Quando mi sveglio tu sei già andato via. La pioggia spezza in verticale l'orizzonte parallelo alle mie persiane. La guardo per un po', immaginando fili tesi dall'asfalto al cielo e fatti tremare. Un gioco che mani giganti compiono per tenerci chiusi in casa. Ma qualcuno esce, esce sempre, per necessità o per dispetto. Guardo le mie gambe nude sul lenzuolo bianco. Con tutti i passi che hanno fatto fino a te. Con tutti i passi che potrei e che non voglio. La pioggia aumenta coi suoi fili rumorosi. Io mi alzo e nello specchio appaio bianca e nera come una fotografia. I gesti meccanici raccolgono i capelli, lavano il viso, si fanno il caffè. Io invece sono ancora fiorente e calda su di te, che mi guardi come uno che annegava e poi una corda, poi una barca, poi la terraferma dei miei mille movimenti per amarti.
Il mio telefono non squilla, la mia casa non emette alcun rumore. Tutto proviene dall'esterno. Qui il silenzio è corazzato. Quasi temo il mio respiro: si è stancato di aspettare, e ti cerca riconoscendo il tuo odore, che hai lasciato nelle stanze come il disastro del ladro che non trova niente di valore. Ed io cammino su questo odore sparso e non riconosco niente di tutto ciò che avevo. La finestra inquadra sempre lo stesso angolo. Io guardo i nomi nuovi sulla porta della scuola, e gli omini di cartone, e le grida della maestra dure e gialle di plastica. Non teme la sua voce. Gliel'hanno rotta gli ordini. Non la sente più. Solo le pulsano le vene nelle tempie. Poi d'improvviso torni, con un vestito che piove nero come un'autostrada, i capelli liquidi in riccioli di catrame, le ciglia lunghe infilate di perline. “Sei tutto bagnato” dico con la voce che si fa coi bimbi per potergli dire “ti amo” in ogni istante. Tu sorridi e ti togli la giacca, ti strofini il naso con il dorso della mano. “Vieni qui, che ti prendo un asciugamano”. E corro in bagno leggera come l'eco di un salto, e tu sei lì nella pozzangherina del tuo ritorno, ad aspettare la mia cura, la mia gioia. Ti strofino la schiena, le efelidi che ti ha posizionato il sole ad ogni bacio. Affondo il naso nell'incavo della scapola, e chiudo gli occhi per impormi di non dimenticare.
La finestra inquadra sempre lo stesso angolo. Il carrozziere che tratta coi clienti, la ragazza col caschetto a spesso con il cane. La ferrovia che mi somiglia, che brulica di attese, che sono una, unica e uguale, universale. Poi d'improvviso torni, con una busta colma di spesa e con l'affanno. “Scusa, ho fatto tardi al lavoro, ma stasera ti preparo una cena che non ti scordi più”. E tiri fuori il vino, lo shiraz che piace a me, e il pesce fresco nella carta ruvida e bianca, e i pomodori, e l'olio, e tutto il resto, che ho l'acquolina in bocca ed una gran fame, e ti sorrido come la bimba che sono quando mi fai le cose buone e ti giro intorno come un satellite intorno al mondo.
La finestra immobile, lì, da sempre, inquadra lo stesso angolo. I marciapiedi che mille vite guidano fino a casa, il barista che strofina bicchieri parlando agli avventori, la casalinga che ha comprato le scatolette per il gatto. Dal frigo quasi vuoto prendo un uovo, dell'insalata. I gesti meccanici cucinano, condiscono. Io invece mi faccio bella, metto il rossetto ed il vestito nero preso in Grecia. Le tovagliette sul tavolo, le candele. Spalanco le tende, faccio entrare il buio della sera, ad inondarti di luci gli occhi. I gesti meccanici mangiano. Il silenzio regge imperterrito. Guardo la porta chiusa, sbarrata dalla tua ultima uscita, che solo tu puoi sfondare, tornando. Solo tu puoi salvarmi, hai chiuso dall'esterno. Mi hai chiusa dentro, in questo posto da cui entro ed esco, sì, ma ti sei portato via le chiavi e la parola “casa” e i nostri mobili comprati con gli occhi e pagati con le risate e i giochi. Ti sei portato via il nostro cane che ancora non avevamo e i nostri figli che qui mi crescono di domande dentro al ventre.
Questa è una buona occasione. Di sicuro fuori è freddo anche se è estate. Di sicuro il fiume delle strade è impervio e tu sei stanco e vuoi dormire. Riporta l'ugola degli uccellini, e l'aroma del caffè, e lo scorrere dell'acqua nella vasca, il tintinnio dei calici amanti. Ho smesso di scriverti perché scrivere cose tristi è un po' come spegnere le cicche sulle corolle dei fiori. Tu così mi fai sentire, sempre, inopportuna e cattiva per il mio troppo amarti. Invece io ho un trucco che spegne i temporali, che dà polpa alla mia spina dorsale, che azzittisce la campana che suona mille volte a rintocco per urlarmi il tempo. Però mi servi tu, il tuo palmo e il tuo sterno sul quale ho fatto osso la nostalgia.
Quando mi sveglio tu sei già andato via.