Ogni giorno siamo di fronte a un bivio. In ogni istante della nostra esistenza si divaricano alternative binarie o molteplici: questo o quello, qui o lì, preferisci quella vista o l’altra o l’altra ancora o… E non sempre ciò che si srotola nel panorama alla nostra destra differisce totalmente dal panorama alla nostra sinistra, talvolta i paesaggi condividono alcuni elementi, alcuni dettagli, alcune luci, siano all’alba, siano a mezzogiorno, siano al tramonto quando i raggi del sole diventano più flebili e l’aria si impegna del profumo dei ricordi.

A ogni crocevia si squadernano di fronte a noi plurime opportunità. Lì per lì ci sembrano infinite, come i colori della tavolozza che può proporre tutte le sfumature immaginabili. In realtà, le possibilità infinite non sono: più passano gli anni e più i pattern appaiono tracciati. Più diventiamo adulti (tanto più anziani) e più fatichiamo a staccarci realmente da sentieri che già abbiamo percorso, dal comfort del confortante noto, da stilemi che diventano la cifra di uno stile consolidato, da parole ripetute, da modi di dire reiterati, da approcci che diventano in parte uguali a sé stessi. Anche il nostro io è impastato di ritorni, di ripetizioni e di riapparizioni, di rimpatri e di recuperi dal passato, per quanto l’acqua del fiume in cui ci immergiamo non sia mai la stessa.

Ciascuno di noi è un origami: la prima piegatura del foglio determinerà quali forme finali saranno realizzate. L’origami è un’arte che dipende dal percorso. Tu, io, tutti e tutte noi siamo soggetti che dipendiamo dal percorso, le nostre prime pieghe restano per sempre nella mente, nell’anima e nel corpo. Non ce ne liberiamo, siamo innervati del nostro passato, delle nostre parole già dette, delle pieghe sul foglio colorato della nostra vita.

La dipendenza di quando penzoliamo nell’aria

Pensiamo alla tastiera del PC o del telefono. Lo standard universale è detto “qwerty”, dall’ordine dei primi tasti sulla riga sotto i numeri. Ebbene questo standard non è in assoluto il più efficiente: si era sviluppato inizialmente per ovviare ad alcuni problemi tecnici dei vecchi modelli meccanici ma si è affermato nel tempo come standard universale nonostante l’esistenza di alternative superiori per efficienza (ad esempio la tastiera ‘Dvorak’).

Il motivo per cui il mercato ha raggiunto un equilibrio subottimale risiederebbe nel costo eccessivo del passaggio al nuovo standard. Quindi, abbracciamo una condizione non ottimale perché cambiare strada avrebbe un costo eccessivo. Dalla condizione iniziale siamo dipendenti. Gli inglesi parlano in questi casi di path dependency. Restiamo ingabbiati dentro la nostra storia. La parola dipendenza deriva dal verbo latino dependēre ‘penzolare’, ‘pendere da’, in senso figurato ‘dipendere’, da pendēre ‘essere appeso’ con il prefisso -. Pendēre voleva dire ‘penzolare’, ‘essere sospeso’, ‘essere affisso in pubblico’, ‘stare sospeso’, ‘librarsi nell'aria’.

Quando siamo dipendenti stiamo penzolando spostati dal vento, restiamo appesi a mezz’aria, percepiamo che qualcuno o qualcosa (non siamo noi) regge i fili della nostra identità, del nostro essere, del nostro divenire. Il verbo italiano péndere deriva appunto dal latino pendēre, con l’accento spostato – nella lingua di Cesare e Cicerone - sulla penultima sillaba. Quel verbo ha partorito molto nella lingua italiana: ha dato vita all’appendere e all’orologio a pendolo, al pendulo e al pensile della cucina, oltre che al propendere, quando diventiamo favorevoli a una soluzione anziché a un’altra. Il verbo latino pendĕre invece, con l’accento sulla prima e, come in italiano, voleva dire ‘tenere sospeso’, come si fa quando si regge una bilancia con due bracci, e quindi pesare. Da quel pesare, e quindi soppesare, abbiamo ottenuto in italiano il pensare e quindi l’azione di valutare, come quando osserviamo ciò che pesa di più e ciò che pesa di meno.

