Perché parlare ancora di Paganini e perché Paganini può essere visto tutt’ora come un enigma? Per rispondere alla prima domanda basta ricordare il recente film Il violinista del diavolo dedicato a Paganini e colpevolmente passato quasi inosservato proprio in Italia.
Un film del livello di Amadeus e con protagonista una star del violino ed ex enfant prodige quale David Garrett, rivelatosi anche ottimo attore. Un film che ha il grande merito di lasciare sostanzialmente sullo sfondo i temi morbosi dell’occultismo e delle leggenda popolaresca del “patto con il diavolo” per lasciare in realtà protagonista la musica del genio genovese che ha “reinventato” il violino. Le critiche al film, ingenerose, non hanno considerato un fatto storico inoppugnabile: Paganini fu con Mozart uno dei primi fenomeni di massa da debordiana La Società dello Spettacolo. Successo internazionale, europeo, popolare quanto elitario, velocissimo, capillare, infrangibile tale da suscitare appunto leggende dal sapore medioevale quale quella del suo “patto con il diavolo”, spiegazione popolaresca e superstiziosa della sua eccellenza tecnica.
Che Paganini sia ancora un enigma trova conferma nei fatti. Per due principali aspetti. Uno documentale, in quanto non è stata pubblicata ancora tutta la sua opera. Incredibilmente. A maggior ragione ricordando che non si tratta di una produzione quantitativamente molto estesa. Dopotutto il maestro improvvisava abbondantemente e solo tardivamente trascrisse e fece trascrivere la sua musica. L’edizione ad oggi più completa è quella con Salvatore Accardo e la London Philarmonic Orchestra, eppure anch’essa non comprende tutte le sue dodici Sonate, nè i sei quartetti per violino, viola, chitarra e violoncello, e dimentica pure di editare le celebri variazioni sull’aria del Carnevale di Venezia (Oh mamma, mamma cara), e altre opere importanti come le variazioni sulla preghiera del Mosè di Rossini, e il Cantabile in re minore. Il secondo aspetto è dato da una sorta di sottile ed elegante “emarginazione” che ha subito postumo e ancora subisce Paganini, forse proprio a causa della sua meravigliosa perizia tecnica che quasi offusca e distoglie uno sguardo più profondo sulla sua opera. Paganini è ancor oggi più vittima che trionfale beneficiario del proprio ingegno come se la “tecnica” fosse un qualcosa di riduttivamente inferiore alla qualità totale della creazione musicale, come se esistesse una “musica virtuosistica” e come se si trattasse di una musica cortigiana e demagogica, e quindi di livello più basso, rispetto al resto della musica colta.
Paganini vittima del suo stesso mito, prigioniero di un successo così strepitoso che lo relega, pur a distanza di secoli, come per unʼingiusta Nemesi, in un limbo degno di fenomeni freak o da errori genetici invece che spingere ad una sua piena ed integrale comprensione e valorizzazione. Ma il linguaggio musicale di Paganini è veramente riducibile solo ad una dimensione retorica e autoreferenziale? Può Paganini rivelarsi esclusivamente un fenomeno di apparenza istrionica, di ridondanza effettistica? Liszt e Rossini errarono anch’essi nel ritenerlo un genio musicale? Lo sviamento si cela pure nell’accezione “tecnocratica” del termine “virtuosistico”. A voler esser coerenti allora dovremmo degradare a mero virtuosismo tutte le toccate di Bach, gran parte di Mozart, Liszt, Chopin, buona parte della musica barocca e delle partiture per clavicembalo. Ne uscirebbe una riscrittura deformante e irreale della storia della musica. Il tema si rivela intrigante. Potremmo chiamarlo, a costo di schematizzare forse eccessivamente, il tema paganiniano, attualissimo, del rapporto fra tecnica e sentimento.
