Alcuni antichi monumenti romani in marmo sono attualmente oggetto di una serie di studi volti ad accertare il loro reale stato di conservazione in rapporto all’allarmante situazione di degrado che essi presentano.

È fondamentale chiarire che a produrre gli effetti allarmanti che si osservano sugli edifici romani in marmo non possono essere indicati come cause determinanti questi o quei fattori, ma è doveroso e scientificamente corretto affermare che una somma di elementi, spesso anche lontani nel tempo, hanno influito sulla conservazione.

Tra le cause principali abbiamo l’inquinamento atmosferico capace di alterare la chimica della roccia e le vibrazioni indotte provocate dai mezzi a motore. Altre cause sono la costituzione del manufatto con materiali e pietre di vario tipo, l’azione profonda dei terremoti, l’attività svolta dai cercatori di materiale di riutilizzo durante i primi secoli del medioevo e fino al XV secolo, l’asportazione sistematica dei perni in metallo di collegamento dei vari conci in pietra, le fasi di abbandono, gli antichi interventi di restauro e l’ossidazione delle barre di ferro, le efflorescenze costituite da sali solubili in acqua che cristallizzano in superficie.

Se il problema del degrado superficiale delle antiche strutture è un fenomeno di per sé è preoccupante, esso diventa drammatico nel momento in cui le testimonianze più significative della storia dell’arte romana, rappresentate ad esempio dai rilievi delle Colonne coclidi o degli Archi trionfali, si sfaldano, perdendo progressivamente superfici di marmo lavorato. Per ritardare il degrado e la perdita dei preziosi rilievi dai primi decenni dell’Ottocento si sono avviati specifici restauri.

In questa nota analizzeremo gli interventi conservativi che in passato hanno interessato l’Arco di Tito, uno dei tre superstiti nella città di Roma, insieme a quelli di Settimio Severo e Costantino.

Arco di Tito, architettura e decorazione

L’arco trionfale che il Senato dedicò all’imperatore Tito nell’81 d.C., durante il principato di suo fratello Domiziano, costituisce l’attuale limite meridionale dell’area archeologica del Foro Romano. In realtà il monumento, edificato per commemorare le conquista di Gerusalemme avvenuta il 10 agosto del 70 d.C., era dedicato anche al padre Vespasiano, che aveva comandato le legioni in Giudea fino al 69, anno in cui aveva ceduto ufficialmente il comando al figlio maggiore Tito per assumere la porpora imperiale.

L’iscrizione sull’attico dell’arco, nel lato verso la valle dell’Anfiteatro Flavio, reca la dedica da parte del Senato all’imperatore Tito, menzionato come divus e quindi posteriormente alla sua morte e divinizzazione nell’anno 81. Ancora oggi è leggibile l’iscrizione originaria in lettere capitali un tempo in bronzo:

SENATVS
POPVLVSQVE ROMANVS
DIVO TITO DIVI VESPASIANI F(ILIO)
VESPASIANO AVGVSTO

[Il senato e il popolo romano al divo Tito Vespasiano Augusto, figlio del divo Vespasiano]

L'arco, in marmo pentelico, ha un'altezza di 15,40 m e la base di 13,50 m per 4,75 m, nel centro si apre un solo fornice inquadrato da quattro semicolonne composite scanalate. Della ricca originaria decorazione sopravvive un settore all’intradosso e parte del lato meridionale. Sulle chiavi di volta sono figure a tutto tondo della Dea Roma e del Genio del Popolo Romano, mentre nei triangoli, come consuetudine, sono le quattro Vittorie alate in piedi su altrettanti globi porgenti trofei e insegne verso l’interno.

Un piccolo fregio sull’architrave, conservato solo per un breve tratto sul lato verso l’Anfiteatro, mostra una scena di trionfo dove si evidenziano littori, cavalli e personaggi che conducono i forcula (sorta di portantine) con il bottino giudaico. La stessa scena è riportata in forme più monumentali nei due rilievi dell’intradosso, dove il particolarismo del rilievo manifesta completamente la corrente aulica della propaganda imperiale.

Il rilievo meridionale coglie il momento iniziale del corteo trionfale che si appresta a passare attraverso la Porta Trionfale, sull’estrema destra, sormontata da due quadrighe. I primi a passare sotto i portatori di forcula, recanti le bibliche trombe d’argento, che avrebbero causato il crollo delle mura di Gerico, la Mensa Salomonica ed il grande Candelabro d’oro a sette braccia. Ogni gruppo di personaggi è preceduta da una tabula ansata, un cartello sul quale erano scritti i nomi dei capi nemici vinti o didascalie che illustravano il bottino.

Sul lato settentrionale è raffigurata, invece, la parte centrale del corteo, tutta dominata dalla stupenda quadriga trionfale del generale, trainata dalla figura elmata della Dea Roma. Sul cocchio trova posto Tito togato, incoronato d’alloro da una Vittoria, mentre a piedi, accanto al carro, avanzano i Geni del Popolo e del Senato Romano.

Il fondo della scena è interrotto dai fasci dei littori che accompagnano il principe che, con la mano sinistra, reggeva quasi certamente il globo, mentre teneva la destra alzata secondo la tipologia dell’adventus. L’intradosso dell’arco è totalmente decorato da lacunari quadrati con al centro una rosetta, mentre nel cervello della volta è una metopa, inquadrata da un fascio d’alloro, con la figura di Tito ascendente in cielo sul dorso di un’aquila.

