I filosofi superficiali sono la rovina dell’arte.

(Karl Popper)

L’artista è un messaggero degli dei, e per tale ragione non può spiegare la propria opera in una lingua che non è la sua.

(Charles Morgan)

Livia e Alfonso Iaccarino gestiscono il ristorante Don Alfonso 1890 sulla costiera sorrentina a Sant’Agata sui due Golfi. Un ristorante premiato con due stelle Michelin. Ho discusso più volte con Alfonso del suo lavoro: dati i miei studi sulla creatività e l’innovazione, ero particolarmente interessato a capire come creasse nuove pietanze.

I ristoranti tre stelle Michelin fanno parte di quelle attività che possiamo definire industria dell’esperienza, un settore che comprende turismo, spettacolo e alta ristorazione. L’elemento comune è la promessa di un’esperienza memorabile. Potremmo chiamarle fabbriche di bei ricordi. Rispetto ad altri ambiti, però, i ristoranti tre stelle hanno una sfida ulteriore: devono trasformare una attività quotidiana biologicamente essenziale, il mangiare, in una esperienza così significativa da restare impressa nella memoria e poter essere raccontata - e adeguatamente pagata!

L’esperienza memorabile può derivare dalla meraviglia, dalla stranezza, dal deforme, dal dolore e da altre emozioni forti. Nel caso dei tre stelle, essa deve necessariamente legarsi al piacere, suscitando connotazioni positive. In altre parole, deve essere un’esperienza estetica piacevole. Ecco, dunque la domanda che ponevo ad Alfonso: come fai a costruire, attraverso il cibo, una esperienza estetica memorabile?

Costruire una esperienza memorabile significa combattere una dura battaglia contro ciò che Calvino chiama la peste dell’ovvietà, che consuma gesti, immagini e parole, rendendoli insignificanti. L’ovvietà, insieme alla ripetitività e all’automatismo, spegne la vivacità dell’esperienza e relega il presente in uno sfondo indistinto. È quella che gli antropologi chiamano l’insufficienza della quotidianità. Per sfuggire a questa maledizione, gli artisti devono introdurre un elemento di sorpresa nella sfera percettiva dell’osservatore. Senza un grado di sorpresa, l’osservatore – o, nel caso dei ristoranti stellati, il cliente - non si desta dal proprio torpore. Ecco la prima sfida di Alfonso: generare sorpresa senza ricorrere a facili scorciatoie come la stravaganza e la bizzarria.

La seconda sfida è il piacere, ed entriamo qui in un territorio ancora più complesso. Le neuroscienze ci insegnano che la sensazione di piacere è mediata da alcuni sistemi cerebrali che rilasciano sostanze chimiche, sia neurotrasmettitori sia neuro-ormoni. Il più studiato è il sistema dopaminergico, coinvolto nell’anticipazione e nella previsione delle ricompense. Secondo i neuroscienziati, i neuroni dopaminergici rispondono a ogni forma di piacere: cibo, amore, sesso, umorismo, musica, arte… In particolare, “l’arte può dare origine a sensazioni di benessere perché predice ricompense biologiche.”1

Nel quadro delle scienze neurocognitive, il piacere suscitato dai piatti stellati nasce dal fatto che l’atto del mangiare attiva meccanismi essenziali per la sopravvivenza, inducendo il sistema dopaminergico a premiarci. Ma c’è di più: l’esperienza gastronomica dev’essere capace di evocare una ricca varietà di ricordi ed emozioni conservate nella memoria culturale e individuale. Un esempio perfetto è il celebre episodio della madeleine di Proust:

Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione d'un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzo di «madeleine». Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m'aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M'aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità, la sua brevità illusoria, nel modo stesso che agisce l'amore, colmandomi d'un'essenza preziosa: o meglio quest'essenza non era in me. Era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde m'era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo ch'era legata al sapore del tè e della focaccia, ma la sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla?2

Tornando ad Alfonso, quando gli chiedevo di descrivere il processo di creazione di una nuova ricetta, lui divagava. Parlava degli ingredienti: del profumo del pomodoro, della sua acidità, del colore, della consistenza della polpa. Gli ingredienti erano il punto di partenza e di arrivo della sua creatività. Diceva:

Ogni ingrediente in un piatto ha un ruolo basato sulla sua essenza. Questa essenza deve essere prima rispettata e poi tirata fuori combinandola con altri ingredienti. La mia creatività comincia dalla materia prima. Per fare un esempio, passo parecchio tempo a odorare un pomodoro colto nel mio giardino. Poi comincio a pensare come posso portare a tavola la sensazione di benessere che quel profumo mi aveva dato. Sperimento combinazioni con quel profumo guida in testa.3

A poco a poco, ho compreso che la sua azione creativa consisteva nell’appropriarsi sensorialmente del pomodoro, fino a farlo diventare una parte di sé. Una volta conseguito questo risultato, il più era fatto. Solo dopo poteva iniziare la sperimentazione, con l’obiettivo di esprimere al massimo le potenzialità dell’ingrediente. La materia biologica del cibo è per Alfonso un veicolo di sensazioni corporee — sapore, colore, odore, consistenza, forma, temperatura, texture, peso — che a loro volta evocano emozioni, ricordi, esperienze.

Sensazioni da manipolare con rigore e parsimonia (Alfonso dice “rispettandole”), proprio come le parole per un poeta o i colori per un pittore. L’efficacia di un piatto non dipende dalla quantità degli elementi, ma dalla loro precisa orchestrazione. Per convincersene, basta rileggere Soldati di Ungaretti:

Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie.

Ungaretti usa appena nove parole (dieci col titolo), tutte parte del vocabolario quotidiano. Anche l’immagine delle foglie in autunno è familiare. Eppure, rimuginando su questi versi, emerge gradualmente un’angoscia sottile. La forza evocativa è già nelle prime due parole: Si sta. Un’espressione impersonale che rende universale la condizione umana, trasformandola in una legge ineluttabile. Se al posto di Si sta ci fosse stato Io sto, l’effetto sarebbe stato completamente diverso: la legge universale scomparirebbe, lasciando spazio a un’esperienza individuale.

Per concludere, ciò che ho imparato parlando con Alfonso è che non bisogna sottovalutare gli insegnamenti delle esperienze estetiche. A nostra insaputa, ci mostrano come trasformare una semplice attività quotidiana in qualcosa di sorprendente — a patto di saperle integrare nei nostri modi di stare al mondo.

Note

1 Kandel, E. R., L'età dell'inconscio: Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai nostri giorni. Raffaello Cortina Editore, 2012, p. 421.
2 Proust, M., Dalla parte di Swann: Alla ricerca del tempo perduto 1, Feltrinelli Editore, 2023.
3 Alcune riflessioni sui dialoghi con Alfonso sono riportati nel libro: Iandoli, L., & Zollo, G., Elegant Design: A Designer’s Guide to Harnessing Aesthetics, Bloomsbury Publishing, 2022, pp. 14-15.