Traiano fu imperatore di Roma dal 98 al 117 d.C. Nacque in Spagna, non lontano dall’odierna Siviglia. La sua famiglia, di origine umbra, si era trasferita qualche generazione prima e fu il padre a emergere socialmente ottenendo le cariche di console, senatore e governatore delle province di Siria e Asia. Il fatto che Traiano divenne imperatore, lui che era nato e proveniva dalla provincia, non solo riconosceva il ruolo sempre più importante giocato dalle province ma anche che l’impero, giunto con lui all’apice della sua grandezza, si stava trasformando in un vero e proprio stato multinazionale. Esso era un’organizzazione che presentava una vasta e articolata amministrazione, un esercito efficiente che doveva difendere più di 10.000 chilometri di confini terrestri, traffici commerciali via mare e via terra per far viaggiare in sicurezza merci, grano, oggetti di lusso, schiavi, materiali da costruzione etc. oltre a tutto ciò di cui necessitava una grandiosa macchina amministrativa e burocratica per funzionare a dovere.

L’impero sotto Traiano includeva un territorio che si estendeva dalle fredde regioni del Nord dell’Inghilterra a quelle calde del Nord Africa, dall’odierno Portogallo fino alle pianure della Mesopotamia. Era un impero che aveva raggiunto al suo interno un notevole livello di integrazione sociale, economica e culturale. L’esistenza di un estesissimo sistema viario e la trasformazione del Mediterraneo in un grande “lago” romano avevano favorito la trasformazione dei domini romani in un enorme mercato globale dove gli scambi erano favoriti anche dalla diffusione del diritto importato dall’Urbe e da un sistema monetario valido e accettato ovunque. A questa integrazione economica era seguita lentamente anche quella politica e sociale grazie al progressivo inserimento dei provinciali nei ruoli chiave dell’impero e uno dei primi a beneficiare di questo clima fu proprio Traiano.

Adottato e scelto come imperatore, seppe governare con saggezza e costanza per tutti i diciannove anni del suo regno. Per essere costantemente aggiornato diede vita a uno speciale corpo di informatori che potessero avvertirlo in tempo sul formarsi di possibili gruppi di opposizione o sulle idee politiche circolanti nell’impero. La sua epoca, nella quale si raggiunse l’apice della potenza romana, fu avvertita anche dai contemporanei come un’età straordinaria e il suo modo di governare, attento ed equilibrato, gli valse l’appellativo, già da vivo, di optimus princeps. Per cercare di risolvere il problema della povertà infantile decretò un sistema di sussidi economici e assicurò sempre la distribuzione gratuita di grano ai meno abbienti. Le tasse provinciali vennero alleggerite e si lasciò autonomia amministrativa alle tante città dell’impero. Nell’ambito dei lavori pubblici, edificò un altro acquedotto, il decimo e penultimo della storia antica di Roma, l’Aqua Traiana, per una lunghezza di 57 chilometri circa. Esso captava l’acqua da sorgenti presso i monti Sabatini, non lontano dal lago di Bracciano, ed entrava in città dal colle del Gianicolo. Oltre a tutto ciò va anche menzionato ovviamente il suo Foro, realizzato dal genio costruttivo di Apollodoro di Damasco e la cui area è ancora in parte visibile a Roma.

Traiano, agli inizi del II secolo d.C., edificò anche i cosiddetti Mercati Traianei alle pendici del Quirinale, il cui emiciclo ancora oggi stupisce per le dimensioni. Essi vennero intelligentemente articolati a terrazze in modo da “sostenere” le pendici del Quirinale, che proprio a partire da quel punto venne tagliato per eliminare la sella che lo univa al Campidoglio. Al livello del foro si aprivano undici tabernae che fronteggiavano la strada, mentre altri esercizi commerciali erano presenti nel livello superiore, dove si può ancora camminare presso la cosiddetta via Biberatica. Il nome (di origine medievale) di questa via deriva dalla parola tardolatina bibere, “bere”, e forse si riferiva alla presenza su questa strada del corrispettivo dei nostri bar, locali dove si poteva mangiare e bere per pochi soldi (i thermopolia). All’altezza di via Quattro Novembre si apre un’ampia sala con un’ardita copertura a crociera (una delle migliori realizzazioni dell’architettura voltata romana) che presenta nella parte superiore delle aperture simili a un matroneo. Da questa struttura si dipartono molti altri ambienti la cui funzione non è ancora chiarissima. Sembra comunque che tutto il complesso – uno dei più felici esempi di architettura utilitaria romana – fosse utilizzato come magazzino di derrate alimentari gestito dallo Stato e per la vendita al dettaglio.

