Nella lunga storia del rapporto fra gli uomini e il “dolce”, avviata nella preistoria con la scoperta del miele e che sembrava dovesse concludersi con i dolcificanti artificiali non calorici venuti in auge nell’ultimo secolo, si è invece aperto un capitolo nuovo con il ritrovamento di alcune sostanze presenti in natura che, in assoluta serendipità, creano … dolcezza. In varie parti del mondo, gli indigeni usavano foglie o frutti di certe piante per gratificarsi sentendo in bocca qualcosa di dolce ma, chi esplorava quei territori, era impegnato a indagarne la geografia mentre, soprattutto i botanici, erano più indaffarati nella tassonomia delle piante, spesso poco curando l’uso che quelle genti ne facevano. Erano piante endemiche, per lo più insignificanti nell’aspetto; pura curiosità botanica, in pratica.
Così capita a Giacomo Bertoni, un italo-svizzero che, ventisettenne nel 1884, era emigrato in Paraguay. Cambiato il nome Giacomo in Moise Santiago, s’era attivato per creare una colonia agricolo-scientifica insegnando agronomia ma sarà la sua conoscenza della botanica, il primo amore fra le discipline dell’enciclopedica cultura, a consentirgli di percorrere tutta la carriera di docente fino a diventare Rettore dell’Università di Asuncion. Nel pieno della sua attività, meriterà grande apprezzamento fra colleghi, studenti e agricoltori del sud America tanto d’essere più noto come “el sabio Bertoni”, il saggio. Tre anni dopo l’arrivo, nelle foreste del Paraguay s’era imbattuto in una pianta bizzarra della quale, emozionatissimo, nell’87 segnala che “…mettendo in bocca anche un sol briciolo di foglia o di ramoscello, si è sorpresi dall’estrema dolcezza che vi è contenuta tanto che un frammento d’una foglia grande appena pochi millimetri mantiene la bocca dolce per un’ora e qualche piccola foglia è sufficiente ad addolcire una tazza di caffè o di tè forte …”. La chiamò, orgogliosamente, Eupatorium bertoniana.
Un collega coetaneo, Ovidio Rebaudi, nato in Paraguay da italiani emigrati, isolò il principio attivo che causava quel particolare effetto impegnandosi ad approfondirne caratteri ed effetti. Nella tassonomia ufficiale, ora, in onore di entrambi e ricordarne i nomi, la piantina si chiama Stevia rebaudiana bertoni inserita nella vasta famiglia delle Asteraceæ (o Compositæ). E’ una pianta di piccole dimensioni, quasi mai più alta di un metro, ha carattere erbaceo-arbustivo ed è perenne, o semi-perenne nei climi sensibilmente più freddi di quello delle montagne fra Paraguay e Brasile. Ha foglie ovate, opposte, fiori ermafroditi molto piccoli, numerosi e di colore biancastro che vengono impollinati dagli insetti durante la fioritura tardo-autunnale.
Al genere Stevia appartengono circa altre 150 specie ma, fra quelle tuttora testate, nessuna presenta il carattere dolcificante all’altezza della rebaudiana i cui reperti vegetali, allo stato fresco, sono circa 10 volte più dolci del saccarosio, valore che sale a 3-400 volte quando essiccati. Sta di fatto comunque che, chiamata dagli indigeni “ka’a - he’e” - che vuol dire "erba dolce" -, fin dai tempi precolombiani gli “indiani” Guaranì e delle tribù del sud-America la usavano per addolcire il sapore amaro dell’infuso di foglie dell’Ilex paraguariensis con il quale, analogamente come si fa per il tè, preparavano il mate, bevanda ancora diffusa, socializzante e, un tempo, ammantata di ritualità. Vent’anni dopo, la scoperta della Stevia accese qualche curiosità tanto da costringere il Dipartimento dell’agricoltura statunitense ad interessarsi - per dovere, più che per convinzione - di questa “… nuova pianta da zucchero che, ideale e sicura per i diabetici, potrebbe avere una certa possibilità economica”. Nel 1918 compaiono i primi risultati sui componenti finché, nel ’31, alcuni chimici francesi riuscirono a isolare e cristallizzare l’estratto edulcorante che chiamarono stevioside.
