Il parroco di campagna. Questa figura che nel tempo si è modificata, così come si è trasformato l’ambiente in cui operava, ma che ha lasciato nella sua versione “tradizionale” una variegata scia di personaggi e testimonianze letterarie, a volte trasfigurati dall’invenzione creativa, a volte innervati in un’esperienza di fede degli autori.
Da Manzoni a Silvio D’Arzo, da Emilio Praga a Nicola Lisi, si sono susseguiti ritratti di parroci, con raggiungimenti di grande intensità emotiva e di grande tensione morale. La più sentita e varia serie di religiosi con cura d’anime della letteratura contemporanea è forse quella che troviamo nell’opera di Georges Bernanos. In Sotto il sole di Satana adombrò, nell’eroica immagine del parroco di Lumbres, la bruciante figura del curato d’Ars e, nel suo capolavoro, il Diario di un curato di campagna*, c’è tutta una serie di figure sacerdotali, che culmina nella tormentata e allo stesso tempo luminosa rappresentazione del curato d’Ambricourt. Tra slanci di gioia e lamine di disperazione ci viene squadernata un’esperienza unica di umiltà disarmante dietro una ricerca quasi ossessiva del significato cristiano della fede. E il “tutto è grazia” che suggella il finale, gronda di un’esperienza di lacerante conquista che solo un’anima profondamente mistica poteva esprimere così pienamente.
Se dai drammatici paesaggi dell’Artois bernanosiano passiamo alle dolci colline toscane, eccoci di fronte a un piccolo capolavoro che ha per protagonista un altro religioso, quello del Diario di un parroco di campagna di Nicola Lisi. E’ una figura liliale, calata in un mondo che sembra uscito da una tela trecentista, col suo ordinato e solerte procedere, sotto il sole della grazia e nella gioia semplice delle piccole cose della vita, ma che nasconde anche fremiti di misteriose apparizioni e analogie. La recente riedizione di questo “Diario” ha proposto il problema delle fonti di questo piccolo capolavoro, riportando l’ipotesi che si sia ispirato a un antico diario parrocchiale del ‘600. Tutto questo mi ha fatto venir in mente uno smilzo quadernetto dalla copertina nera trovato nel classico baule di famiglia: è il vero diario, dell’anno 1927, di un parroco di campagna, o meglio, di montagna delle colline preappenniche romagnole, non molto distante, quindi, come tempo e come spazio, dai luoghi e dalla data di composizione del diario lisiano. Certo, Nicola Lisi, pur essendo nativo del vicino Mugello, non poteva conoscere queste pagine, ma è interessante scoprirne analogie e differenze.
Per esempio, nel diario “reale” c’è un infantile stupore di fronte alla natura, connotata con semplice e spontanea immediatezza lirica, che si avvicina alla poetica dello scrittore toscano: in data 18 marzo il parroco romagnolo notava: “ Venerdì. E’ la primavera che entra dalla spalancata finestra. E’ una giornata calda e di sereno. Una bellissima giornata insomma. E’ la più bella giornata che noi abbiamo avuto nell’inverno che volge al tramonto.” E il 27 aprile: “ E’ già sera. Ma le giornate come sono belle e come sono lunghe. La campagna tutta è verde. Ed i rami carichi di foglie m’impediscono di guardare alle circostanti colline ridenti.” Poi, mentre il curato immaginario vira le sue impressioni in un esoterismo tra il mistico e il surreale, il suo omologo reale si confessa con le sue incombenze di cura di anime, con le sue incertezze di sacerdote e le sue debolezze di uomo, alternando delusioni a gioie e offrendoci uno spaccato delle reali condizioni di vita di un parroco in quei luoghi e in quegli anni.
“Avevo detto, avevo avvisato – nota il 14 aprile, Giovedì Santo – che giovedì mattina ci sarebbe stata la Messa e qualche persona s’è vista, e poi avevo avvisato che la sera vi sarebbe stata la Via Crucis, che si regolassero non essendoci il suono delle campane … E si sono tanto regolati che (tranne tre donne o quattro) non si sono mossi! “ Il 17 aprile, Pasqua, scrive: “Alle cinque stamani io ero alzato e con grande calma ho confessato fino alle 6, uomini, donne, ragazzi. Poco più di una quindicina … delle comunioni poco più di settanta”. E dietro le incombenze traspare la sua religiosità schietta: “Dobbiamo conoscere, servire, amare Iddio, non solo, ma farlo conoscere, farlo amare, farlo servire … godere Dio e farlo godere. Con lo studio e con la vita. Anzi la vita nostra dovrebbe essere uno specchio perché potesse il popolo specchiarsi in essa …”.
Ma il nostro parroco “vero” era anche uomo di riflessione e di cultura: “Dopo tanto leggicchiare mi sono con la mente sparpagliato tra i personaggi dei Promessi Sposi, fra quelle descrizioni di avventurieri … è la medesima storia che si ripete, sono i medesimi discorsi e dialoghi che si ripetono e che noi abbiamo fatto e sentito non sono molti anni. Ed io che mi sono trovato nel 1917 in un ospedale militare lo so per esperienza … ho dunque la mia mente sparpagliata in quella età lontana resa più sensibile dall’età dei nostri giorni …”. Da buon romagnolo, poi, il curato non tralascia di celebrare la festa del suo patrono S. Mamante con un pranzo per 14 commensali composto da: “Minestra signorile, fritto di cervella e cotolette, lesso di manzo e gallo, con contorno di zucchini. Arrosto con contorno di crostini. Vino nero. Formaggio che non fu toccato. Pesche, pere ed albana del mio podere. Ciambella e pasta margherita. Caffè nero col relativo zucchero. Da notarsi: abbiamo rimasto una gallina faraona ed un pollastro”.
Il nostro parroco si sentiva proprio al centro di una comunità di cui contava continuamente i membri, le famiglie e le case: “Lunedì della settimana santa. Ho benedetto tutte le case della parrocchia che sono dieci e comprendono tredici famiglie. Siamo in tutto 124.” e se ne sentiva responsabile con la sua continua presenza nella chiesa e nelle sparse frazioni”: “1, aprile 1927, venerdì, ore 9.37. Ho fatto oggi il primo Viatico e sono salito in montagna. Questa mattina dunque ho celebrato messa, ho fatto la funzione del venerdì, ho dato la Benedizione e poi … in montagna con il sacramento nel cuore.” In queste scarne notazioni, non c’è più la magia e la malia del Don Antonio lisiano, dove il “tempo diviene teologico e terreno insieme” e non c’è nemmeno la “terribile presenza del divino” bernanosiana. C’è, però, una modesta concretezza rurale, l’accettazione serena di una realtà di sacrificio e di apostolato e un attaccamento alla terra e ai suoi prodotti che la campagna offre così provvidenzialmente e copiosamente all’uomo, proprio con quella semplicità e quella dedizione che ci fanno ricordare con accorata nostalgia i nostri vecchi parroci di campagna.