Le campagne daciche, intraprese da questo instancabile imperatore per conquistare un territorio oggi grosso modo corrispondente alla Romania, portarono ulteriore ricchezza a Roma e buona parte del bottino venne usata per la costruzione dello straordinario foro. Quando oggi si visita Roma antica si guardano le rovine, le ricostruzioni di questi ambienti pubblici che dovevano essere bellissimi, i templi maestosi, le terme e le basiliche, i pavimenti originali che qui e là ancora si vedono ma questo è solo un lato della città. Tanti secoli fa, infatti, Roma non era solo questo: era anche una città dai profondi contrasti.

Durante l’epoca di Traiano, l’Urbe aveva certamente raggiunto un milione di abitanti ed era la città più grande del mondo. Oggi questa cifra potrebbe non sorprendere perché ormai moltissime città sparse in numerosi paesi hanno una popolazione di gran lunga superiore, ma tanti secoli fa il mondo era abitato da una piccola frazione della popolazione attuale e una città di un milione di abitanti era una metropoli enorme. Facendo un confronto con altre città della penisola italiana: Capua, oggi Santa Maria Capua Vetere in Campania, era il secondo centro più popoloso con settantamila abitanti, Mediolanum, l’attuale Milano, arrivava a cinquantamila, mentre Pompei non toccava neanche i ventimila ed era quindi almeno cinquanta volte meno popolosa di Roma. La seconda città che nella storia del continente europeo raggiunse il milione di abitanti fu Londra durante il periodo della Rivoluzione industriale, ovvero circa diciassette secoli dopo l’epoca di Traiano, mentre Roma stessa toccò nuovamente il milione di abitanti solo nel XX secolo: praticamente ieri. Solo questi dati dovrebbero far capire che a quel tempo la capitale dell’impero era una vera e propria megalopoli abitata non solo da Romani “di Roma”, come si direbbe oggi, ma anche da genti provenienti da ogni parte dell’impero.

Il cosmopolitismo era una delle caratteristiche fondamentali di questa metropoli che sulle differenze etniche e culturali aveva costruito la sua grandezza. In tempi antichi infatti il razzismo come purtroppo lo conosciamo noi non esisteva. Le persone non si giudicavano dal colore della pelle, tutti erano uguali da questo punto di vista: una grande lezione di civiltà che ancora oggi non abbiamo pienamente compreso. Altri erano gli elementi che differenziavano le persone le une dalle altre come il censo, la cittadinanza romana o la schiavitù. Questa moltitudine gigantesca di persone viveva per lo più ammassata nelle insulae, i grandi condomini dell’epoca sparsi un po’ ovunque per la città e che, per il fatto di essersi sviluppati in verticale, davano al visitatore la stessa sensazione che prova oggi chi, non avendo mai visto un grattacielo, si rechi a New York per la prima volta. Roma soffriva di un affollamento spaventoso, paragonabile a quello di alcune megalopoli asiatiche odierne.

Questo affollamento non era solo dovuto agli spostamenti di coloro che andavano a lavorare o si recavano a fare commissioni ma anche e soprattutto al fatto che le insulae venivano praticamente usate solo come dormitori. Non disponendo di servizi igienici adeguati o di cucine, la stragrande maggioranza degli abitanti era obbligata a uscire di casa per usufruire dei bagni pubblici, per lavarsi o per mangiare in una delle tante tavole calde a buon mercato. Si può dire che una buona parte di chi abitava a Roma usasse la città come la sua stessa casa dal momento che trascorreva la maggioranza del tempo fuori. Le strade al di fuori del centro erano piccole, strette, tortuose, talvolta in salita, strozzate da edifici situati molto spesso vicinissimi gli uni agli altri e soprattutto… erano sporche – nonostante la situazione non fosse propriamente drammatica, in quanto un minimo di servizio di smaltimento rifiuti esisteva (anche se non sappiamo dove fosse portata l’immondizia né come fosse smaltita) era compito degli edili tenere le strade pulite, cosa che, a quanto ne sappiamo, non sempre veniva portata a termine brillantemente.

Una buona parte dell’immondizia quotidiana veniva smaltita in modo casuale e non era raro vedere animali randagi come cani o uccelli impadronirsi dei rifiuti organici sparsi per vicoli e vie. Come se non bastasse, molto spesso, anche se era vietato, il contenuto di vasi o secchi (che a volte poteva includere anche escrementi) veniva gettato via dalle finestre dei piani superiori delle insulae e certo questo non contribuiva a rendere le strade più pulite! Non solo: gli odori in quelle strade strette e in molti casi piene di rifiuti organici non dovevano essere esattamente piacevoli. A proposito di fetori, a peggiorare la situazione in alcune zone di Roma era anche la presenza di quelle che erano chiamate tabernae casiariae, ovvero luoghi dove si produceva il formaggio affumicato. Erano le caciare, a Roma notoriamente famose per il lezzo emanato dai formaggi, che frequentemente scatenava liti e le proteste di chi viveva nei piani soprastanti o nelle immediate vicinanze. Con il tempo, nel dialetto romanesco, il termine caciara divenne sinonimo di confusione, baccano, un’allusione a quelle antiche proteste – ancora oggi questa parola viene usata a Roma prevalentemente con la stessa accezione.

