagno di viaggio per molti anni. Mi incuriosisce questo tuo interesse per uno scrittore americano negli anni dell’occupazione, ma soprattutto mi incuriosisce come un giovane giapponese abbia potuto rimanerne colpito al punto da decidere di vivere facendo di quel libro una bibbia, letteralmente “mettendosi sulla strada”.
In quegli anni leggevo molti libri e molte cose mi colpivano, ero estremamente ricettivo e aperto. Jack Kerouac aveva il dono di riuscire a trasmettere immagini fotografiche dei suoi viaggi attraverso la macchina da scrivere: questa sua capacità ha influenzato e condizionato il cammino che poi ho intrapreso. Quel che mi colpì molto di Sulla strada furono il tema della libertà e del vagabondaggio: il fatto di viaggiare per il gusto di farlo, senza una meta precisa. La realtà del viaggio è quel che io vivo spostandomi, non tanto un luogo dove arrivare.
Nei libri degli scrittori beat il personaggio principale è quasi sempre un solitario, qualcuno che non ha una meta, vagabonda e, attraverso questo suo peregrinare senza fine, contribuisce alla creazione di mondi inventati. Una catena di esperienze che si succedono e che a loro volta producono immagini, proiezioni della realtà: queste immagini e la realtà alla fine sono la stessa cosa. Un procedimento che mi sembra molto simile alla tua opera fotografica.
Sì, mi sento molto vicino a questo modo di sentire. Il mio interesse primario è quello di raccontare la strada e la società che la anima e rende viva. Narrare la realtà. Questo racconto però è mio: non è la telecamera del telegiornale che registra ciò che accade là fuori, ma Daido che ti racconta la strada che percorre.
[…]
Operi una selezione di frammenti di realtà attraverso la fotografia.
La superficie esteriore che appare ai miei occhi costituisce uno stimolo che scatena un impulso, una reazione. Io cammino per le strade della città con la mia macchina fotografica costantemente bombardato da questi stimoli. Con la mia macchina riesco a produrre una reazione a questa molteplicità di sollecitazioni, rispondo loro. Si tratta di un continuo botta e risposta tra la realtà e Daido. Questa è la relazione che si viene a creare. In questo modo vedo, conosco, e partecipo alla vita sociale che mi circonda. Questo processo si ripete in continuazione ed è il mio modo di fare fotografia. Non è che io abbia in testa dei soggetti particolari, forme astratte o ben definite: la città e la società ne offrono in abbondanza, non credi? Penso che il mio fare fotografia consista nel catturare alcuni di questi soggetti all'interno del mucchio.
[…]
C'è qualcosa che Daido non è mai riuscito a fotografare?
Più che "non riuscire", ci sono cose che non ho mai voluto fotografare. Ciò che non desidero ritrarre non riesco proprio a fotografarlo. Immagini descrittive o didascaliche, ad esempio. Non ne ho mai fatte e non vorrei proprio farne. Voglio fotografare ciò che anch'io non riesco bene a comprendere, quanto non riesco a spiegarmi: ciò che capisco posso tranquillamente tralasciarlo. Non ho intenzione di spiegare nulla con le mie foto. Chi le guarda è libero di interpretarle come vuole.
La realtà appare a noi tutti come un mistero irrisolvibile che la fotografia può penetrare.
Cosa si intende per mistero? La realtà proiettata davanti ai miei occhi è quasi tutta un mistero, per questo la indago. All'interno di questo enigma vi sono varie sfaccettature: l'erotismo, il dolore, il divertimento... Ci sono molti elementi, la cui totalità costituisce di certo un puzzle infinito. In ciò consiste la ragione della fotografia, nella sua capacità di rappresentare questo intrigo, ma senza il dovere, la responsabilità di giungere alla soluzione, di svelare l’arcano. Non è possibile comprendere, attraverso una come cento fotografie. E' come un rompicapo. Ecco: più che un mistero mi sembra un labirinto. Camminare per la città è per me come camminare in un labirinto, ed è per questo che mi piace. Non voglio offrire risposte, preferisco lasciare irrisolta la questione, sospesa la domanda su ciò che abbiamo di fronte, anche dopo aver guardato le immagini.
Vuoi dire allora che noi vediamo una possibile realtà, ma ne esistono molte…
Fotografando una sola realtà se ne possono vedere tantissime. All'interno di una sola immagine coesistono diverse realtà. Questa è la magia della fotografia.
Biografia
Hiromichi (Daido) Moriyama nasce a Ikeda-cho, Osaka, nel 1938. A causa del lavoro del padre, impiegato per una società di assicurazioni, trascorre l’infanzia trasferendosi in diverse città del Giappone. Nel 1961 si stabilisce a Tokyo dove entra in contatto con i fotografi Shomei Tomatsu ed Eikoh Hosoe, del quale diventa assistente. Poco dopo inizia la carriera da freelance e nel 1967 vince il premio della Japan Photo-Critics Association come artista emergente. Nel 1968 pubblica il suo primo grande libro Japan: A Photo Theater, che include anche la precedente serie Pantomime. Questo lavoro si pone in assoluta rottura con tutto ciò che fino ad allora era stata la fotografia giapponese: immagini di attori o militari americani si mescolano a scene di vita quotidiana e a scorci urbani, senza alcun riferimento al contesto o alla struttura narrativa d’insieme. Ogni frammento è rimescolato in un flusso unico, caratterizzato da uno stile diretto e istintivo.
