In un mondo dove si è afflitti dalla rincorsa del tempo, dove prevale l’istantaneità del web, l’immediatezza delle richieste e dei risultati, parlare di psicoanalisi, che si misura ancora con ritmi di mesi e di anni sembra anacronistico. Eppure, l’analisi della psiche, da Freud in avanti, oltre ad essere stata, assieme alla rivoluzione copernicana e a quella evoluzionista, una tappa insostituibile della coscienza e della conoscenza dell’uomo, ha ancora molto da dirci e proporci, soprattutto in una società chiusa compulsivamente su se stessa e dove il disagio psichico viene spesso ignorato e travisato.
Per proporre anche ai non specialisti un’immagine della psicoanalisi contemporanea, con particolare riferimento all’interazione tra società e disagio psichico, mi sono rivolto a Giuseppe Di Chiara, psicoanalista, didatta della Società Psicoanalitica Italiana di cui è stato presidente negli anni 1993-1997. E’ autore di importanti studi e pubblicazioni sulle problematiche e gli orientamenti della psicoanalisi contemporanea e ha approfondito in Sindromi psicosociali la dimensione sociale del disagio psichico partendo dalla necessità del superamento dell’atteggiamento svalutativo dei fenomeni sociali che in passato era diffuso tra gli psicoanalisti.
Circa 10 anni fa, la Società Psicoanalitica Italiana avviò un’indagine sulla disaffezione alla psicoanalisi; si può parlare ancor oggi di un suo rifiuto o ridimensionamento come terapia o come concezione antropologica?
Si racconta che nell’estate del 1909, in navigazione tra l’Europa e gli Stati Uniti, per tenere all’Università di Worcester una serie di conferenze dietro invito di Stanley Hall, Freud avrebbe detto a Jung, che con Ferenczi era con lui: “Essi non sanno che portiamo loro la peste!”. La psicoanalisi, che Freud sperava entrasse in America, ci entrò davvero e conobbe, lì come altrove, un rigoglioso sviluppo. Negli anni sessanta, in Italia, lo psicoanalista che lavorava nelle istituzioni aveva uno statuto di semi-clandestinità. Venti anni dopo anche solo avere compiuto un percorso di analisi personale era un titolo di merito. Ma, come si conviene ad una peste, la psicoanalisi, dopo l’iniziale forte irritazione e la successiva diffusione, sta conoscendo una vivace reazione di rigetto. Aprire gli occhi, avere coscienza della condizione umana, e soprattutto dei suoi limiti e delle sue difficoltà, seppure apre la strada a conquiste e superamenti, è anche frustrante. Dice bene nella premessa come siamo condizionati “dalla rincorsa del tempo” dalla “istantantaneità del web”, dalla “immediatezza delle richieste e dei risultati”. Il problema non è quello di disporre di mezzi celeri, ma di sapere se questi mezzi distruggono i risultati. La psicoanalisi cerca di rallentare il processo di scarica immediata della pulsione, di intercettarlo, rallentarlo e trasformarlo in gioco, lavoro, pensiero. La pretesa di celerità, il rifiuto dell’attesa, la prontezza del risultato possono svolgere egregiamente la funzione di difesa dalla psicoanalisi. E poiché la cura e la conoscenza sono in psicoanalisi strettamente collegate, vengono insieme rifiutate, o minimizzate, sia la terapia che la concezione antropologica prodotte dalla psicoanalisi.
Come si spiega questo appannamento dell’immagine della psicoanalisi?
