Una mattina Angelica si ricordò quanto fosse spaventosa la Palude delle Betulle. Vi era capitata una volta con suo nonno, in pieno inverno. Aveva osservato delle pozze d’acqua ribollente di zolfo, un terreno morbido e infido in cui gli scarponi affondavano come dentro a sabbie mobili, l’odore acre dello zolfo che risaliva dalle zone umide e il canto sinistro di qualche rara specie d’uccello notturno. Non si sa per quale motivo c’era andata proprio sul far della notte, quando il profilo elegante e freddo di quegli alberi biancastri era intensificato e reso quasi spaventoso dalla sorgente luce argentea della luna. Da quelle piante che spuntavano spontanee in vari punti della Palude aveva percepito uno sguardo, come un occhio puntato sulla sua paura. Non aveva affatto riflettuto sul senso di quello sgomento. La comparsa di un gatto nero che scivolava di soppiatto dalla pianta più alta, le aveva causato addirittura un trasalimento.
Suo nonno invece era sembrato imperturbabile a qualsiasi fattore esterno. Accesa la pipa, si era seduto su un grosso tronco appena sradicato dalla tormenta. Angelica si era avvicinata guardinga, si era messa a cavalcioni sulla corteccia lattea dell’albero caduto ancora bagnata dalla linfa. Ne aveva percepito il flusso ancora vivo che le aveva scosso un tremore lungo il corpo, una sorta di carica d’energia di rinnovamento. Il nonno aveva scartato un tozzo di pane e un pezzo di formaggio e avevano mangiato mentre il disco della luna era sempre più bianco sopra di loro. Poi il nonno si era alzato, aveva preso in mano la bisaccia e l’aveva guidata su un sentiero. Erano giunti, quindi, dentro alla casetta di legno nel bosco di Cerri lì accanto, avevano acceso il focolare e preparato un pagliericcio per riposare. Il vento della notte aveva ululato il lamento dei lupi e le strida delle streghe, aveva scosso le tegole rosse del tetto e accarezzato le imposte con crescente vigore. Il suono degli alberi e delle foglie spostati dalla tempesta avevano accompagnato il discorso notturno del vento fino alle prime ore del mattino.
Angelica si era ricordata tutto questo qualche anno dopo quando sua madre le aveva mostrato un’imponente pianta di Betulla in mezzo a un parco. Chiamarlo albero sembra quasi un affronto, la Betulla è leggiadra come una vergine fanciulla che in un giorno di festa insegue il suo aquilone. Al minimo sospiro del vento le piccole mani delicate salutano tremolanti e timide ogni viandante, ed egli non mancherà di togliersi il cappello per rispetto a tanta grazia. La Betulla è un essere vivente del bosco, è l’ideale di donna, ma in quanto tale non avrà mai marito. A dispetto della gentilezza è capace di sopportare le tempeste più violente, le sue esili braccia accompagneranno a terra persino i più pesanti cumuli di neve con un gesto d’elegante delicatezza. Vergine quindi, e non femmina da marito, vano è il tentativo di chi si soffermerà a intrecciare con rami d’amore questa creatura, egli li troverà presto liberati da ogni costrizione, da qualsiasi legame che non sia platonico e impossibile amore. Forse il segreto di tanta ostentata verginità è nella pelle, una pelle bianca, liscia e sottile come il velo candido di una sposa. Eppure è velo che non lascia penetrare nulla, neanche gli affetti, la qual cosa rende la Betulla unica Regina senza eredi del suo regno immenso.
Essere Regina del bosco è certo un onore, ma il destino d’ogni Regina è quello di non poter mai gioire delle mortali emozioni. L’abito candido, la pelle vellutata, i riccioli che ondeggiano al minimo alito di vento, la gentilezza nei modi e nelle forme, sono segni distintivi di una vera Regina. Ma la beltà è sinonimo di giovinezza, ecco spiegato il motivo per cui non è mai esistita una Regina brutta e vecchia. La Betulla non avrà tempo di invecchiare, qualche precoce ruga alla base del fusto è il segno che l’era della primadonna è scaduto. Durante la bella stagione avrà avuto tutto il tempo per vedere cavalieri e re inginocchiarsi per chiederle la mano, ma è troppo ligia al dovere per un ruolo che non le permette di concedersi a nessuno. Quando però inizia a sentire il peso della solitudine, vorrebbe specchiarsi in quella pozza d’acqua che ogni autunno si forma ai suoi piedi, ma il coraggio le manca, è ancora splendida e non accetterebbe d’invecchiare, forse avrà ancora la forza di sopravvivere un altro inverno senza luce così nessuno potrà vederla nuda e spoglia.
Il destino di una Regina è anche quello di conquistare un regno e morire per il proprio regno. Per prima si dichiarerà unica Regina di ogni nuova terra scoperta, non avrà ancora sudditi e spasimanti ma arriveranno in massa ad ogni nuova stagione. Mentre sua madre le mostrava questo splendido albero, Angelica si ricordò della Palude delle Betulle e chiese d’esserci accompagnata. Era primavera e ci andò verso l’ora del tramonto. S’inoltrò da sola verso la Palude, un mantello leggero sulle spalle per ripararsi dal venticello primaverile. La Palude le apparve splendida con tutte quelle eleganti piante dalla chioma di foglioline verde chiaro. Il biancore della corteccia divenne luce e invase la Palude d’una specie di brillante sorriso. Sui sottili tronchi e sugli eleganti rami delle Betulle comparvero innumerevoli occhi che scrutavano benevoli la figura di Angelica. La Betulla più alta s’inchinò verso la bambina e le porse la mano carezzandola con la morbida chioma. Tutte le piante iniziarono una danza ondulata scuotendo al vento la folta capigliatura. Era un ballo di Regine solitarie, un richiamo alla vita dei loro più celati desideri. Angelica ebbe la sensazione del roteare di lunghe gonne variopinte e dell’intensità dello sguardo che si faceva sempre più luminoso. Al progredire della danza, s’accorse che il sole dipingeva d’un riflesso rosso la testa delle piante accendendo di fuoco il loro volto.
All’improvviso da quegli occhi diffusi sui tronchi candidi delle piante uscirono centinaia di uccelli: aironi cinerini, cinciallegre, pettirossi, germani reali, upupe, falchi, civette, passerotti. Dalla Palude sembrarono materializzarsi scoiattoli, tassi, istrici, martore, cinghiali e una miriade di altri animali. Si levò in tutto il bosco un canto melodioso, una musica dolce di flauti e violini. Il raglio di un asino si intese lontano. Angelica partecipò dell’Armonia della Natura e da quel giorno non ebbe più paura. Ogni timore si sciolse sotto gli occhi attenti della luna in quella bella sera di primavera.
Dopo quel giorno la bimba comprese
che la paura ha troppe pretese
che la Natura non può fare male
e che nell’albero c’è dentro un mare.
Se la Betulla ha tutti quegli occhi
pensa che gioco di mille balocchi
con la sua chioma e tanta eleganza
unisce il bosco al canto e alla danza.
In collaborazione con Marco De Santis