Lo stesso show, nuovi mercati
(The Practice of Theory, Situationist International, I, New York, 1969)
Col treno delle 12 e zero quattro non è arrivata
con il treno delle 14 e cinque non è arrivata
Dal treno delle 16 e 23 non è sceso nessuno
(Guido Ceronetti, La pazienza dell’arrostito)
In Lui infatti viviamo, ci muoviamo, esistiamo
(Atti degli Apostoli , 17,28)
Cosa hanno in comune Beppe Grillo, Drive In e la figura del Subcomandante Marcos? Non certo solo la popolarità e l’attenzione mediatica, altrimenti questo accostamento non potrebbe ergersi a ragionamento. Un fattore importante e attualissimo li avvicina a livello di linguaggio, di comunicazione, e a livello di fenomeni estetici e antropologici quali sono: il “situazionismo” quale loro habitat fenomenologico e la sua crisi nel rapporto significante/significato.
Mi spiego meglio: sia il noto politico/comico, abile ed efficace affabulatore e comunicatore, (ligure come l’autore principale di Drive In e come ligure fu uno dei laboratori del Situazionismo), che la celebre sit com di grande successo, incarnazione eccellente dello spirito degli Eighties, che il mitico guerrigliero-filosofo del messicano Chiapas, presentano un grande debito rispetto al Situazionismo, che fu ideologia intellettuale sessantottina, pop, tribale e avanguardistica, guerrigliera e anarchica. Beppe Grillo, Drive In e Marcos vivono di habitat e di situazioni mediatiche e comunicative sia nella loro abilità nel farsi “immaginario” che nella loro tendenza a generare situazioni socioculturali e innovazioni immaginali e visive. Tutto è “già visto” ma il segreto “di metodo” del loro successo è la contaminazione e la mescolanza-ibridazione.
Beppe è un incrocio fra il Varietà e Giovanni Battista (come l’apocalittico Pistarino che lanciava le sue invettive comiche e surreali al Drive In), cioè una versione umana del Pasquino di Roma; il Drive In è il Melting pot del futurismo e dadaismo comico che ironizza sul modello di un Italia americanizzata, Marcos è il mix fra il professore, il rivoluzionario e il monaco, cioè una versione postmoderna del cavaliere templare. Tutti e tre infine scontano la crisi strutturale propria del Situazionismo storico e di ogni situazionismo: cioè l’essere facilmente assorbibili dal Sistema proprio nel loro porsi contro il Sistema. Uno dei postulati del Situazionismo era: usare le armi del Sistema (pubblicità, comunicazione, creatività di massa… ) per operare una “rivoluzione culturale” dall’interno delle elites e degli strumenti della società di massa in modo di trasformarla da “società dello spettacolo” (e del Potere elitario) a società ri-umanizzata e ri-naturalizzata.
Questa bella utopia è naufragata già nel 1972 quanto il movimento situazionistico si auto-scioglie proprio all’apice del suo successo quando migliaia di giovani francesi chiedevano di entrare a farne parte. Paura di essere massificati dal proprio successo? Non solo. La derive e il detournement, due fra le principali tecniche filosofiche di attacco del Situazionismo (che esalta la guerriglia urbana ad esempio quale modello di innovazione, confermandosi al 90% nipotino del Futurismo) sono fallite del tutto nella misura in cui vengono adottate dal Mercato quale moduli di condizionamento, oltre che divenire base comune di rappresentazione estetica.
Oggi siamo tutti un po’ situazionisti, privi di linee valoriali forti e condivise, quindi il Situazionismo si riduce a moda, a tattica, e fallisce nelle sue alte finalità e nei suoi postulati. Fra Isou e Debord si era aggregata la definizione di situazione quale momento di vita, concretamente e deliberatamente costruito attraverso l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco d’avvenimenti. Oggi la “situazione” è momento non più strategico ma di mero potere momentaneo, si chiami ora Drive In o Grillo o Marcos. Dalla destrutturazione dell’idea del reale e dalla sua riproposizione nei termini di un processo dinamico e olistico, aperto e fluido deriva quello che Vattimo chiamerà poi negli anni ottanta "pensiero debole". Il Situazionismo ha a che fare con il culto degli stati mentali collettivi, delle suggestioni di massa, da costruire e indurre e con cui giocare creativamente, con la celebrazione del concetto psicoculturale di paradigma, ciò che nell’economia era lo standard.
All’epica situazionistica appartengono i fatti sociali e mediatici del G8 di Genova del 2001, vero laboratorio del nuovo progressismo, acefalo e autogestionario, sistema antisistemico che vorrebbe porsi con le qualità dell’organicità e della processualità, libere però da codici definiti. Il G8 quale performance mitizzante, operazione di arte visiva, gestione estetica e simbolizzante del disordine. La società attuale sopravvive rantolando in un ipertrofia di situazionismi. L’arte/artigianato pubblicitario è sostanziato di Situazionismo e così ormai tutti i mondi dei mass media: dalla cronaca all’intrattenimento televisivo fino a quei monumenti mediatici di Situazionismo ipnotico che sono Striscia la notizia e Paperissima.