L’appannamento dell’immagine della psicoanalisi è prodotto da fattori estrinseci alla psicoanalisi e da fattori intrinseci ad essa. I fattori esterni sono quella prevedibile resistenza ad essa, l’esperienza che cura, frustrando il nostro narcisismo, la nostra onnipotenza, la nostra vanità. I fattori interni, fondati sugli stessi presupposti, si sono sviluppati all’interno della stessa psicoanalisi, tra gli psicoanalisti e dentro il tessuto della loro teoria e pratica. Non ha senso pensare che sia possibile una pratica su una base scientifica riconoscibile, riconducibile contemporaneamente a diverse teorie di base. I diversi modelli, che vengono spesso invocati, hanno senso solo se sono forme diverse di assemblaggio degli stessi fondamentali di una teoria forte, chiaramente riconosciuti e condivisi. In questo caso essi, i modelli, permettono di mettere in migliore evidenza uno o un altro aspetto della realtà che si esplora. Se invece i modelli si sostituiscono alla teoria di base, eliminano gli stessi fondamenti di una disciplina. Pertanto parlare di “molte psicoanalisi” è un non senso. Oppure voler dire che la psicoanalisi ha cessato di essere quella disciplina scientifica sui generis, e cioè con le proprie caratteristiche riconoscibili. In parte questo appannamento è stato prodotto dalla forte spinta alla ricerca di soluzioni pratiche, in termini di prestazione di cure, e quindi di psicoterapia, trascurando l’avanzamento dell’apparato teorico. Questo è un arretramento rispetto al lavoro di Freud, che consistette nel dare un fondamento più scientifico alla pratica della psicoterapia. E’ giusto tuttavia ricordare che esistono ancora gruppi di psicoanalisti che insistono e lavorano nella ricerca del common ground della psicoanalisi.
In una sua precedente intervista ha notato che mentre in passato la riluttanza a rivolgersi ad una psicoterapia era dettata da remore individuali, oggi, ci si maschera dietro una difesa collettiva, come mancanza di tempo, problemi di lavoro, ecc.: è più difficile trattare questo tipo di difese?
Sì, lo è. La riluttanza ad iniziare un percorso di conoscenza e trasformazione poteva e può essere affrontata meglio quando essa si appoggia a valori personali o di gruppo bene evidenti, Weltanschauungen filosofiche, scientifiche o religiose. Essa diventa assai più difficile se si àncora a problemi fattuali, concreti, di una realtà materiale, o ritenuta tale. Talvolta si è in presenza di realtà non superabili: esiste il desiderio e l’indicazione per una psicoanalisi, ma non ci sono le condizioni materiali per la sua realizzazione. Lì dove vive il paziente non ci sono psicoanalisti, per esempio. Il caso che Lei propone è diverso e abbastanza frequente nella attualità. Ci sono apparentemente le condizioni per iniziare un’analisi; ma questa va subito incontro alla difficoltà che ha il paziente di mantenere il ritmo delle sedute, di venire ad esse, soprattutto per motivi apparentemente di lavoro, riunioni, seminari e simili. Nella mia esperienza questa situazione è determinata da una sindrome claustrofilica socialmente condivisa. Le persone, senza saperlo, si difendono, ci difendiamo, abitando un luogo ristretto, escluso dalla più grande realtà della società umana, un piccolo o grande universo concentrazionario che ci è difficile lasciare. La persona in analisi vive il conflitto tra l’uscire da questo suo luogo chiuso e il bisogno di stabilire un contatto con una realtà aperta e diversa. Ma le ragioni che presenta appaiono realisticamente fondate: c’è una importante riunione; devo partire per gli Stati Uniti per motivi di lavoro; non posso dire di no al mio capoufficio. Il film Truman’s Show mostra la stessa realtà mentale in una prospettiva generalizzata: viviamo dentro ad una bolla che ci separa dalla nostra realtà! Lo psicoanalista stabilisce il suo quartiere operativo al di fuori della “bolla” o del “claustro” e cerca da lì di incontrare il paziente, in un andirivieni continuo e impegnativo tra il chiuso e l’aperto.
In Freud, alla base della vicenda umana c’è un’irrinunciabile distruttività. Nel suo Sindromi psicosociali sembra metterci in guardia dal considerare come ogni fenomeno collettivo sia sempre in qualche modo patologico: può espandere questo concetto?
