Se proprio lo volessimo ammettere, Franz Di Cioccio e Patrick Djivas, l’odierno asse centrale della Premiata Forneria Marconi, potrebbero starsene comodamente in pantofole per godersi tutta la vita stra-vissuta alle spalle, oppure tirarsela a ragion veduta: nata nel 1970 (il battesimo discografico avvenne due anni dopo), la PFM può vantare riconoscimenti e numeri da capogiro. 6000 concerti dopo e con prestigiose onorificenze che arrivano in continuazione dall’Inghilterra, proprio lì dove il genere “Prog” è nato, il gruppo ha appena pubblicato The event - Live in Lugano (Aereostella), un album che condensa in 90 minuti una serata magica in un luogo amico ed avvezzo ad alti carichi di adrenalina, proprio come i picchi offerti dal repertorio che corre in lungo ed in largo al fianco di una carriera inimitabile, che pare ancora in ascesa.
E la differenza la fanno proprio entrambi i frontman, con la loro carica di energia propositiva ed entusiasmo contagioso, due fattori che continuano a rifocillare ad ogni occasione possibile. Che sia un nuovo progetto, talenti da riconoscere e valorizzare, un’intervista da programmare, una foto o richiesta di autografi da parte dei fan, Di Ciocco e Djivas ci sono sempre e se dipendesse da loro, non staccherebbero proprio mai.
«Quella di Lugano» esordisce Di Cioccio «è stata una situazione particolare, che aveva tutti i crismi per determinare un risultato soddisfacente: a Lugano sono strutturati per fare cose importanti, e quindi senza decidere nulla sulla carta, ne abbiamo approfittato per mettere da parte del materiale rivelatosi subito molto valido e che poi in maniera altrettanto naturale, abbiamo deciso di pubblicare. È stato un concerto sensazionale, dove accanto agli ottimi musicisti che sono al nostro fianco da anni, abbiamo ospitato anche il talento prodigioso di Matteo Mancuso visto l’improvviso forfait del nostro Corrado Sfogli; gli abbiamo chiesto se se la sentiva di suonare per un intero nostro concerto e lui ha accettato con entusiasmo. Con lui c’è come altra special guest Luca Zabbini, un’organista coi fiocchi e leader dei Barock Project, gruppo che stimiamo moltissimo».
Si percepisce un’assoluta osmosi fra quello che accadeva sul palco e l’energia restituita dal pubblico...
FDC: Quando suoniamo, specie dal vivo, dobbiamo innanzitutto godere. La cosa in assoluto più divertente è l’interplay, ovvero lo scambio continuo prima fra di noi e poi in relazione a quello che arriva dal pubblico, che è un fattore determinante per la piena riuscita della serata. Si lancia un tema e poi ci suoniamo improvvisandoci su. Il nostro pubblico è affezionato e sa che dalla PFM può aspettarsi sempre qualcosa di diverso. Ci potremmo paragonare a degli “impressionisti”, solo che noi invece che pittura, eseguiamo delle “macchie” di musica: facciamo il tour in cui suoniamo De André, poi ripartiamo per quello con i nostri classici e ancora facciamo “Stati di immaginazione”, che è una performance musicale multimediale. Anche i nostri classici non sono mai uguali a se stessi: ci lavoriamo dentro, poi usciamo dalla forma conosciuta e rientriamo di nuovo. Credo sia questo il segreto della nostra giovinezza, in questo modo è impossibile annoiarsi anche perchè è stato bello non solo crescere con il nostro pubblico, ma anche accogliere le nuove generazioni, ovvero chi viene al seguito delle loro famiglie, oppure i ragazzi che ci hanno scoperto autonomamente.
Non ci sono campionamenti nei vostri live, solo suoni potenti e reali, sebbene la tecnologia vi assiste solo nelle proiezioni e scenografie virtuali...
FDC: Questo accade perché non siamo dei metronomi e non suoniamo tutti i giorni alla stessa velocità: l’arte e la creatività non sono assimilabili alla matematica e alla ripetizione. Noi cambiamo le scalette, osserviamo il pubblico, non siamo automi. Se resti sempre legato a uno schema, allora sei proprio finito comunque non siamo contrari al progresso tecnologico: come in tutte le cose bisogna arrivare al giusto equilibrio.
Quando siete partiti c’era questa parola dal significato quasi esotico “Prog” con il quale siete diventati dei fenomeni persino in un mercato difficile come quello americano, oggi ha ancora senso parlarne?
PD: Per quanto risuoni sempre affascinante, la parola prog appartiene probabilmente ad un’altra epoca. Oggi potrei dire che il prog è nato tanto in Inghilterra quanto in Italia. I King Crimson c’erano già alla fine degli Anni Sessanta e noi non eravamo neanche un gruppo. Però è una musica che abbiamo trovato subito familiare, perché parlavamo la stessa lingua. Il rock fino a quel momento era figlio del linguaggio blues-rock angloamericano, una lingua che facevamo anche fatica a studiare; invece, il progressive conferiva la stessa dignità alla musica classica e a quella popolare, di conseguenza ci siamo sentiti subito a nostro agio. Poi negli anni abbiamo sviluppato una curiosità per tutti i generi, non ce n’è uno che non rispettiamo e le discriminazioni sono sbagliate. Ma agli esordi c’era poco materiale a disposizione, si ascoltava la radio, accendevamo le frequenze medie per scoprire melodie che arrivavano da tutto il mondo, immagazzinando contenuti che sarebbero rimasti nostri per sempre. Ancora oggi quando vogliamo stuzzicare la nostra fantasia, sappiamo dove rivolgerci per avere nuovi stimoli.
