Definisco l’occidentalismo come una intossicazione culturale profonda, che affligge specificatamente le élite (e le popolazioni) dei paesi del cosiddetto ‘occidente collettivo’, o quanto meno quella parte di origine europea e anglo-sassone. Questa intossicazione ha origini remote, ed è parte del nostro imprinting culturale, ce la portiamo dentro anche inconsapevolmente, e spesso si manifesta in modi che possono persino apparire contraddittori con il nocciolo del pensiero ‘eurocentrico’. Anche se i popoli europei hanno storicamente praticato l’espansionismo militare - come del resto tutte le popolazioni del mondo antico - durante la fase pagano-imperiale questo era comunque ecumenico (diremmo oggi “inclusivo”), poiché accanto all’affermazione di un potere centrale non solo lasciava spazio ai preesistenti poteri locali, ma ne assorbiva tratti culturali, li faceva propri - a partire dal culto delle divinità. Ancora all’epoca delle crociate, seppure già cominciava a manifestarsi un discrimine culturalmente definito ed inconciliabile, eravamo comunque lontani da quell’occidentalismo di cui parliamo.
È con l’avvento dell’era mercantile e coloniale che questo comincia a prendere corpo. Nonostante nel mondo antico fosse pratica comune ridurre in schiavitù i vinti, ciò era comunque reciprocamente praticato ed accettato. Ma con la nascita del colonialismo, la creazione di una gerarchia ontologica tra popolazioni coloniali e popolazioni colonizzate diviene quasi una necessità, utile a giustificare la violenza della colonizzazione. Il fatto che i popoli europei avessero spesso una supremazia tecnologica (militare), non solo era un elemento che rendeva possibile la conquista della colonia, ma assumeva anche una valenza ideologica, venendo portato a riprova della superiorità europea. Nel corso dei secoli la costruzione di questo corpus ideologico si è via via arricchita di nuovi elementi e nuove connotazioni, sino ad arrivare alla forma attuale, che è sfortunatamente costituito da un mix di ignoranza e mascherato razzismo. Perfettamente rappresentato, peraltro, dalla ormai ben nota (quanto infelicissima) frase pronunciata da Josep Borrell, alto rappresentante dell'Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, secondo cui l’Europa sarebbe “un giardino circondato dalla giungla”.
Anche se l’intento dichiarato di Borrell voleva essere un invito - rivolto ai diplomatici ed ai politici europei - ad essere più aperti verso il resto del mondo, è proprio nella inconsapevolezza, persino nella contraddizione tra l’intento e la formulazione, che emerge interamente questo humus culturale profondo che intossica le élite europee. Che non è minimamente messo in discussione dal fatto che, ora diversamente che nel passato, si manifesti in una forma ‘progressista’, addirittura anti-coloniale. A parte ovviamente l’ipocrisia di adottare un linguaggio critico nei confronti del colonialismo, quando poi nella pratica è esattamente questo l’atteggiamento con cui i paesi europei ancora si approcciano al sud del mondo, è già nella pretesa di poter rappresentare l’anti-colonialismo che si manifesta l’eurocentrismo.
Un’idea di noi stessi, e quindi della relazione tra noi e gli altri, che è talmente stratificata nella nostra storia da permanere nonostante, e da tempo, l’Europa abbia smesso di essere una potenza egemonica. Ma, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, e quindi dal tramonto della ‘civiltà europea’, questa cultura suprematista - che nel frattempo è stata sussunta ed amplificata dal nuovo egemone, gli Stati Uniti d’America - l’abbiamo semplicemente traslata sull’occidente, coltivando così l’illusione che abbia ancora, se non altro, dei fondamenti ‘materiali’, espressi appunto nei rapporti di potere.
Ovviamente, questa mentalità neocoloniale si è sposata perfettamente con l’eccezionalismo americano (l’idea della missione civilizzatrice ed ordinatrice di cui sarebbero investiti gli Stati Uniti), così come - più ampiamente - trova ancora eco nelle popolazioni anglo-sassoni, in cui il ricordo dell’impero britannico fatica ad essere abbandonato. Ma in tempi più recenti ha assunto una caratteristica ancor più perniciosa, fornendo un supporto ideologico e culturale alla pulsione egemonica degli USA - di cui l’occidente è l’ologramma. Ha infatti preso piede, in particolare tra le popolazioni europee, una versione ‘progressista’ di tale mentalità, e che è fondamentalmente quella espressa da Borrell. L’idea non è più che siano gli europei (gli occidentali) ad essere superiori ontologicamente, ma che i loro sistemi - politici, economici, culturali - siano non solo i migliori, ma abbiano una valenza universalistica. Cioè che l’attuale connotazione delle società occidentali, che è il prodotto storico e culturale di ‘questi’ paesi e di ‘queste’ popolazioni, rappresenti non solo il meglio per noi ma per chiunque nel mondo, indipendentemente dalle diversità storiche e culturali.
Partendo da questo presupposto egocentrico - ed in fondo narcisistico - i passi successivi sono quasi automatici. Se noi siamo i migliori, siamo quindi anche i buoni, e gli altri sono come minimo in attesa di diventare come noi, ma in certi casi sono semplicemente ‘cattivi’, perché invece non vogliono diventare come noi. Ed è precisamente su questo sottofondo culturale che poi poggia comodamente la propaganda suprematista di cui si nutre l’egemonismo statunitense. Se un certo modo di organizzare la struttura politica (il nostro), un certo modo di organizzare l’economia (il nostro), un certo modo di strutturare i rapporti sociali (il nostro) sono per definizione quelli universalmente buoni, tutto ciò che è difforme non è semplicemente diverso, ma negativo, e merita di essere ‘corretto’. Quindi quando ci dicono che “dobbiamo difendere le democrazie dalla minaccia delle autocrazie”, non stiamo poi tanto a riflettere se l’assunto sia vero o meno, e comunque quali ne siano le radici storiche e culturali. L’assonanza del messaggio con alcune delle nostre corde culturali profonde, è così forte che difficilmente riusciamo ad avere uno sguardo realmente e completamente critico.
Paradossalmente, quindi, il ‘progressismo’ si è trasformato da approccio di apertura in strumento di chiusura, di esclusione. In ultima analisi, persino di violenza. L’idea delle ‘guerre umanitarie’ non è infatti figlia dell’ideologia progressista? In questa fase storica, che è sempre più caratterizzata dal sorgere di una visione multipolarista, senza più poteri (e culture) universalmente egemoni, diventa estremamente necessario che i popoli e le élite occidentali si disintossichino dalle scorie culturali di un passato remoto che, indipendentemente da come lo si giudichi, è comunque sepolto per sempre. Inutile sottolineare che non si tratta di abbracciare, all’opposto, un relativismo estremo, ma semplicemente di riconoscere che le diversità culturali non implicano una gerarchia. Mele e pere sono diverse, e c’è chi preferirà le une e chi le altre, ma nessuno può pensare di imporre il proprio gusto erga omnes. Altrimenti tutto sarà sempre segnato da una eterna corsa ad acquisire sufficiente forza per imporre all’altro il proprio modello. Riconosciamoci reciprocamente il diritto di vivere ciascuno come crede.