Il grande esperimento che la natura e l’evoluzione compiono con la selezione di Homo sapiens prevede fin dalle origini l’esistenza di gruppi di umani e non di individui isolati. Solo che questa gruppalità non è regolata rigorosamente da un apparato istintuale e dalle sue regole, come può osservarsi in numerosi gruppi di altri animali, ma è sostenuta da forze psicosomatiche efficaci, le pulsioni, e regolata dai frutti di una esperienza di continua reciprocità. Questa esperienza si svolge utilizzando energie e strutture predisposte al compito, che vengono via via attivate e utilizzate. I gruppi, quindi, come gli individui che li compongono, utilizzano sessualità e aggressività, riuscendo a realizzare un programma di sopravvivenza e di crescita in alcuni casi, o fallendo in questo programma in altri casi, producendo guasti di varia natura, fisica e psichica, fino al loro annientamento. Mi è sembrato urgente aggiungere ad altri il mio contributo con Sindromi psicosociali, che è un tentativo di studio della fisiologia e della patologia dei gruppi sociali. Devo dire che il tentativo di stimolare una riflessione a più voci, inter- e multi-disciplinare, non è riuscito. Anche in questo caso ha pesato – credo – l’urgenza di avere risultati rapidi in termine di conseguimento di effetti spendibili, di cura o di formazione o di gestione, piuttosto che l’approfondimento dei meccanismi mentali in gioco. Di nuovo si accentua la distanza tra la teoria e la prassi, con un decremento di conoscenze e, alla fine, di efficacia.
La conversazione con il dottor Di Chiara continua con una riflessione su alcuni temi e condizioni che caratterizzano la società odierna.
Il ruolo sempre più impegnativo e determinante che ha assunto la donna nella società può aver creato dei problemi di “genere” assimilabili ad una “sindrome psico-sociale”?
La donna ha conquistato in maniera definitiva, almeno nella nostra cultura, la possibilità di uno sviluppo pieno delle proprie capacità lavorative, per come era suo diritto. Nel fare questo, tuttavia, non ha sempre potuto portare con sé il bagaglio di esperienze e di conoscenze proprie del femminile. Ha quindi adottato nei modi di esercizio dei nuovi ruoli conquistati quello che era già disponibile nel maschile. Ora la conoscenza dei profili mentali inconsci della femminilità e della mascolinità, nella loro profondità, è ancora assai superficiale. Lo studio dello sviluppo della psicosessualità non ha compiuto grandi progressi; si nota anzi una tendenza a trascurarlo, benché rimanga un punto fondamentale dell’esperienza psicoanalitica. Si va, per questa via, profilando un problema più generale dell’identità di genere? Credo di sì e sarebbe in linea con la maggiore frequenza dei disturbi identitari nella clinica oggi.
Se nel passato il sesso era represso sulla base di vincoli morali e religiosi, oggi sembra essere quasi imposto dall’edonismo della società dei consumi. Come considera questa modificazione?
E’ stato merito della psicoanalisi non solo l’avere indicato la matrice pulsionale della vita psichica, ma – direi soprattutto- l’avere evidenziato che l’opera dell’uomo è sempre frutto delle pulsioni, debitamente trasformate. La loro repressione ferma il motore psichico; la loro mancata trasformazione lo allaga e rende inservibile. La psicoanalisi indica questo passaggio cruciale servendosi di un riferimento antropologico e culturale: il trapassare nella vita sociale della Grecia antica dai culti dionisiaci e le falloforie alle rappresentazioni della tragedia sugli spalti dei teatri dell’Attica. Oggi ci troviamo dinanzi ad una eccedenza di “sessualità grezza”, poco o male trasformata (per esempio come “merce di consumo”, o “pennacchio esibitivo”, ma anche in molte altre modalità, ancora più nocive, spesso intensamente commiste ad “aggressività grezza”, distruttiva). Questo ha fatto pensare ad alcuni psicoanalisti ad un regresso rispetto allo stadio edipico, nella direzione del baccanale orgiastico.
Altra profonda trasformazione del presente riguarda la famiglia, con la messa in discussione della tradizione patriarcale e della “sacralità” del vincolo matrimoniale: che lettura dà di questa nuova condizione?
Sono note le critiche sociologiche e quelle economiche alla famiglia tradizionale. E’ toccato alla psicoanalisi mettere in luce le sofferenze che possono nascere nel familiare e quelle dei bambini, ma anche cercare di far luce sulle necessità degli esseri umani a condividere le fatiche e le gioie dell’esistenza, così come a soddisfare i bisogni dei piccoli che nascono e crescono. La struttura familiare che abbiamo conosciuto è andata in crisi e non è stata ancora ricostituita su nuove e migliori basi. Però ne sappiamo molto di più oggi rispetto ad ieri su moltissimi aspetti della vita mentale, affettiva e cognitiva. L’argomento è troppo vasto per avere un commento anche conciso. Credo che dovremo ancora molto osservare, apprendere, e soprattutto sapere aspettare che vada formandosi una forma di famiglia capace di corrispondere meglio ai bisogni degli uomini.