Manomissioni medievali e restauri nel XIX secolo

Come quasi tutti i monumenti antichi, anche l’Arco di Tito nel medioevo subì varie manomissioni tanto da essere inglobato nella fortezza della potente famiglia Frangipane, compromettendo gravemente i fianchi dell'arco. Nell’occasione vi si aggiunse addirittura una sopraelevazione, come può notarsi nel disegno realizzato da Giovanni Antonio Dosio nel 1570 circa, dove la parte sommitale dell’arco è sottoposta al peso delle fortificazioni in mattone.

Nel rilievo di Roma di Antonio Tempesta dal 1593 si scorge l’arco sostenuto su uno dei lati dalle mura del vicino convento di Santa Maria Nova. La posizione rialzata del monumento permise di non essere parzialmente interrato come accadde a molti altri monumenti limitrofi a causa dell’innalzamento del terreno, consentendo alla fabbrica di diventare l’ammirazione dei “romantici” nel XIX secolo.

Agli inizi dell’Ottocento dell’arco si conservava solamente il fornice centrale con le importanti decorazioni in rilievo, parzialmente danneggiate dai fori praticati per il fissaggio di un grande portone. Unico intervento parziale di consolidamento e rinforzo fu realizzato nel 1477 durante il pontificato di Sisto IV Della Rovere (1471-1484), ma solo con gli architetti Raffaele Stern (1774-1820) e Giuseppe Valadier (1762-1839), nel 1818, iniziò la vera e propria opera di restauro conclusa nel 1822, capace di ricostruire in travertino tutte le parti mancanti. Nell’occasione si pose una nuova dedica sull’attico, verso il Foro, a papa Pio VII Chiaramonti (1800-1823).

Nel 1817 il progetto di restauro fu affidato allo Stern, che morì nel 1820 prima della conclusione dei lavori e purtroppo non si sono rinvenuti suoi disegni né appunti. Dopo la morte di Stern il restauro fu affidato a Valadier. Il pesante arco divenuto ancora più pesante con la soprelevazione medievale in laterizio, spostava e lesionava i pilastri non più sostenuti da contrafforti applicati precedentemente. I conci si muovevano causando un movimento nelle modanature d’imposta di circa 6 centimetri mentre la chiave di volta non era più posizionata centralmente.

L’architetto romano numerò e smontò tutte le pietre fino all’imposta, intervenne sullo spostamento delle modanature ricollocando le pietre con l’ausilio di grappe di piombo e malte. Iniziando dalla base ricostruì la struttura in anastilosi, cioè con marmi originali, quando possibile, oppure in travertino, semplificando le decorazioni soprattutto nei capitelli, nelle colonne e nelle basi. Partendo dai resti del basamento originario per ricostruire con le esatte proporzioni e dimensioni i corpi laterali, riuscì ad ottenere una fedele restituzione dell'immagine antica.

Le colonne non scanalate e la resa sommaria di alcune decorazioni tennero lontano il restauro dal pericolo di risultare un'imitazione o un falso. La sostituzione delle porzioni mancanti con diverso e riconoscibile materiale (anastilosi) denota una grande sensibilità dell’architetto verso l’antico costituendo per il periodo una notevole modernità. L’intervento è capace, insieme ai restauri dei due speroni del Colosseo, di avviare il Restauro Archeologico, una concezione di restauro che nasce a Roma nei primi trenta anni dell’Ottocento che si fonda sopra il principio di ottenere la ricomposizione dell’opera mediante l’impiego di parti originali oppure la loro riproduzione.

Roma, centro indiscusso di studi archeologici anche dopo la morte di Johann Joachim Winckelmann (1786), pose naturalmente l’attenzione alle sue molte vestigia classiche. Pio VII fu il pontefice che per primo si impegnò a salvaguardare il patrimonio della città dando la possibilità di applicare nuove teorie agli architetti neoclassici. Per una tutela, anche amministrativa, ripristinò la carica, che per primo aveva ricoperto Raffaello Sanzio, di Ispettore generale della Belle Arti: il grande scultore Antonio Canova fu chiamato a ricoprirla.

La stessa preparazione culturale degli architetti restauratori dell’epoca, oltre il continuo apporto degli archeologi, favorì il buon esito di questi interventi e quello all’Arco di Tito è uno degli esempi più felici di restauro archeologico. Sia per la straordinaria bellezza che per questo motivo l’arco è stato disegnato e dipinto da moltissimi artisti, tra questi Viviano Codazzi, Gaspar va Wittel, Giovanni Paolo Pannini, Canaletto, Giovanni Volpato, Charles-Louis Clérisseau, Franz von Lenbach.

Nel 1900 l’archeologo e architetto Giacomo Boni intraprese uno scavo abbassando il livello del suolo sotto l'arco, ritrovando un piano lastricato stradale precedente la costruzione del monumento e mettendo in luce un tratto delle fondazioni in opus caementicium in scaglie di travertino e selce. Lo studioso veneziano compì inoltre esperimenti di pulitura delle incrostazioni, che in alcuni casi nascondevanoi fregi e le decorazioni, riuscendo a scoprire la patina antica del monumento senza alterarla.