Un film italiano che prima sbanca al botteghino e poi plana su ben due piattaforme in simultanea. Aggiungiamoci 19 candidature ai David di Donatello, record per l’Oscar nostrano, di cui 6 diventate premi.
Più che film, fenomeno sociopsicologico, plebiscito di consensi, modello di riferimento. Forse no, ma temo di sì. La domanda è semplice, ce la saremmo posta in ogni caso. Perché ha saputo riunire tante anime diverse e in che cosa si sono riconosciute?
Non vale la pena di risalire alla trama, perché non ce n’è una. Siamo di fronte a un set casereccio, di romanità sguaiata, quasi un metalinguaggio che da subito prova a farti sentire ignorante in materia. Peccato che quelle frasi rozze, sboccate, sanno di imparaticcio e che nessun romano abbia mai parlato in quel modo. Come se le perifrasi del sentito dire siano opera di un presunto esperto, smanioso di riempire le nuvolette di un dialogo a fumetti. E la voglia di impastare la vicenda in chiave di fumetto è sempre latente, a volte perfino esplicita, quando trasfigura le botte della corrida domestica in un balletto tra la vittima e il suo carnefice. Ma si ferma lì, per il resto fa sul serio e gli ingredienti per farcire il racconto non mancano. La genetica del maschio italiano, innanzitutto. Violento fin dalle origini.
Il vecchio padre ammalato che invita al capezzale del letto suo figlio, un bruto inossidabile che si fa portare la colonia dalla moglie quando la sera decide di andare a femmine. In un dialogo da veri uomini il padre lo sollecita a picchiarla con più decisione, in modo che si ricordi bene la lezione, ma solo ogni tanto, non di continuo, perché gli fa pena sentirla piangere. Un passaggio di consegne e di saggezza che non tradisce mai l’ombra di un dubbio, un frammento di distrazione umana.
Non per creare alibi al mondo dei violenti, ce ne sono perfino di peggiori, non è questo il punto, tutt’altro. Ma sono plausibili uomini del genere, o sono fumetti anche questi? E soprattutto, era necessario scolpire un simile modello, accantonando ogni possibile sfumatura, per accaparrarsi fin dal primo fotogramma il consenso di chi quella violenza la teme, la subisce, l’ha subita, anche in modo strisciante, o l’ha anche solo letta sui giornali, ascoltata nei notiziari e immaginata su di sé? Viene il sospetto che sia una semplificazione spacciata per semplicità.
E passiamo al più giovane dei maschi, il fidanzatino dalla faccia pulita che all’improvviso inizia a comportarsi come gli altri adulti e minaccia con dei brutti gesti la ragazza che dice di amare, se non sarà di sua esclusiva proprietà. Insomma, il compendio, il bignami della violenza di genere aggiornato ai tristi fatti di cronaca che ci fanno inorridire quasi ogni giorno.
Ci sono rimasti i due monelli, i figli maschi della derelitta, che già promettono bene. Fanno sempre a botte e si esprimono con parolacce che a tavola, a quei tempi, nessun ragazzino si sarebbe azzardato a pronunciare, pena uno sganassone che lo avrebbe paralizzato per una settimana. O siamo capitati in una famiglia alternativa di Testaccio? Qui c’è una confusione temporale, mi sbaglio?
Dunque, vediamo, un uomo ci sarebbe, voglio dire un uomo, non un cinghiale inferocito.
E chi sarebbe?
Il meccanico dalla faccia buona, il principe che per destino, o distrazione non si è incontrato in tempo, l’uomo ideale che si è perduto, certamente diverso e con il quale la vita sarebbe una passeggiata salutare. L’idealizzato eroe sempre mancante, l’assenza per definizione, l’ennesimo distillato della fantasia, in questo caso femminile. Non una colpa, ma il presupposto dell’equivoco in cui si può agonizzare per un’intera esistenza.
E allora, cosa rimane?
Un alleato.
Chi?
Uno che proviene anche lui dalla schiavitù.
Cioè?
Un soldato americano nero di pelle.
Come dargli le istruzioni necessarie, visto che lei non parla una parola d’inglese?
Vogliamo proprio andare per il sottile?
E andiamo, è un film, o no!?
E dove sarebbero le striature della realtà immaginaria, quelle che rendono un racconto meritevole, i dettagli, le varianti, la complessità dei personaggi?
Se ne può fare a meno!
Va bene, non è un trattato sulla discriminazione femminile, me lo assicurate?
No. Stai tranquillo.
Quindi, come se ne esce da questa galera di insensibilità e di ritorsioni violente?
Semplice, con la coscienza del voto. Ahi! Ahi! E se poi al potere, anche col voto femminile, vengono mandati cavalieri puttanieri e amazzoni della mai sopita nostalgia dittatoriale? Qualcosa cambierà davvero?
Magari domani, forse dopodomani, ma intanto si può votare.
Mi accontento, che altro posso fare? Visto l’esito della storia, congegnato ad arte con l’ausilio di una lettera misteriosa, continuo a chiedermi qual è la chimica che ha miscelato questo successo di cui, in ogni caso, sono ben lieto visto che alimenta un interesse per il cinema italiano. Mi butto a indovinare.
Non sarà che questa figurina di Magnani Anna discepola, col suo vestito striminzito e l’immancabile parannanza sia l’effige in cui le donne si vogliono riconoscere, e dico si vogliono non per cattiveria, ma per il gioco delle tre carte nel quale sono state irretite. È questa la risposta che viene offerta per dispensarle dall’essere davvero se stesse; dal tentativo di rivendicare seriamente almeno una sfera, quella intima e più profonda della loro condizione, dal venire allo scoperto con una dose di coscienza che vada oltre il gesto democristiano di andare al voto?
Vuoi vedere che questo quadretto schematico, appunto, in bianco e nero, finisce per rinsaldare una convinzione: di essere vittime e basta, di non avere armi adeguate in mano; che insomma manifestare il proprio disagio basta e avanza per tirare avanti. Poteva capitare un’occasione migliore per sentirsi unite e tuttavia impotenti?
L’ ammirazione per la donna e per il suo immenso potenziale non può dare credito a una sua versione al ribasso, proprio per l’esito che ha avuto e continua ad avere. Mi auguro, insensatamente, che dopo l’abbaglio accada qualcosa di più energico e intelligente, e non solo nel nostro cinema, a produrre un cambiamento che meriti questa definizione.