Curioso è che Hewitt Fletcher, incaricato dagli USA di approfondire l’argomento e definito l’estratto come “… il prodotto più dolce che mai sia stato individuato”, circa il come si potesse usare, venne alla conclusione drastica: “… in nessun modo”. Negli anni ’60, comunque, il primo che prese a coltivare la Stevia fu Enrico de Gasperi, anche lui figlio di italiani emigrati in Paraguay, il quale aveva individuato nel Giappone uno sbocco commerciale delle foglie essiccate che, anno dopo anno, gli venivano chieste in quantità crescenti tanto che in breve, aumentò le superfici di Stevia coltivata a oltre 30 ettari, la cui produzione veniva interamente assorbita. Ma cos’è quel “dolce” particolare della Stevia?
Qui servono la mano dei chimici e un laboratorio con la strumentazione tecnicamente avanzata. Ecco allora che, a partire dalla metà del ’900, fu possibile isolare i composti edulcoranti della Stevia, analizzarli a fondo e identificarne le formule. Oggi sappiamo che si tratta di quattro glucosidi il cui aglicone è rappresentato da quattro diversi terpeni che, collegati alla struttura del glucosio, danno origine ad altrettanti composti cui venne dato nome di Stevioside (C38H60O18), Rebaudoside A (C44H70O23), Rebaudoside C (C44H70O22) e Dulcoside A (C38H60O17). I primi due, presenti nelle foglie in ragione del 5-15% sul secco, sono quelli che hanno le proprietà sensoriali maggiormente caratterizzate e traducibili nella sensazione di “dolce”. Allo stevioside si deve, inoltre, il lieve retrogusto di liquirizia.
In Giappone, da quando l’hanno scoperta, tranquillamente si usano gli estratti di Stevia per edulcorare vari prodotti - bevande analcoliche e light, aperitivi, gelati, pane, caramelle, sottaceti, pesce, verdure, sciroppi, tavolette dolcificanti, prodotti farmaceutici e, non ultime, gomme … “americane”. In Occidente, invece, si è scatenata un’azione ostruzionistica sostenuta soprattutto dagli interessi dei gruppi politico-industriali legati all’industria saccarifera. Negli USA, e altrove, la Stevia aveva trovato qualche pertugio nella nicchia dell’erboristeria parafarmaceutica, in realtà con risultati ridotti ma, comunque, sempre sotto l’occhio vigile di chi temeva concorrenza e che, mentre diffondeva notizie terrorizzanti, a quelle cercava sponda nei clinici delle università costringendo la FDA a decretare, nel 1987, il divieto dell’uso della Stevia e suoi derivati. Solo nel 1995, la pianta e i derivati entrano ufficialmente nel giro degli integratori dietetici mantenendo, sotto la pressione delle industrie “di peso”, il divieto dell’uso quale “agente edulcorante”.
Nel 2008 la FDA consente la libera circolazione di Stevia e dei derivati, probabilmente sotto l’insistenza delle grandi compagnie delle bibite - Coca Cola, Pepsi, ecc. che di zucchero ne consumano tanto - interessati a lanciare nuovi prodotti da reclamizzare con gli slogans “light”, “senza zucchero”, “calorie zero” e simili. In seguito, nello stesso anno, una cinquantina di Paesi raccolgono le decisioni degli Stati Uniti. La Francia l’approva timidamente e in parte nel 2009 mentre, solo dopo infinite discussioni, le prove e controprove, le autorizzazioni e i divieti dell’uso, nel novembre 2011, l’UE inserisce la Stevia nell’allegato del regolamento che elenca gli additivi alimentari autorizzati, fra i quali indica Stevia e derivati con la sigla E960, suggerendo anche la dose massima ammessa dei glucosidi steviolici in 4mg/giorno/kg di peso corporeo. Così, attualmente, della Stevia si usano le foglie fresche o ridotte in polvere (20-30 volte più “dolci” dello zucchero), o il complesso dei principi attivi estratti e trasformati in una “polverina” bianca (200-400 volte lo zucchero) da diluire in soluzioni acquose o alcoliche o farne compresse. Sia polverina che le piccole compresse oggi proposte nei bar sono, per forza, diluite con l’amido o altro per facilitare il dosaggio del “dolce” che altrimenti renderebbe imbevibile il caffè.
