E perché il sol dell’avvenire splenda ancora sulla terra
facciamoci largo con un'altra guerra
(Venezia - Istanbul)
Alla riscossa stupidi che i fiumi sono in piena
potete stare a galla… le barricate in piazza le fai
per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso
(Up Patriots to arms)
Deflagrazioni nei cieli e guerre dure sulla terra
Pesanti come piombo – le stelle si sbriciolano – i cuori si dissolvono.
Tutto perché era piaciuto all’eccesso un seno non ancora accarezzato.
Tutto perché ci siamo persi in un viso ignoto.
E la fame di noi ci divora.
(Ascoltando Franco, G.M.Prati)
Non pretendo di riassumere la poetica di un grande artista come Battiato né mi permetterei di ridurre il suo essere ad un semplice fenomeno da analizzare ma la passione e il soddisfatto stupore con cui lo ascolto da quando uscì il suo primo successo di massa, La Voce del Padrone (1981) e l’averlo ascoltato recentemente nella mia città, mi induce a toni di affettuoso bilancio, mi rende debole di fronte alla tentazione dell’"unità di lettura", quale sorta di riconoscente omaggio tardivo. E’ possibile individuare temi e tendenze predominanti nella sua camaleontica e vasta produzione? E’ quello che ho cercato di fare con il titolo di questo pensiero ad alta voce: il “monaco futurista”quale emblema della sua polarità fra ascesi e sperimentazione. Non deve essere sfuggito a nessuno la grande novità della Voce del Padrone. Si trattò di una ventata di aria libera e ricca di ossigeno entrata all’improvviso nella stanza sonnacchiosa e sbadigliante di un Italia che stava digerendo il reflusso dei pesanti anni 70. Quello che Adelphi ha fatto nella cultura editoriale lo ha compiuto Battiato nella cultura musicale di massa. Entrambi hanno rappresentato l’89 quale mito libertario e quale salto di paradigma.
Per la prima volta un’aria musicale gradevole, condivisibile, nel giusto equilibrio fra percezione del ritmo e fraseggio melodico venne congiunta con un testo finalmente sperimentale, nobile, innovativo, ricco di densi rimandi culturali e di notevole intensità semantica, nettamente superiore ad ogni clichè o stilema comunicativo di cui è intessuta la “musica leggera”. Finalmente si sciolse il senso di voragine fra musica pop e musica colta. Battiato ha spesso sconfinato sinusoidalmente fra sperimentazione sonora e sperimentale testuale/comunicativa. Il tutto retto e sublimato da una voce “archetipale”, cioè fisicamente unica come poche altre: Paolo Conte, Celentano, Guccini. Se ne trova conferma quando Battiato canta De Andrè o Gino Paoli e quando altri al contrario cantano Battiato (caso ancora più raro).
Mentre Battiato “battiatizza” anche i grandi autori, come Vasco con Generale di De Gregori, la sua opera al contrario è difficilmente riproducibile da altri artisti senza perdere quella sorta di speciale “immanente sacralità”che è uno dei toni fondamentali della sua aura. Forse un altro suo concetto essenziale è una speciale declinazione del concetto di “tempo”. La musica di Battiato si nutre del passato quale giacimento ideale, simbolico, spirituale. Un passato fluido che viene attualizzato quale memoria viva, esperienza ancora possibile, varco percettivo ancora aperto o riattivabile. La musica si fa “tempo dei tempi”, chiave di un'invocazione/evocazione che la rende strutturalmente preghiera, rito, mantra, in quanto processo procreativo incessante più ampio dei propri prodotti. Un tempo nicciano che è in quanto accaduto e che sarà poiché è stato. Non si tratta mai di uno sterile citazionismo esotizzante ma di un'istanza costante che soddisfa varie vibrazioni: ironizza sulla “società fluida”che ci domina e aliena, spezza i falsi limiti passivi spaziotemporali indotti o imposti, serve a trascendersi traslando la poeisis dalla maschera all’essenza.