In quegli anni Moriyama collabora con diverse testate, la più importante delle quali - benché uscita in tre soli numeri - è Provoke, rivista d’avanguardia destinata a influenzare radicalmente la fotografia giapponese degli anni a venire. Definita dal suo stesso sottotitolo Provocative material for thinkers, la rivista sostiene l’idea che, in un mondo in cui le parole hanno perso la loro forza, solo la fotografia può raccogliere frammenti della realtà e presentarli come materiale capace di provocare pensiero. Non importa la composizione estetica perché l’obiettivo non è fare una bella fotografia: ogni scatto ha valore, al pari di un altro, anche quelli sbagliati, fuori fuoco, sgranati, presi senza inquadrare o a occhi chiusi. Quello di Provoke per Moriyama è un periodo di sperimentazione e di riflessione sulla fotografia, sulla sua essenza e sul ruolo del fotografo. In accordo con altri, arriva a sostenere il principio dell’anonimato: il fotografo è un selezionatore, è il primo spettatore di un’immagine più che il suo creatore. Gli scatti dal vivo si mescolano quindi a riproduzioni di foto tratte da magazine, poster, pubblicità o televisione. Nel 1968 Moriyama legge On the road di Jack Kerouac. La cultura della Beat generation va ad aggiungersi al suo immaginario, già influenzato da artisti come Andy Warhol e William Klein.
Nello stesso anno compie un viaggio senza meta lungo le strade del Giappone, a bordo di una vecchia Toyota malandata, poi in autostop, fotografando qualsiasi cosa si presenti lungo il cammino. I suoi scatti confluiranno nella serie A Hunter del 1972, dove appare per la prima volta l’immagine del cane randagio, destinata a divenire una sorta di autoritratto del fotografo. Il libro afferma definitivamente lo spirito erratico di Moriyama, il suo vagabondare libero da imposizioni o convenzioni sociali, la sua natura anarchica. Le posizioni fin qui elaborate vengono portate all’estremo con Farewell Photography, volume pubblicato nel 1972. La serie include immagini prive di qualsiasi traccia riconoscibile, scatti dalle inquadrature casuali, dalle esposizioni improbabili, fotografie graffiate, sporche, sgranate, fatte di ombre e di bagliori accecanti. Il libro segna un nuovo momento di passaggio: Moriyama cade in una crisi profonda da cui uscirà solo nei primi anni ottanta. Gli scatti realizzati all’inizio di questo periodo hanno come soggetto la natura e le zone rurali del Giappone tradizionale, in cui l’autore sembra cercare rifugio. Nel 1982, dopo un lungo periodo di assenza, Moriyama torna alla fotografia con il libro Light and Shadow.
La città fa di nuovo da sfondo al libero girovagare del fotografo. Il suo sguardo è come sempre capace di conferire valore a dettagli apparentemente insignificanti ma le immagini sembrano evocare con una diversa intensità emotiva i chiaroscuri della vita, i suoi contrasti. Negli anni Novanta arriva il successo internazionale che lo porta ad esporre in diverse gallerie e musei di tutto il mondo, tra cui il MoMA di San Francisco, che nel 1999 gli dedica la grande retrospettiva Daido Moriyama: stray dog consacrandolo come uno dei grandi autori della fotografia contemporanea. Da allora Moriyama non ha mai smesso di fotografare. Continua a percorrere le strade del mondo e a filtrare attraverso il suo sguardo ogni esperienza vissuta, senza mai tradire il suo spirito libero e anarchico, sempre fedele alla sua natura di cane randagio.
Tra i numerosi musei e istituzioni che hanno presentato il suo lavoro: San Francisco Museum of Modern Art (1999, 2009); Metropolitan Museum di New York; Fotomuseum di Winterthur (1999), White Cube, Londra (2002), Fondation Cartier pour l’art contemporain, Parigi (2003), Kunsthaus di Graz; Museum of Contemporary Art di Vigo, Spagna (2005), Museum of Contemporary Art, Tokyo (2008), Tate Modern, Londra, Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles (2012). Tra le principali pubblicazioni: Japan: A Photo Theater, Muromachi Shobo (1968), The Japanese Box, Edition 7L/Steidl (2001), transit, eyesencia, (2002), Daido Moriyama Complete Works vol.1, Daiwa Radiator (2001), Memories of a Dog, Nazraeli Press; Daido Moriyama Complete Works Vol.2/Vol.3/Vol.4, Daiwa Radiator (2004), Moriyama/Shinjuku/Araki, Heibonsha; Buenos Aires, Kodansha press (2005), Farewell Photography, Power Shovel Books, Tokyo (2006), Kyoku/Erotica, Asahi Shimbun Publications inc.(2007); Hokkaido, Rat Hole Gallery (2008); Daido Moriyama. Visioni del mondo, Skira (2010).