Dopo l’ingresso della Stevia, mentre l’attenzione si indirizza verso alimenti a ridotto indice glicemico e a basso potere calorico, con l’idea di sostituire lo zucchero (… favorisce il diabete, ingrassa, fa venire la carie, ecc.), botanici e chimici cercano nella Natura aguzzando occhio e orecchi al comportamento di certi indigeni che vivono in aree tuttora poco indagate. Così, nelle foreste pluviali dell’Africa occidentale, si imbatterono nella Thaumatococcus danielli, (Marantaceæ) nelle lingue locali chiamata katamfe o katempfe. E’ una pianta alta 3-4 metri, perenne, con foglie ovali lunghe 40-50 cm, che produce spighe di fiori rosa-pallido dai quali, contenendo alcuni semi neri, nascono piccoli frutti rossi, carnosi (arilli). Da questi, nel 1972, è stata isolata una proteina, la Taumatina (in realtà taumatine I e II) capace di un potere dolcificante superiore circa 3.000 volte il saccarosio meritando così un posto sicuro nel libro dei Guinness come la sostanza naturale più dolce al mondo. Facile intuire cosa potesse aprire la scoperta di un prodotto che dolcifica molto più dello zucchero e ha un apporto calorico uguale a zero, ma la Thaumatococcus deluse le previsioni perché, fuori dal suo habitat e coltivata in serra, si rifiuta di produrre la taumatina.
Negativi sono stati anche i tentativi di esportare i frutti frullati, concentrati, congelati, liofilizzati, operazioni tutte che determinano la denaturazione della taumatina annullandone il potere di dolcificare. L’ingegneria genetica, sequenziato il genoma della pianta, ha inserito i suoi geni fra quelli di alcuni microrganismi (Escherichia coli, Aspergillus, Penicillium, ecc.) con risultati positivi ma ancora inferiori alle aspettative. La taumatina, in base agli studi - tossicologici, biologici, teratogenici e allergenici - del Committee of Food Additions della FAO/WHO è stata dichiarata sostanza “sicura” e, mentre gli USA la consentono solo come “esaltatore di sapidità”, è approvata e usata anche come dolcificante in Israele, Giappone mentre, col codice E957, nella UE trova impiego in confetteria, nei gelati, nelle bevande, nelle gomme da masticare e, non ultima, nella mangimistica. Il suo “dolce” si sviluppa lentamente, resta a lungo e lascia un intenso retrogusto di liquirizia.
Nel 1969, destò interesse la Dioscoreophillum commisii (Menispernaceæ), un arbusto presente in certe foreste dell’Africa occidentale che prese il nome di serendipity berry per la sorpresa suscitata dalla dolcezza dei suoi frutti rossi riuniti a grappolo sul lungo tralcio sarmentoso che porta grandi foglie cuoriformi. Quel “dolce”, che all’inizio si pensava potesse essere dovuto a un carboidrato, si rivelò invece come una proteina che venne chiamata Monellina dal Monell Chemical Senses Center di Philadelphia che, isolata nel 1972 ne aveva individuata la formula. E’ efficace circa 1.500-2.000 volte il saccarosio ma, a differenza della maggior parte dei mammiferi, il suo “dolce” viene percepito solo dall’uomo e da alcuni primati in bocca ai quali lascia un lungo retrogusto di dolcezza. Esplica il particolare carattere solo nella banda di pH fra 3 e 8 e si denatura oltre i 50 °C. Per la pianta di coltivazione difficile fuori dal suo habitat, è stata presa la via della bio-sintesi trasferendo il suo genoma in vari microrganismi fra i quali la Candida utilis è quella che fornisce migliori risultati.