Il Tempo di Battiato è un insieme di tempi qualititativi e qualititativamente differenti, talvolta incrociati e sovrapposti in una multidimensionalità che viene giustamente posta quale cifra tipica di questo nostro tempo. Il tempo di Battiato è l’"eterno presente" dei mistici (Oceano di silenzio, Le sacre sinfonie del tempo, L’ombra della luce, Lode all’inviolato, Ricerca sul terzo), il senso del cambiamento, del ciclo, dell’assolutizzazione di un tempo effimero (Segnali di vita, Passacaglia, Secondo Imbrunire, La quiete dopo un addio, Piccolo pub, Era d’estate) il senso del disfacimento tragico della società occidentale, organizzata, di massa (Bandiera bianca, Povera patria, Radio Varsavia, Fortezza Bastian, Il declino e la caduta dell’Impero romano), la percezione distaccata e divertita del theatrum mundi, dello scorrere variopinto delle maschere della vita e della storia (Venezia-Istanbul, Di passaggio, Ecco come è che va il mondo, Il mito dell’amore, Fisiognomica) ma pure Il Ritorno, quale riemergere dell’osservazione pura, filosofica in quanto infantile (Le aquile, Uccelli) come pure il riemergere reminescente del senso dell’Antico (Voglio vederti danzare, Giubbe rosse, Segunda Feira). La tecnica è quella, frequente, della scomposizione e riassociazione di immagini e frammenti a formare un flusso organico di disorganicità, un fluire di miniracconti visivi immaginifici. Memorabili nel loro estremismo da “blob” in questo senso: Magic shop dove si ironizza sul supermercato sociale delle credenze, Arabian Song, Passaggi a livello, e Frammenti dove si mescolano Leopardi, Carducci, Pascoli e Mercantini ad osservazioni divertenti e acute di vita quotidiana, e L’ombrello e la macchina da cucire, dove la lezione di Magritte e di Bretòn produce un nuovo proverbio.
Un altro carattere persistente ed enucleabile lo troviamo in quella che possiamo chiamare una “pulsione di smascheramento”. Innumerevoli sono le annotazioni psicologiche, sociali ed esistenziali che arricchiscono e strutturano le sue opere e che rappresentano una rivolta futurista e verista contro il “politicamente corretto” degli automatismi percettivi. L’osservare il ridicolo dell’agitarsi nelle discoteche, la gioia dell’avvistare l’insegna luminosa del benzinaio quando sei in riserva, giudizi trancianti sulla musica, un rifiuto marinettiano e ironico dei mostri sacri della musica classica, la considerazione che la “fantasia dei popoli è giunta fino a noi carica di menzogne” sono alcuni esempi di eruzioni che mirano a sciogliere le apparenze nell’enfatizzarle. Ogni opera di Battiato è un’“uscita dal mondo”, per dirla con Elemire Zolla, in quanto il mondo viene fatto implodere nella sua celebrazione paradossale, nell’estremizzazione della sua serialità e mutevolezza, per riaggregarlo fuori dagli usuali contesti referenziali.
Sciogliere il linguaggio discorsivo e duale e ricoagulare la lingua delle e nelle essenze e forme formanti. Ecco la ricetta alchemica di Battiato, seguace di Gurdjieff. Per questo ogni sua opera è preghiera e rito, anche se parla dei suoni lontani di un cinema estivo. C’è di più. Battiato è l’unico autore italiano apocalittico. Nella sua opera si coglie l’essenza dell’apocalisse quale sinestesia di tensione proiettiva, senso dell’urgenza manifestativa e desiderio trasfigurativo sullo sfondo di uno scenario di epico e creativo disfacimento (Esodo, Zai Saman, Atlantide, Delenda Cartago, News Frontiers, Un'altra vita, Aria di rivoluzione). Il tema del viaggio è poi altro tema portante del percorso di vita e di arte di Battiato. In alcuni lavori questo tema viene formalizzato ed oggettivizzato in modo esplicito (Via lattea, Nomadi, Vite parallele, Amata solitudine) oppure emerge quale senso di percorrenza o autocoscienza esistenziale (Chanson Egocentrique, Personalità empirica, Testamento) ma possiamo affermare che tutte le sue opere sono viaggi sperimentali sia in senso genetico, tramite l’utilizzo dell’immaginazione attiva, del sogno guidato fra stati alterati di coscienza e trances lucide, sia in quanto il fattore di una “distaccata percezione”, come una contemplazione di ariostesca fiamma lontana, è centrale nel mondo immaginale della sua estetica dove un logos anarcoautarchico osserva, testimonia e celebra ecumenicamente il samsara delle illusioni e dei miti umani.