Il percorso con il carro della vita

Il tratto di cammino che abbiamo percorso fino ad oggi è la nostra storia, la nostra biografia, il nostro elemento identitario più forte. Per questo andiamo in crisi quando l’incertezza della vita ci propone strade che mai avevamo immaginato di esplorare. Il cambiamento fa paura, soprattutto se mette in discussione l’identità consolidata, il modo in cui noi guardiamo a noi stessi e il modo in cui pensiamo che gli altri ci osservino. Il percorso è certezza, è l’immagine delle strade romane con i solchi delle ruote dei carri che hanno scavato la roccia grazie a ripetuti passaggi.

Nella parola percorso si annida l’idea del tragitto compiuto, dal latino percŭrrĕre, ‘correre attraverso’, dal verbo della linga dell’antica Roma cŭrrĕre, che voleva dire ‘correre’, ‘avanzare velocemente’, ‘muovere un passo dopo l’altro affrettandosi’. Quel cŭrrĕre risale a una radice indoeuropea kṛs- ‘correre’ che si ritrova nell’antico alto tedesco hros che significa ‘cavallo’ (in tedesco Ross, in inglese horse) e nel gallico karros, passato nel latino carrus ‘carro’.

Le parole italiane percorso e carro sono quindi cugine, hanno antenati comuni. Quando ci percepiamo dipendenti dal percorso, origami segnati dalla primissima piega apposta sul foglio colorato della nostra esistenza, ebbene in quel momento siamo su un carro con le ruote che seguono i solchi profondi che si sono prodotti sul lastricato stradale. In quel momento è come se fossimo su un treno, che non può che procedere stando nelle rotaie. Con consapevolezza e analisi, possiamo però accarezzare l’idea che arriveremo a una stazione, che potremo scegliere la destinazione prossima ventura, che potremo tenere in mano un biglietto a nostra scelta che ci porterà o di qua o di là, o verso una meta o verso un’altra o un’altra ancora.

Gli strati delle strade

Sui selciati delle nostre esistenze procediamo a piedi o con i veicoli che vogliamo ci aiutino nello spostamento. L’andamento lo scegliamo ogni giorno, mutandolo in parte in base a volontà e possibilità: qualche volta acceleriamo perché desideriamo arrivare prima, qualche volta rallentiamo perché vogliamo gustarci il panorama o perché non abbiamo più fiato per correre.

In origine, la strada era propriamente la ‘via massicciata’. La parola strada deriva dal latino tardo strāta(m) (sottintendendo via, vĭa strāta, ‘via lastricata’), femminile sostantivato di stratus, participio passato di sternĕre ‘stendere’, ‘selciare’, ‘lastricare’ e propriamente ‘distendere’, ‘formare una superficie’.

Dal verbo sternĕre hanno preso origine in italiano sia la strada sia lo strato, parole sorelle la cui affinità dovremmo cercare di cogliere sempre più spesso. Lo strato, cioè la quantità di materia omogenea disposta in modo uniforme su una superficie, è propriamente ‘ciò che rimane disteso’. La strada è distesa, anche se qualche volta il suo percorso è in salita o è in discesa, come la vita impermanente desidera che sia.

Sosteneva lo scrittore Oscar Wild: “Un sognatore è colui che può trovare la sua strada al chiaro di luna e vedere l'alba prima del resto del mondo”. Ecco, il lastricato della strada possiamo cercarlo anche al chiaro di luna cercando di scorgere l’alba. La nostra alba.

Gli andamenti tortuosi dei sentieri

Abbandona le grandi strade, prendi i sentieri, ammoniva il filosofo e matematico greco Pitagora sei secoli prima di Cristo.

Prendi i sentieri, i viottoli, le piccole diramazioni che si distanziano dai passaggi trafficati ma che si addicono al tuo stato d’animo e al tuo momento. Il sentiero è il percorso tracciato dal passaggio. La parola deriva dall’antico francese sentier, che a sua volta ha origine nel latino semitārĭu(m) ovvero ‘che va per i viottoli’, ‘che procede come un viottolo’, derivato di sēmĭta ‘viottolo, vicolo’.

Il latino sēmĭta appartiene alla famiglia di meāre che voleva dire ‘passare’, ‘andare’, che si connette al lemma italiano meato che significa ‘canale’, ‘passaggio’, ‘apertura sufficiente a consentire un passaggio di un fluido’. Sēmĭta è anche connesso con il verbo migrāre ‘trasferirsi’, ‘mutarsi’ da cui in italiano migrare e migrazione.