Nella regione sub-tropicale dello Yunnan, in Cina, conosciuta come Mabillang cresce la Capparis masaikai (Capparidaceæ) che produce frutti della dimensione di una pallina da tennis. I semi, maturi, vengono utilizzati nella medicina tradizionale cinese ma, siccome masticati suscitano un sapore dolce, trovano impiego nella pasticceria locale e in non pochi alimenti. L’origine del particolare gusto è stato identificato in un insieme di sostanze che vengono riassunte nel nome di Mabinilina. In realtà sono quattro proteine 100 - 400 volte più del saccarosio. Diverse nella struttura delle loro molecole, la mabinilina II è quella che, fra le altre, meglio si presterebbe all’impiego industriale per la superiore resistenza al calore per cui si tenta di produrla mediante bio-sintesi. In particolare, sta destando notevole interesse la linea che prevede la transgenizzazione della patata che si vorrebbe nascesse dolce in modo … autonomo. Il clonaggio della sequenza è sotto brevetto ma, ancora, i risultati del tentativo non sono all’altezza di quanto si aspetta.
Particolare è il caso della Pentadiplandra brazzeana, unica specie delle Pentadiplandraceae, scoperta nel 1985 da alcuni ricercatori nel Museo Naturale di Parigi che studiando le abitudini alimentari di certe scimmie delle foreste del Gabon, s’imbattono in quella pianta, chiaramente poco conosciuta. Oltre alle scimmie, attratte dal sapore incredibilmente dolce dei frutti con poca polpa e cinque grossi semi, anche i nativi facevano largo uso di quelle piccole bacche rosse ma soprattutto le usavano per divezzare i bambini che, masticandole, avrebbero dimenticato il latte che la madre ormai produceva in quantità insufficiente. Nel loro dialetto, storpiando il francese, chiamavano la pianta “joubli” - io dimentico - che ufficialmente diventerà “oublie berry”. Cresce nelle foreste tropicali di alcuni Stati fra cui, oltre il Gabon, Camerun, Angola, Nigeria e altre aree sud-occidentali dell’Africa. I risultati degli studi successivi, pubblicati su alcune riviste di scienza, ha fatto scattare l’interesse alla pianta dando il via alla ricerca su quello strano dolce. Nel 1989, nel frutto si scopre una proteina che venne chiamata Pentadina e, cinque anni dopo, nel 1994, se ne trova e si isola la seconda: la Brazzeina. Le due vengono oggi prodotte per transgenetizzazione della Eschericia coli e trovano impiego abbinate ad alcuni dolcificanti non calorici naturali dei quali mascherano il retrogusto di liquerizia.
Ancora più recente, siamo nel 1990, qualcuno prestò la sua attenzione a una pianta che, nota dalla fine del ‘700, era solo nei libri dimenticati della botanica. E’ la Curculigo latifolia (Hypoxidaceæ) e ha l’habitat naturale nella Malaysia dove venne scoperta tre secoli fa. Oggi ci si è accorti che i suoi frutti hanno la capacità di dolcificare soprattutto i liquidi di sapore acido. Contengono una proteina, la Curculina, in grado di rendere dolce quanto potrebbe lo zucchero in quantità 550 volte. Nel 1997 quella proteina è stata sequenziata ed è oggetto di alcuni tentativi di sintesi finora con scarso successo. Nonostante in Giappone viene usata come additivo ‘innocuo’ in molte bevande e alimenti, il suo impiego è tuttora non legale sia negli USA che nella Comunità europea. Già all’inizio del ‘700 un esploratore francese aveva notato che i nativi dell’Africa occidentale usavano i frutti della Synsepalum dolcificum (Sapotaceæ), di per sé non dolci ma che, addizionati a cibi o bevande acide, li faceva percepire dolci. La scoperta non travalicò il ruolo di curiosità finché nel 1968 si indagò il meccanismo alla base della reazione dei recettori gustativi dell’uomo.
Nel 1989 è stata isolata la molecola che, identificata la formula, le venne attribuito un nome che è tutto un programma: Miracolina. Sequenziato il genoma, si cerca la via della transgenetizzazione sulla generosa Eschericia coli che però, fin a questo momento, non mostra molto interesse a collaborare. Estratta per via maturale dai frutti, e concentrata fino a cristallizzare, è utilizzata in Giappone ma non ha ancora le credenziali per essere impiegata legalmente sia negli USA che nella Comunità europea. Le date relative alle varie scoperte testimoniano quanto ancora sia sconosciuto della Natura e quanto gli uomini cerchino, in quella, qualche altro aspetto della loro felicità.