Se ci domandiamo quale sia l’essenza della musica Jazz, partiamo dal fatto che la stessa origine del termine è incerta. Forse deriva dal francese Jaser che nei dialetti afro-americani significa ‘far rumore’, oppure dal termine Jasm per indicare l’energia e l’entusiasmo degli afro-americani, o addirittura potrebbe avere un’origine denigratoria usata dai bianchi per definire qualcosa di osceno, rozzo, triviale. Di certo sappiamo che il Jazz è nato negli anni in cui le colonie di schiavi afroamericani lavoravano nelle piantagioni degli Stati del Sud in America e, per sopportare il lavoro duro, improvvisavano canti collettivi o individuali, riuscendo a fondere le caratteristiche della loro musica tribale con l’armonia e lo stile musicale dei bianchi.
Nel Jazz sono molto importanti gli aspetti ritmici, i testi sono semplici, in inglese, le voci dei cantanti sono naturali e non impostate, ma soprattutto l’elemento fondamentale è l’improvvisazione. Insomma ritmo e improvvisazione, che dagli Anni ’60 agli Anni ’80, viene sperimentato dalle Avanguardie fondendo insieme al Jazz stili musicali diversi, il cosiddetto Fusion.
Ed è nel solco della creatività e della sperimentazione jazzistica che si muove Cinzia Tedesco, cantante, compositrice, interprete di un vocal jazz, che supera ogni barriera tra i generi musicali riuscendo a coniugare il suo talento come vocalist Jazz con diversi mondi musicali, dal soul al blues ed alla musica latina sino ad arrivare a portare nel jazz la grande tradizione operistica italiana.
Un’operazione di trasmutazione alchemica difficile e complessa, ma non impossibile per una donna grintosa, forte, appassionata e abituata ad approfondire ogni sua competenza. Definita da Rai Tg2 «Nuovo talento del Jazz Italiano» e da Tg1 Tv7 «Protagonista del Jazz internazionale», Cinzia collabora da sempre con i più grandi musicisti jazz italiani e internazionali, ed ha saputo quindi circondarsi di grandi professionisti per raggiungere grandi risultati.
Musica Classica e Jazz…Jazz e Musica Classica. Una commistione che Tedesco ha costruito con attenzione, rispetto e con un garbo che ha conquistato anche i puristi dei due generi. Solo una ricerca profonda, fatta di arrangiamenti raffinati, sobri e intensi, della collaborazione con professionisti del suono e dello strumento di grande calibro, di una rielaborazione equilibrata senza stravolgimenti fuori luogo, ha consentito a Cinzia di poter rileggere con coraggio e fantasia l’opera di Giuseppe Verdi prima e di Giacomo Puccini in un secondo tempo.
Cinzia Tedesco ha portato in scena, infatti, lo spettacolo musicale Verdi’s Mood by Cinzia Tedesco, un progetto da lei ideato e costruito con il maestro Stefano Sabatini, interamente dedicato a Giuseppe Verdi, di cui ha curato personalmente dettagli, sfumature e suoni, creando un mood nuovo, emozionante e che racchiude gli elementi più importanti del suo bagaglio musicale e delle sue esperienze di palco: la grandezza dell’originale melodia verdiana vive e risuona all’interno di armonie Jazz. Nel progetto dedicato a Giuseppe Verdi è stata affiancata da un quartetto di grandi musicisti come Stefano Sabatini al pianoforte ed arrangiamenti, Luca Pirozzi al contrabbasso, Pietro Iodice alla batteria e Giovanna Famulari al violoncello.
Con la stessa ritmica prestigiosa, Tedesco ha gremito la Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica presentando nel 2020 il suo nuovo disco Mister Puccini In Jazz, pubblicato da Sony Classica in Italia, Germania e tutte le piattaforme digitali mondiali: un originale ed unico tributo al talento del Maestro, ideato e costruito dalla jazz vocalist con partner eccezionali con i quali le arie da tenore e soprano diventano canzoni emotivamente travolgenti.