Nel vostro grande viaggio in musica anche il celebratissimo sodalizio con Fabrizio De Andrè e la collaborazione a lungo vagheggiata però non concretizzata con Lucio Battisti...
FDC: Con Fabrizio abbiamo lavorato con grande sintonia. Tutti sanno la sua grandezza, era davvero un fuoriclasse che faceva categoria a sé. Noi gli abbiamo forgiato una musicalità che fino a quel momento non aveva, tanto che andò avanti ad utilizzare i nostri arrangiamenti anche dopo. Diciamo che fummo per lui quello che gli Eagles rappresentarono per Jackson Browne o The Band per Bob Dylan. Era lui a condurre il gioco, ma con noi si sentiva protetto ed assecondato. Più una tribù che squadra. Noi imparammo, con molta modestia, il peso dei testi: con lui capimmo l’emozione che possono dare le parole. Non è un caso che nel nostro album successivo che fu “Suonare, suonare”, pubblicato nel 1980, scrivemmo per la prima volta i testi. Con Battisti con cui ho suonato a lungo come turnista in studio c’era altrettanta fiducia, mi lasciava sempre un’assoluta libertà.
PD: Lucio abitava a Londra, in quel periodo. Lo incontrammo presso gli uffici della Numero Uno e ne parlammo più volte, ipotizzando due concerti, uno a San Siro e uno a Roma: non se ne fece nulla perché Lucio in quel periodo non era proprio determinato su questa idea, difatti poi prese tutt’altra direzione. E comunque, a differenza di Fabrizio le cui canzoni lasciavano ampi spazi, Lucio aveva già una sua personalità musicale molto ben definita. Avremmo dovuto stravolgere le sue canzoni per dare un senso al nostro intervento. Resta più di qualche rammarico, perché poteva essere un incontro collettivo altrettanto fortunato. A proposito di Fabrizio, volevo aggiungere che nonostante passasse per essere un gran rompiballe per via della sua meticolosità, di noi si fidava ciecamente e la sua poesia rimarrà indelebile.
Oggi invece, quanto è cambiato il mondo musicale?
PD: È tutto più veloce e c’è un'enorme possibilità di produrre della musica senza suonarla per davvero. È sempre vero che la musica è un linguaggio che si evolve assecondando i cambiamenti della società: anche adesso sta succedendo, solo che non riesco ad intuire la direzione, quello che per esempio si è ascoltato sul palco della più recente edizione del Primo Maggio a Roma, non mi ha per niente esaltato. Forse bisognerebbe ridare il giusto peso alla musica, rispettandone l’essenza. C’è un’omologazione verso il basso e questa non è buona cosa per la musica. I giovani di oggi mi sembrano intrappolati nel meccanismo infernale dei social che di fatto hanno creato. Noi facevamo musica per scardinare il sistema, forse loro ne dovrebbero uscire fuori. Credo sia importante riappropriarsi del tempo e dello spazio per l’ascolto. In questo la riscoperta del vinile anche dalle nuove generazioni ha avuto un ruolo fondamentale. Noi della PFM li abbiamo sempre pubblicati. Al di là dell’oggetto in sé, che ha comunque un valore artistico elevatissimo, prendere un disco, estrarlo dalla sua fodera per metterlo sul piatto, appoggiando delicatamente la puntina, significa non avere fretta, ovvero prendersi del tempo per capire a cosa e a chi è destinato il nostro spazio/tempo di ascolto. Il perfetto testimonial della nostra filosofia “analogica”.
A cosa porterà la vostra continua evoluzione, in altre parole per cosa vi entusiasmerete?
FDC: Del doman non c’è certezza postulava un saggio. Nel futuro c’è l’intrigo, che manca nella replica di una cosa che ha già avuto successo. Meglio indagare nell’ambito delle possibilità ancora inesplorate, che magari possono arrivare mediando fra le emozioni, i ricordi e i viaggi del passato. Umilmente posso ricordare che quando abbiamo scritto Impressioni di Settembre, siamo stati capaci di un esperimento particolare: il ritornello suonato invece che cantato. Solo perché poi ha fatto il botto, non è che abbiamo sfruttato la stessa idea in altri brani. Abbiamo fatto Celebration, una sorta di tarantella rock, e poi cambiato di nuovo il genere. Scommettiamo sempre sul futuro, mai sul passato. Quando hai vissuto cinquant’anni di musica, come è successo a noi, allora possiedi un bagaglio enorme e non puoi permetterti di suonare qualcosa che non ti emozioni realmente. Io sono cresciuto con Dylan, Elvis, gli Stones, poi con i Beatles e i Led Zeppelin. Il DNA è fortemente caratterizzato ma non abbiamo bisogno di tornare lì per trovare un’idea nuova. Vogliamo cercarla nel futuro mantenendo la stessa passione che dopo cinquanta e passa anni ci fa stare ancora vicini, fianco a fianco con i nostri strumenti ed egualmente sorridenti.