E’ quel “Centro stabile” che Battiato sembra conoscere e che rimanda simbolicamente ai miti tibetani di Shangri-La/Agharti/Shambala, a cui talvolta si accenna, e che non a caso rappresenta il cuore tematico del suo primo successo nel grande pubblico. In Via lattea abbiamo un viaggio dentro un viaggio, un viaggio che ne prepara un altro. C’è immagine più nitida per la struttura dell’esistenza? A Battiato può applicarsi una riflessione antica su Saturno: Saturno è la prima e l’ultima porta, ove tutto è destinato a riunirsi (Manoscritto ebraico, Biblioteca Apostolica Vaticana) come pure sembra calzare un commento di Porfirio su Omero: tutti gli antichi infatti hanno espresso sotto forma di enigmi ciò che riguarda gli dei e i demoni, ma Omero ha reso ciò ancor più oscuro, parlandone non direttamente, bensì servendosi dei racconti per mostrare altre cose (Sullo Stige, Porfirio).
Nella sua opera in realtà riesce a farci sentire il senso del mistero quale partecipazione non cerebrale all’Essere ma non ci sono enigmi se non l’unico in cui tutti ci muoviamo. Il “fattore culturale” nella sua opera non è in realtà un frutto di un apporto intellettualistico ma il ricordo vivo, affettivo e grato di chi ha compiuto prima di noi viaggi e uscite in una catena aurea che si snoda e riannoda in continuazione (Il carmelo di Echt). L’omaggio di un aedo che compie per istinto viaggi e uscite parallele a quelle già compiute e di cui restano tracce e vibrazioni permanenti in una sorta di campo elettromagnetico dello Spirito. Per un “manifesto” recente di questa filosofia bisogna risalire alla Philosophia perennis di Aldous Huxley e ai Grandi iniziati di Édouard Schuré. In questo “vortice equilibrato” di demitizzazione e rimitizzazione la rievocazione può assorbire anche il mito del futuribile e nel contempo mutuare anche canoni antichissimi.
In Mondi lontanissimi riecheggiano i poemi omerici: “Parlami dell’esistenza di mondi lontanissimi”. I grandi autori si riconoscono anche dallo sfuggire da classificazioni esaustive. Il nostro non fa eccezione e allora possiamo ammirare e ricordare anche il Battiato “intimista” che si libera per un momento del ruolo dello stesso Battiato quale personaggio, modello, pedagogo (o antipedagogo) per abbandonarsi a ricordi siculi o mitteleuropei o comunque al puro gusto del raccontare (Memorie di Giulia, Veni l’autunnu, Plaisir d’amour, Quando ero giovane) dove domina uno stupore primigenio e dove l’incanto regge anche quando il fascino del ricordo riguarda il “non vissuto”. La genialità linguistica di Battiato è così ampia che include l’ironia, all’Umberto Eco, sulla banalizzazione del linguaggio (“eterna è tutta l’arte dei musei, carine le Piramidi d’Egitto, un po’naif i lama tibetani..”) alla più sottile sovrapposizione fra ambigua allusività e senso del mistero come nel Re del mondo, dove inventa una sorta di inaudita “lode rassegnata”e dove resta insolubile la risposta se il protagonista sia ad esempio Cristo o una sua antitesi.
Battiato quale grande sintetizzatore, capace di rendere partecipabile e condividibile popolarmente in una nuova mitologia una matrice gnostica elitaria (Niente è come sembra), e Battiato quale acutissimo sismografo di sensibilità e sfumature, autentico e unico proprio in quanto riesce a tenere a distanza il proprio ego. Battiato non parla di un qualcosa di particolare trattando il particolare né si rivolge mai ad un contesto soggettivo definito. La sua opera è estetica in quanto estatica cioè in fase di distacco dall’esperito verso l’incantesimo del non apparente (L’incantesimo), militante in quanto trascende il senso dell’ego nella narrazione. La sua musica ci chiama a metterci in cammino fermandoci come la voce che ascoltiamo. Un’opera inclusiva quale universalità in quanto il baricentro viene spostato dal soggettivismo all’epifanicità, dal teorema alla visione, dal bisogno alla partecipazione e all’autorivelazione. Così è Franco. Da prendere sul serio il suo gioco.