Tramite i sentieri migriamo le nostre esistenze, da qui a lì. Diceva lo scrittore Tiziano Terzani: Ognuno deve cercare a modo suo, ognuno deve fare il proprio cammino, perché uno stesso posto può significare cose diverse a seconda di chi lo visita. Ogni sentiero è un diverso passaggio.

Che via faremo?

Maestro mio, diss’io, che via faremo?.

Così chiede Dante al suo più che padre Virgilio quando, dopo aver disceso gli inferi, si interroga sulla strada da percorrere per salire alla sommità di quello strano monte detto Purgatorio.

Risponde la guida con voce sicura:

Ed elli a me: Nessun tuo passo caggia;

pur su al monte dietro a me acquista,

fin che n’appaia alcuna scorta saggia

Virgilio gli risponde come anche altrove nella Commedia: non aver paura, seguimi, il tuo andare non arretri, nessun passo vada verso il basso, prosegui sempre in alto dietro a me, finché ci apparirà qualcuno che ci fornirà le indicazioni che stiamo cercando.

Ecco la domanda che ciascuno di noi si pone ogni giorno, carezzato o trafitto dai dubbi: “Che via faremo?”. Possiamo ipotizzare il futuro, possiamo esplorare alternative, possiamo essere esperti di metodologie di foresight ma nessuno ha la capacità di prevedere il domani. Restiamo dunque sulla via, un passo dopo l’altro, con lo sguardo rapito dalla meraviglia e dallo stupore.

Il sostantivo femminile via in italiano deriva dal latino vĭa(m) ed è una formazione di origine indoeuropea, comune a tutte le lingue che si estendono dall’Atlantico al Gange. Secondo l’etimologista Alberto Nocentini, il confronto del latino vĭa con l’antico umbro via e con l’osco (la lingua antica parlata nel Sannio, in Campania, Basilicata e Puglia) veia ‘carro’ permette di ricostruire una forma di partenza weghyā, derivata della radice del verbo vehĕre ‘trasportare’ (da cui in italiano veicolo) con il significato di ‘traccia del carro’. Una formazione simile si ha nelle lingue germaniche: in antico alto tedesco e in antico inglese weg ‘via’ ha dato in tedesco Weg e in inglese odierno way.

Diceva il monaco buddista vietnamita Thich Nhat Hanh, Non c’è via per la pace, la pace è la via. Dalla parola via è derivato anche il sostantivo italiano viaggio, il trasferimento da un luogo all’altro, che in origine era il viatĭcum (da cui l’italiano viatico), cioè la ‘provvista per il viaggio’ e solo più tardi il ‘viaggio’ in sé.

Gli schemi, i nostri pattern

Avere contezza della dipendenza dal percorso significa anche essere consapevoli che siamo legati alle nostre configurazioni, siamo annodati con esse, in qualche caso siamo bloccati dentro i nostri stessi pensieri (locked-into dicono gli inglesi).

Ogni piega dell’origami della vita risponde a un modello, a uno schema, a un’immagine che abbiamo di noi. Siamo incistati in un sistema consolidato di convinzioni, di comportamenti, di valori, di tratti culturali che ci accomuna ai soggetti che appartengono alla nostra stessa comunità, pur nella certezza che ciascuno degli elementi interdipendenti ha una propria soggettività peculiare.

Il sostantivo inglese pattern, in italiano usato al maschile, facendo riferimento al modello, deriva in realtà dal francese patron, nel significato proprio di ‘santo patrono’ e nel significato figurato di ‘modello di comportamento’, ‘modello a cui ispirarsi’ appunto, che deriva a sua volta dal latino patronus, ‘patrono’, ma anche ‘protettore’ e ‘difensore’ (da cui anche padrone), derivato di pater-patris ‘padre’.

I pattern che sono in noi ci appaiono quindi nella duplice veste: da un lato sono difensori, perché ci aiutano a non dover inventare il percorso in ogni istante del nostro transito terrestre, da un altro lato sono padroni, con il pugno sempre vibrante nell’aria, padri impositivi che non conoscono tutte le parole per comprendere la vita dei figli ma che vogliono piegare le loro esistenze con le sole plissettature a loro note. Questi i dolceamari pattern.