Le scarse condizioni igieniche facilitavano il diffondersi di epidemie che spesso affliggevano i quartieri popolari. Quando ciò accadeva, i ricchi potevano dileguarsi e trovare rifugio nelle loro ville in campagna, mentre ai poveri non restava che provare a sopravvivere. Passeggiando per Roma non sarebbe stato neanche troppo raro inciampare in carcasse di animali morti o, a volte, in… cadaveri! Spesso accadeva che di notte un povero malcapitato finisse vittima di un tentativo di rapina o più spesso si trovasse coinvolto in risse fra ubriachi rimettendoci la pelle. Girare a Roma di notte infatti non era affatto sicuro: la città era buia e la presenza di ladri, malfattori o soggetti poco raccomandabili non invogliava ad andare in giro. Ne consegue che Roma non era una città romantica secondo i nostri parametri attuali, ossia un centro abitato che grazie alla bellezza dei suoi luoghi poteva contribuire a rendere magica l’atmosfera di un incontro o un appuntamento galante.

Non solo la sera era altamente sconsigliato uscire (tanto che Giovenale lo considerava da pazzi se prima non si era fatto testamento!) ma non esistevano nemmeno i ristoranti come li concepiamo noi, ovvero locali con ambienti e sale raffinate, personale qualificato, camerieri ben vestiti, belle apparecchiature, lista dei vini ecc. Nell’antica Roma non avremmo mai neanche sentito pronunciare a una coppia la frase: «Vogliamo andare a cena fuori stasera?». Mancava completamente l’usanza di andare a mangiare fuori, anche perché le osterie e le taverne antiche di sera erano frequentate quasi esclusivamente da uomini, e le poche donne che c’erano, nella maggioranza dei casi, o erano prostitute o erano cameriere/ostesse a cui spesso si poteva chiedere una prestazione sessuale. Le pochissime luci accese di notte provenivano generalmente dai lupanari, dove le prostitute – che potevano praticare in modo legale ed erano regolarmente tassate così come accade in alcuni paesi del Nord Europa oggi – esercitavano il loro mestiere.

Di giorno, una delle cose che ci avrebbe colpito di Roma, oltre all’assenza dei nomi delle strade (tranne alcune) e dei numeri civici, sarebbe stata la gran quantità di botteghe. Il numero dei macella, ossia dei mercati veri e propri, non era molto alto e questo si spiega con il fatto che generalmente vi si vendevano solo generi alimentari costosi e di lusso, come la carne e il pesce. Per tutto il resto dei cibi, la distribuzione era garantita dalla capillare diffusione delle botteghe. Stando a quanto possiamo ricostruire, esse erano talmente tante e le strade talmente affollate, che l’Urbe poteva sembrare un suk mediorientale: caotica, colorata, vociante, palpitante e disordinata. Le botteghe erano ambienti molto semplici dove l’essenzialità dell’arredamento si univa alla ristrettezza degli ambienti. In tutte le botteghe erano presenti armadi e banchi che avevano rispettivamente la funzione di stipare la merce e di sostenerla al momento della vendita.

Molto comuni erano anche panche o sedili, che avevano la doppia funzione di permettere ai clienti di fare acquisti con comodo e dare al venditore la possibilità di sedersi durante i momenti di tranquillità della giornata. Le insegne erano in molti casi dipinte direttamente all’esterno e rappresentavano quello che veniva commerciato; a volte la merce era raffigurata su placche di argilla. Eccezion fatta per la presenza di nicchie, tavolini, mensole e cuscini, l’arredamento delle botteghe romane non includeva altro, a meno che non si trattasse di negozi situati in zone centrali che vendevano prodotti di lusso. In quest’ultimo caso avremmo trovato decorazioni pittoriche o scultoree, tende, forzieri o tappeti. Roma in quell’epoca era il più grande emporio del Mediterraneo e vi si poteva trovare di tutto, dai cibi più esotici e raffinati, ai libri, alle spezie che avevano viaggiato per migliaia di chilometri, agli schiavi. La sua storia, i suoi colori, la sua potenza, la sua fama, il suo impero e i suoi monumenti le avevano certamente valso il soprannome di caput mundi.