Cinquanta anni fa Zanzibar fu teatro di una breve, ma cruenta rivolta che segnò per sempre la storia dell’isola, ma che oggi nessuno ricorda.
“Badaji era, a memoria d’uomo, il miglior nocchiero dell’Oceano indiano. Nessuno come lui sapeva comandare un dowh, il brigantino dei mari arabici con la poppa di un galeone. Soprattutto su una rotta Badaji era imbattibile: Zanzibar. Badaji non era un uomo come un altro perché era cieco: da giovane faceva il pescatore di perle e la salsedine gli aveva corroso le pupille. Quando il suo dowh metteva la prua su Zanzibar le immagini morte dei suoi occhi sembravano illuminarsi. Per tenere la rotta lui "fiutava” Zanzibar, il profumo intenso, inconfondibile, dell’isola delle spezie lo raggiungeva ovunque. La storia di Badaji finisce bruscamente in una tetra mattina di cinquant'anni fa, gennaio 1964, quando il fumo acre della rivolta antiaraba avviluppò l’intera isola soffocandone il profumo e facendo così perdere la rotta a Badaji che vagò per giorni sull’oceano fino a entrare nelle leggende dei mari del sud. Solo queste leggende ormai raccontano la storia recente di Zanzibar”.
Il timoniere della mia barca raccontava questa storia con l’aria di chi sa che quel che dice non è noto ai più. “Voi Occidentali di Zanzibar conoscete solo il nome”. “Vi piace solo il suono del nome”. “Della storia di Zanzibar non sapete nulla”. Aveva ragione. Il fascino del suo nome è sempre stato un mistero. Non credo esista qualcuno che almeno una volta non l’abbia pronunciato. Eppure non esiste una spiegazione logica. Tutti la conoscono, ma la sua storia è sicuramente meno nota. La sua storia si dice sia stata "scritta dai venti", dato che furono i venti a spingere i primi sambuchi arabi verso la grande isola corallina. Infatti furono elementi arabi provenienti dall’Egitto, dall’Arabia e dalla Persia a fondare tra il IX e il X secolo varie signorie che gli storici mussulmani individuano con "L’impero degli Zang" (nome indicante l’elemento negro indigeno dell'Africa Orientale). In realtà però le prime notizie dell'isola vengono fornite dal noto Periplo del mare Eritreo di Arriano in cui l’isola è chiamata col nome di Menuthasi. Nel Medioevo essa acquistò importanza e fu nominata da Marco Polo che attribuiva il nome di Zachibar alla costa prospicente.
Nel 1599 Vasco de Gama vi fece approdo e per lungo tempo l'isola rimase in mano ai portoghesi, il cui dominio, però, fu minato dalle epidemie e dalle incursioni piratesche dei Turchi. Nel 1832 Seyd Said, sultano dell’Oman trasportò nell’isola la capitale del suo sultanato, ma dovette in seguito accettare il protettorato britannico. Fu in questo periodo che la fortuna economica di Zanzibar si legò al commercio degli schiavi. Sebbene i venti soffiano ancora, la storia di Zanzibar, come raccontava il timoniere, sembra sia rimasta congelata al 15 gennaio 1964. Tre giorni prima il sultano Bin Abdulla era stato deposto dai cosiddetti "combattenti per la libertà di Zanzibar".
Era passato poco più di un mese da quando l’isola aveva ottenuto l'indipendenza. Gli Inglesi l’avevano accordata, ma sulla base di una costituzione che non era stata discussa da tutti i rappresentante della popolazione indigena. Questa accusava gli inglesi di appoggiare il colonialismo arabo. La rivolta fu l’epilogo di una storia iniziata molti secoli prima allorché Zanzibar divenne uno dei principali mercati degli schiavi a livello mondiale. Ancora 100 anni fa sotto la sovranità di un sultano che era nonno di quello deposto, a Zanzibar si concentrava il mercato degli schiavi provenienti da molti paesi africani. I mercanti erano Arabi; il governo che lo aveva appoggiato era saturo di uomini che discendevano da quei mercanti, mentre i rivoluzionari erano discendenti degli schiavi. Sembrava una rivolta come tante altre che si avvicendavano nelle nazioni di un’Africa che allora iniziava i primi vagiti di un’indipendenza forse troppo lunga da venire.