Il maestro genovese vela con l’artificio tecnico un cuore estremamente lirico? Paganini ha paura del sentimento e allora lo circonda di spesse corti di ebbrezza coloristica ed espressionista che dialetticamente fungono da introduzione ai più puri momenti intimistici? Può essere. Certamente la dimensione della “fuga” nel e dal sentimento e il fenomeno della “criptosentimentalità” sono tutti tratti coessenziali al “nuovo corso” che emerge dopo la Rivoluzione Francese e che ancora ci connota. Al movimento dell’“estroflessione” sociolinguistica corrisponde la compensazione dell’interiorizzazione semantica individuale. Certamente la percezione dell’essenza della sua opera non rammenta facilmente la ricorrenza di movimenti e di temi carichi di sublime poeticità, di pienezza romantica. Giusto quindi il ricordarli e il ribadirne lʼimportanza centrale. Uno di questi momenti di dolcissima intimità tipici della sua opera, forse il più importante in quanto prende un intero movimento, e non solo una fugace aria incidentale, è rappresentato dall’Adagio flebile con sentimento del quarto concerto. Non a caso il film Il violinista del diavolo ha giustamente valorizzato il tema di questo ammaliante movimento, vocalizzandolo e visualizzandolo quale momento dell’innamoramento di Paganini per l’incantevole e talentuosa giovane cantante inglese (artista anch’essa, fuori dal ciak). Qui l’intenso e delicatissimo vibrato della mano sinistra raggiunge vertici eccelsi di dedizione coniugandosi con la sapienza di una melodia semplice quanto potentemente lirica ed evocativa.
Si spezzano i confini fra madrigale, musica cameristica e respiro sinfonico, si superano le distanze fra l’apparente solipsismo del violino paganiniano e il concorso orchestrale, mai pleonastico o riempitivo ma sempre in coerente alleanza narrativa. Paganini passa in un battito di ciglia da un flebilissimo quasi subliminale ad echi di tromba degni delle grandi orchestrazioni. L’invenzione compositiva in questi frequenti topoi della sua opera apre a “radure” di idealizzazione e di assolutezza melodica, quasi meditative nella loro purezza fisica, che non possiamo ridurre a “parentesi” ma appaiono coessenziali al proprio geniale ethos. Altro tema intrigante è il rapporto dell’opera di Paganini con la generazione musicale appena precedente e quella a lui contemporanea. Vedremo tra breve come anche qui possiamo sfatare facilmente un falso mito che chiude Paganini in un beato quanto sterile isolazionismo. Come infatti non riconoscere la giocosità lirica di Rossini nell’Allegro maestoso del primo concerto per violino e orchestra di Paganini? Come non riconoscere una struttura orchestrale e dialettica profondamente mozartiana nella stessa opera e in quasi tutti i suoi sei concerti? La stessa ambiziosa e disinvolta semplicità di Mozart in una simile sprezzatura, in una chiarezza e leggiadria strutturale che alterna in perfetto equilibrio spensierata elegia a fasi interne di drammatizzazione, un’analoga solenne e laica celebrazione che la Musica compie su se stessa come in un vortice di avviluppamento per cui sembra che solo con Paganini possiamo parlare di Paganini, come per Mozart, e pochi altri. Dopotutto entrambi sono stati enfants prodige ed entrambi hanno subito/metabolizzato un’educazione musicale severissima, ascetica, eroica. Entrambi inimitabili e, infatti, mai imitati. Le celebri Dodici variazioni di Mozart possono essere accostate alle variazioni di Paganini su God save the king. Alcuni suoi stessi artifici di scrittura richiamano Mozart nelle sonorità secche, decise, ma pur magniloquenti delle chiuse di passaggio e finali nei concerti, nelle declinazioni dei temi interni, nei climax del violino che aprono allo spazio dell’orchestra. Come possiamo notare omogenei toni seriosamente autorevoli negli adagi e nelle parti introduttive.