Tramonto delle ideologie, “pensiero debole”: utile antidoto ad atteggiamenti superegoici, ripiegamento nichilistico, o altro?
Una premessa: il superio, quale struttura psichica che si forma nel corso della esistenza in ognuno, e che si installa nell’io, è irrinunciabile. Il problema della salute mentale è, a questo livello, quello della qualità di questo superio e della qualità dei rapporti che intrattiene con l’io e viceversa. Antidoti vanno trovati nei confronti di superio tirannici, crudeli, corrotti e così via. Il superio esprime, per dir così, la forma di governo all’interno della psiche. La critica dell’ideologia e il pensiero debole danno un contributo alla trasformazione di un superio patologico in uno più sano. Naturalmente rimane centrale la necessità che il pensiero continui ad esistere e a funzionare meglio, così come quella che la prassi non rimanga orfana di una sua teoria. E’ infatti noto che quando ciò sembra potere avvenire, è in azione una teoria nascosta, e incontrollabile.
Guido Ceronetti ha definito la politica un “surrogato incruento della guerra civile”: può essere che l’aggressività umana abbia così trovato un’utile valvola di scarico?
Che ad alcuni gruppi specializzati venga affidato il compito di intercettare e “scaricare” l’aggressività è sicuramente verisimile. Ho sostenuto in Sindromi psicosociali che il compito dell’esercito, come gruppo di lavoro, è proprio questo. In tale senso ogni guerra evitata è il risultato positivo di ogni esercito, la sua vittoria; e ogni guerra praticata è invece la sua terribile sconfitta. Il problema che pone la definizione di Ceronetti è però un altro: se i politici, litigando, insultando, offendendo, si occupano della bonifica dell’aggressività che può produrre la guerra civile, chi si occupa del governare? Oppure, come mettere insieme le due funzioni? E’ come se, piuttosto che offrire al popolo giochi gladiatori, gli stessi politici facciano i Circenses. Desidero aggiungere, a questo punto, che i processi di trasformazione non sono soltanto quantitativi, ma anche qualitativi. Per realizzare questo essi hanno la necessità di quell’assetto stabile e affidabile, per come è realizzato nella pratica della psicoanalisi clinica. Come può realizzarsi qualcosa di simile nella contesa politica?
Massimo Recalcati ha scritto che nell’attuale politica italiana prevale, da una parte “l’affermarsi di un desiderio privo di legge”, dall’altra il “fantasma di purezza tipicamente adolescenziale”: cosa ne pensa?
Gli individui e i gruppi che cercano e praticano il potere pretendono di avere assegnati privilegi. Al contrario chi desidera governare non vuole privilegi, e rinuncia a quelli che in passato vennero dati o che nell’attualità vengono offerti. E’ vero che fa parte del profilo psichico dell’adolescenza quella “purezza”, che è però il frutto di una forte scissione-e-idealizzazione, riedizione giovanile di quella infantile tra la fata-e-la-strega, per esempio. Non so valutare se e quanta parte della politica nel nostro paese sia guidata da questo “fantasma”.
Quale il compito e le prospettive della psicoanalisi e dello psicoanalista nella società attuale ? E come vede l’utilizzo dello strumento informatico (web-camera, ecc.) nella pratica clinica?
Il compito è continuare. Continuare per come si è fatto fino ad ora e farlo meglio perché con maggiore esperienza. Questa ci è di aiuto e ci aiuta a superare le nuove forme di resistenza che i nuovi assetti societari favoriscono. Dobbiamo sapere anche resistere ad alcune lusinghe. La psicoanalisi, per quanto sia legittimo desiderarlo, non è un processo rapido. La psicoanalisi non può farsi senza la presenza delle persone. I sistemi di comunicazione, anche molto rapida, sono utili nel nostro lavoro per dare appuntamenti, o informazioni, ma non possono sostituire l’esperienza della “stanza dell’analisi”, dove ci sono due persone, due persone reali e non virtuali, che lasciano andare il loro pensiero in incredibili percorsi di fantasia, di costruzioni di storie e di drammatizzazione delle stesse.