Il carattere sovversivo e rivoluzionario del Situazionismo ideologico si è trasformato in un fedelissimo e vincente strumento per il Mercato e la sua aggressiva e omnipervadente comunicazione. Dall’Isola dei famosi alla Leggenda del pianista sull’oceano, dall’ hip hop ad Austin Power, dallo splosh alla nuova tendenza del buildering cioè dell’arrampicarsi/saltare fra l’arredo urbano e gli ambienti metropolitani, la polimorficità del Situazionismo impera nella sua programmatissima e dirompente struttura che induce il senso del ritmo spezzato, del gioco libero, istintivo, azione efficace e virale del Mito del caos. Lo stesso Paul Mac Carthy, tanto per non far nomi, è artista di potere, amico del Potere, che legittima la volgarità e il Potere che pretende di esorcizzare e stigmatizzare nella sua esibizione di tipo teatrale e parossistico.
Cosa è successo quindi a Drive In e a Marcos e cosa sta succedendo a Grillo e allo stesso Papa Francesco? Non si può competere con il modulo dei mass media uscendo dall’orizzontalità e dal monismo dei valori presupposti. Non si può oggi essere rivoluzionari e “di successo” mediatico. Il mezzo linguistico, il significante, vince sul significato, cioè sull’individualità e intenzionalità personale e finalistica. Il modulo di linguaggio prevale su chi lo usa e genera effetti non previsti, talvolta contrari alle intenzioni. Drive In che voleva essere una critica all’americanizzazione è divenuto nel ricordo il trionfo celebrativo del modello americanista di massa, filmico e consumista. Le curve di Tinì Cansino e di Lory Del Santo ci hanno distratto dalla profonda e seria satira politica e antisistemica che Antonio Ricci propugnava contro l’atlantismo passivo dell’Italia. Sono rimaste le curve e l’"asta tosta" e "asfidanken", cioè la novità delle situazioni comiche, la potenza delle immagini e i tormentoni linguistici (sesesseseese, seché? Securo!) il rimescolamento degli stilemi linguistici, ma si sono persi i valori sottesi. Non ci si ricorda più che in una puntata dove Gianfranco d’Angelo faceva la presa in giro gustosissima di Spadolini guerrafondaio da operetta e innamorato di Reagan, comparve uno scatenato Pannella in grande forma e il comico profetizzò un chiaro progetto politico (che i vari Berlusconi e ora Obama e Renzi hanno cercato e cercano di realizzare): il “partito radicale di massa”.
Alla faccia della trasmissione superficiale! Fellini lo aveva capito dichiarando che Drive In era l’unico programma per cui valeva la pena avere la televisione in casa. La stessa cosa per Marcos: dopo decenni di creazione semiartificiale di un immaginario di resistenza eroica alla Che Guevara neppure l’anonimato del volto ha salvato il “personaggio” dalla spietata voracità dei tempi televisivi. Quello che non ha potuto l’FBI e il Governo Messicano sono riusciti a ottenerlo gli sbadigli dei popoli catodici e la difficoltà di scrivere un palinsesto sostenibile. Il “Subcomandante Marcos” (con quel “sub”capolavoro di umiltà hegeliana e curiale) si è “arreso” poche settimane fa ammettendo (con disonore, in quanto l’attore quando recita non deve ricordare al pubblico di essere un attore) di fronte al mondo che il suo personaggio era una “trovata pubblicitaria” e che ora non è più utile alla recita! E lo ha detto in occasione dell’uccisione di un “resistente del Chiapas”, cioè di un suo compagno di battaglia.
Quando muore, il Mito non risorge. E’ peggio dell’uccisione fisica che invece spesso genera il Mito. Beppe Grillo rischia un rischio fenomenologico simile in quanto proprio la sua abilità comica e comunicativa lo rende poco credibile come politico. Si tratta di un paradosso tutto situazionistico. Beppe è sempre stato “politico” in quanto la sua comicità (come quella di Troisi) si è sempre basata sui toni dell’invettiva, dello scandalo morale e della contestazione. Basta riguardarsi oggi le sue ottime trasmissioni del ciclo: Te lo do io (l’America, il Brasile, il Giappone). Il problema per lui è che era più credibile politicamente quando si muoveva solo in ambito comico (e infatti fu censurato ed emarginato dalla Rai) rispetto ad oggi che parla da politico (spesso acuto e profondo) ma generando effetti prevalentemente comici (in senso tecnico), cioè di divertimento, sfogo e di scarico della tensione psichica. Beppe dice la verità sulla Finanza ma la dice facendo ridere e allora perde credibilità. Un giullare può mettersi al posto del Re? Non è possibile. La recita dei ruoli non lo consente! E nessuno può vincere contro il Linguaggio.
Persino Nietzsche dovette ammettere che la metafisica e Dio stesso si celavano nella grammatica e nell’analisi logica e non si poteva fare nulla contro! La copula grammaticale sconfigge sempre l’ateismo e il relativismo. Il linguaggio domina sulla visione. Il Teatro divora i suoi attori. Non c’è nulla di più effimero e stancante delle mode!