Una decina di morti sembravano un bilancio quasi incruento agli occhi degli occidentali. L’ Unione Sovietica non era certo estranea al colpo militare, e non a caso questo fu guidato dall’Umma Party, il partito del popolo, dichiaratamente filo comunista. Il 15 gennaio improvvisamente la situazione raggiunse toni apocalittici, in poche ore la minoranza araba che deteneva il potere commerciale e terriero dell’isola fu spazzata via. Secoli di oppressione trovarono sfogo in una rivolta in cui esplose la tensione di una lotta politica condotta senza esclusione di colpi. Quando subito dopo la rivolta le autorità rivoluzionari annunciarono che tutto il materiale saccheggiato doveva essere deposto nei locali della stazione radio, molte persone per non correre il rischio di essere arrestate si disfecero degli oggetti rubati deponendoli alla rinfusa ai margini della strada. I vicoli di Zanzibar si riempirono di una inconsueta esposizione all’aperto di macchine da scrivere, attrezzature fotografiche, orologi, vestiti e ogni altro materiale, più o meno di valore che era stato depredato all’odiato arabo.
Qualche mese più tardi, l'isola si unì al Tanganika per formare la Repubblica Federale di Tanzania. Ancora oggi però è difficile capire il ruolo dell’isola nel contesto politico del’isola. Come affermato dal presidente della Tanzania: "Zanzibar è uno stato a livello interno, un semi-stato a livello internazionale". Uno dei tanti misteri dell’Africa d’oggi. Nonostante l’economia dell’isola sia sempre stata molto più florida di quella del continente, gli interessi dell’isola appaiono rivolti soprattutto a inserirsi nei contorti interessi dell’Africa nuova più che a offrire un caldo karibu, il benvenuto che un tempo salutava gli ospiti. Aggirandosi per la città l’impressione non muta: i bazar dove un tempo gli ori, gli avori, le sete e ogni tipo di merce lecita o illecita veniva contrattata da genti di tutte le razze e di tutte le risme, ora sono mercati d’Africa: merce di sopravvivenza ammucchiata senza poesia.
L’arte del mercato non abita più a Zanzibar. L’identità dell’isola appare ormai casuale. Basta sbirciare dietro le persiane socchiuse o mettere piede in cortili quasi nascosti per leggere già nelle architetture la differenza tra passato e presente. I portali delle abitazioni della compradora, la pingue borghesia zanzibarita, scolpiti con finezza, con fantasia, con ricchezza di legni e metalli, i più celebri portoni del mondo, sono ormai chiusi per sempre o venduti a caro prezzo dagli antiquari della città vecchia. I terrazzini di legno decorati con certosina pazienza sono cimeli di un passato seppellito per sempre in quel vicino, ma ormai lontano 15 gennaio. Nulla viene utilizzato secondo la primitiva concezione. La casualità legata all’istinto la fa da padrone. Dei tempi in cui era valido il detto arabo: “Quando si suona un flauto a Zanzibar, tutta l’Africa, fino ai laghi, balla”, anche sguinzagliando l’immaginazione non resta quasi nulla. Rimangono un po’ di monumenti stemperati dalla fronda dell’africanizzazione: il vecchio forte portoghese; il Bet el Ajaib, il palazzo delle meraviglie, costruito nel 1883 dal sultano Barghash nel suo singolare stile liberty; la moschea Shirazi del 1107; il mercato degli schiavi, e il centro della città vecchia con il suo miscuglio di razze, testimonianza di secolari immigrazioni arrivate dal Medio Oriente, dall’India, dall’Arabia, dalla Persia.
Basta però voltare le spalle alla città e inoltrarsi tra i palmeti dell’interno che la leggenda di Zanzibar torna alle narici. Un’atmosfera tropicale si sprigiona dall’esuberante cappa vegetale che ricopre l’isola: cannella, vaniglia, pepe, cardamomo, bergamotto e sopra a tutto l’ingrediente base: il chiodo di garofano (Eugenia caryophyllata), o karafu come lo chiamano da queste parti, di cui Zanzibar detiene il monopolio mondiale insieme alla vicina isola di Pemba.
Soprattutto dopo le grandi piogge primaverili o autunnali, il profumo è talmente denso che quasi stordisce. Fiori esotici e orchidee diffondono i colori dei tropici; coltivazioni di arance, tabacco, riso, patate, manghi, ananas raccontano la ricchezza agricola dell’isola. Piccole spiagge al riparo della barriera coralline punteggiano la costa che i tour operator non hanno certo risparmiato. Il turismo è l’ultima scommessa di Zanzibar: sorseggiando un aperitivo davanti a un mare di una bellezza a volte irreale il ricordo di quel 15 gennaio è giustificatamente assente, anche se qualcuno suona il flauto e nessuno balla più.