Paganini che inverte il rapporto fra violino e orchestra ma sempre all’interno di una logica mozartiana, sviluppandone ovviamente gli aspetti maggiormente pre-romantici. Ma se Paganini camaleontizza Mozart, senza alcuna piaggeria o manierismo, come Mozart lo ha fatto, per affetto, verso Hendel, scrivendogli alcune pagine, così possiamo evidenziare gli accenti rossiniani di alcune pagine paganiniane che si pongono come ulteriori rispetto alle esplicite dediche nelle sue variazioni. Il fascino estroverso e goliardico del pesarese contagiò la ruvidezza schiva e nervosa del genovese? Una certa aura operistica, la consapevolezza della cantabilità, come nell’Allegro spiritoso del primo concerto, ricco di impetuoso slancio corale, e un certo gusto teatrale nelle intense aperture degli archi orchestrali possono accostarsi al gusto del tempo ma pure al fenomeno “Rossini”, a sua volta aduso a creative tecniche di suggestione musicale e di tecnicismo “ad effetto”. Lo fanno emergere tutti quei passi paganiniani in cui si avverte una sorta di “autopercezione scenica” nel decorso compositivo. Paganini va ricollocato quale artista pienamente romantico nella sua opera, al di là della sua mitizzazione quale personaggio romanzesco, per quanto anch’essa fenomeno romantico. Paganini è perfettamente romantico anche nella sua affettuosa simpatia per le arie popolari/popolaresche che gli deriva non solo dalla sua esperienza giovanile con la chitarra, che ebbe anche Berlioz, ma pure dall’influsso della temperie culturale emergente. La stessa simpatia per il “Volk” che connota Liszt e Rossini, oltre a molti altri loro contemporanei.
Paganini quale “Napoleone” del violino: grande e raffinato stratega, che ama stupire e sorprendere, sfuggente ed enigmatico nella propria singolarità esistenziale, ma che non dimentica neppure le proprie radici semplici, popolari. Non a caso il nostro ebbe il coraggio di confrontarsi con il temuto ma fascinoso “nome” di Napoleone, nella sua omonima Sonata, al pari di altri colossi come Beethoven ed Hegel. Il Paganini delle variazioni sul Carnevale di Venezia non è inferiore al compositore dei Capricci. Anzi è forse il suo cuore più genuino ad emergere quando incontra con l’umiltà del sentimento la saggezza musicale del patrimonio collettivo. Il suo spirito volatile e mercuriale sa sottilmente penetrare e manipolare, trasfigurandola, qualsiasi partitura e materiale, come un sapiente demiurgo. La “rivoluzione romantica” di Paganini fu anche sociale e psicologica. La sua virtù “tecnica” gli fece da scudo e garanzia per l’autonomia della propria creatività. Paganini è un Mozart senza committenti. I suoi protettori erano interessati ad ammirare il “fenomeno” più che a discutere dei moduli e dei clichés musicali che avrebbe utilizzato. La “improvvisazione” fu anche efficace alibi e ottimo trucco per un efficace marketing: fidelizzare il pubblico con un’aura di esclusività non riproducibile. Anche l’orchestra quasi improvvisava i suoi pezzi in quanto il maestro gli forniva gli spartiti all’ultimo momento, per cautelarsi prudentemente rispetto alla nuova giungla chiamata “società”.
Con Paganini il soggetto crea il contesto e la personalità musicale non emerge più “nonostante” o “grazie” ai vincoli formali imposti ma in quanto li trascende e li riformula. Assistiamo a inauditi “salti di natura” rispetto al concetto di “tradizione”. Con Paganini apprezziamo la Modernitas nella sua essenza di “barocco anarchico”, quale cioè percorso fluido che scioglie la distinzione fra esistenza e produzione artistica, quale metodo inquieto di contrattazione fra mercato e solitudine dell’anima. La musica si fa percorso iniziatico che prepara e produce i propri ascoltatori guidandoli attraverso un andamento spiraliforme di andata e ritorno rispetto ad un unità non solubile di emozione e di artificio. Nella modernità che inventa “lo stile”, cioè la “moda” e la serialità quale maschera dell’arte, Paganini resta inimitabile e sconfigge la “tecnica” in modo paradossale, portandola cioè al parossismo, come la lancia di Achille che poteva curare le ferite che produceva, riportando la “maschera” alla sua originale fedeltà fatta di cera.
Il proprio “vestito” espressionista custodisce a dovere la profondità della sua anima. La modesta ma, penso, utile morale di conclusione di questa “riflessione ad alta voce” ribadisce la necessità di riscoprire con occhi nuovamente vergini (è infatti la sua musica anche “visiva”) la grandezza di questo genio di tutti i tempi, la cui sensibilissima umanità forse talvolta è sfuggita ai più, celandosi timidamente fra aeree tempeste di semibiscrome e a tratti giocando a nascondino appena dietro al procurato incanto per i suoi arabeschi pindarici, dannunziani, vertiginosi. Abissali.