La mia famiglia è composta da tre persone: io, che sono italiano, mia moglie cinese, di Pechino e il nostro figlio adottivo che è indiano. Io e mia moglie ci siamo sposati oltre i quaranta anni e il ragazzino è stato adottato l’anno prima del Covid, ed era già grandicello, circa 8 anni. Tra persone che si sono ritrovate insieme con una personalità già formata e che per l’ironia della sorte si sono ritrovati sotto lo stesso tetto. Tre nazionalità diverse, dicevo, tre etnie diverse, tre culture diverse alla ricerca di un amalgama nella antica città di Roma, ormai nell’ennesima fase di decadenza da cui si risolleverà chissà quando.
Non è difficile tra le mura domestiche afferrare questa armoniosa diversità: basta entrare in casa e indirizzare le orecchie verso la musica che sentiamo: musica pop indiana, il ragazzino, musica pop cinese, mia moglie e, il più strano di tutti, io che sento musica funky o disco degli anni ’70-’80.
Anche a colazione si può notare la diversità culturale, che si accentua per il pranzo o la cena, quando, non di rado si possono vedere portate di tre cucine diverse: pasta al ragù, biryani di pollo, e riso fritto saltato. L’unico armistizio culinario avviene la domenica, quando cucino spaghetti alle vongole o con cozze (specialità della mia città di origine, Taranto), molto gradita al “cozzaro indiano”, come anche quelle volte a cena che prendiamo delle pizze, usualmente delle margherite, e che, fortunatamente, mettono d’accordo tutti.
Involontariamente, si tratta di un esperimento sociale controcorrente, in un periodo nel quale si attuano politiche sovraniste e scelte sociali velatamente bioconformiste che ha i suoi pro e i suoi contro: specialmente i primi mesi sia con mia moglie con il bambino appena arrivato c’era una notevole difficoltà di comprensione reciproca dovuta alla incapacità di parlare un idioma comune. Anche parlare in inglese, come facevamo all’inizio con mia moglie portava a incomprensioni.
Con l’avanzare dell’età le incomprensioni non sono diminuite a causa della emergenza di diversità culturali che prima erano sopite e rimpiazzate da una buona dose reciproca di epoché ("ἐποχή"). L’arrivo del ragazzino, per il quale l’epoché sola non bastava, dato che bisognava impartirgli un minimo di educazione formale per l’adattamento alla società italiana, che proprio inclusiva non è (tranne nelle fasi iniziali della vita), ha aumentato la complessità degli scambi linguistici e culturali: le linguacce non sono ammesse perchè appartengono alle sole dee irate come la dea Kali, la cui lingua di fuori rappresenta un aspetto distruttivo del divino. Cosa distrugge la dea Kali? La dea rimuove, l’avidya (ignoranza) che causa in noi esseri umani la paura della morte.
Kali, dal sanscrito kala, significa sia "morte" che "tempo", a volerci dire che tutto, nel mondo fenomenico, è delimitato dal tempo (che rassomiglia ai cicli cosmici di Empedocle). La feroce Kali suggerisce che la morte è una trasformazione e che come tale è essenziale per il rinnovo dell'energia (in modo non troppo dissimile dalle concezioni daoiste quando dal wuji si viene a creare il dao) e per la crescita spirituale. Dunque Kali con la sua forza "arrabbiata" rimuove gli ostacoli (come la paura e l'attaccamento) che non ci permettono di aprire e guarire il cuore. Kali in fondo ci dice che la rabbia (potremmo dire con Eraclito, il polemos), ben incanalata, è un fantastico strumento di crescita; è solo attraverso la potenza della rabbia che possiamo scrollarci di dosso qualsiasi peso che curva la nostra spina dorsale e ci impedisce di camminare con leggerezza.
Esistono, quindi, dei concetti sociali che toccati con mano nel proprio vissuto, pur provenienti da un mondo che non esiste più, ancora fanno da ponte tra le diverse culture euro-asiatiche che appaiono così lontane ma in realtà sono così vicine come se vivessero, come nel mio caso, sotto lo stesso tetto e che aspettano solo di essere colte. Dobbiamo quindi non soffermarci sull’aspetto esteriore delle relazioni ma cercare l’aspetto più profondo che ci fa capire la comunanza, l’amore, l’amicizia che, in tempi cupi e dominati da un narcisismo ostentato pubblicamente, come questi che stiamo vivendo, possono emergere nelle relazioni umane più personali e discrete.