Nel disco e sul palco, Cinzia Tedesco è stata affiancata dalla Puccini Festival Orchestra del festival pucciniano di Torre del Lago, diretta da Jacopo Sipari di Pescasseroli, e da grandi senatori del jazz, ovvero Flavio Boltro, Antonello Salis, Stefano di Battista e Javier Girotto. Un disco corale ed una grandissima produzione che ha visto le orchestrazioni d’archi del maestro Pino Jodice, la registrazione e mix della Telecinesound ed il mastering di Roberto Guarino.
Cinzia, sei partita da Giuseppe Verdi, uno dei più grandi operisti di tutti i tempi, che dopo il teatro musicale di Rossini, Bellini e Donizetti, è riuscito a infondere in molte sue composizioni una chiave di lettura patriottica che lo rese simbolo artistico profondo dell'unità del Paese. Perché hai scelto di cantare in Jazz proprio l’Opera verdiana?
Confesso che il tutto nasce nell’anno del Bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi, anno in cui pensai che di omaggi alla musica classica ed operistica ‘in jazz’ ne erano stati fatti moltissimi nel mondo, ma che mai nessun ‘folle’ ne aveva fatto uno utilizzando anche la voce in modo ‘non lirico’ ma jazzistico. Era un azzardo, lo so, ed in molti mi hanno dato della ‘matta’, ed ho faticato non poco per convincere Stefano Sabatini a lavorare con me per mesi su questo progetto. La mia scelta è stata occasionale ed anche fortunata, ma credo che nella vita le occasioni si debbano cogliere al meglio, mettendo in campo competenza, impegno, professionalità e cuore. I risultati di questo disco mi confortano e ripagano degli sforzi fatti da me e da tutta la mia grande squadra.
Anche la scelta dei brani della sua Opera non deve essere stata facile: hai spaziato da Il Rigoletto a La traviata, dal Nabucco all’Aida, passando attraverso I vespri siciliani per concludere con l’Otello. Cosa ti ha guidato nella scelta dei brani?
Ho ascoltato per molti giorni le arie d’opera cantate da Pavarotti, Callas, Domingo, Tebaldi e da tante voci eccezionali che hanno segnato la storia del bel canto italiano, scoprendo perle che non conoscevo e scegliendo le arie d’opera che per affinità melodica, per malleabilità del testo e per emozione ho sentito che sarebbero potute diventare anche mie. Per settimane le ho immaginate, cantate nella mia testa cercando il mio ‘modo nuovo’ e quando ho iniziato a sentire che nella mia mente funzionavano ho iniziato a lavorare con Stefano Sabatini, a casa sua, per farle risuonare con un nostro mood, pianoforte e voce.
Rivestire di soffice Jazz La donna è mobile, entrando in sintonia con quella visione di superficiale leggerezza, perfettamente incarnata dalla musica, del duca che riflette sulla vacuità e imprevedibilità femminile, del suo mutare repentinamente pensieri e parole «come piuma al vento», non è solo un’operazione musicale complessa, ma significa anche entrare nell’anima del personaggio e della sua riflessione. Che tipo di lavoro hai dovuto fare su ogni brano?
La Donna è Mobile è nata da una felice intuizione di Stefano, è tutta sua, ed è stato il primo brano che abbiamo costruito piano e voce. Gli dissi che avrei amato cantare questa aria con ‘saudade’, con quel mood latino che tanto amo, e che rappresenta appieno la leggerezza a volte voluta con grande acume delle donne. E così, Stefano mi ha chiamata un giorno dicendomi «Cinzia, vieni, ho fatto La Donna è Mobile! È bellissima!». Aveva ragione. E ti ringrazio per aver colto il lavoro di analisi del personaggio, della storia, della melodia e del significato che ho voluto fare con cura, perché questo patrimonio operistico è unico al mondo, ed è un patrimonio culturale da rispettare e salvaguardare.
Che cosa ha significato dover tener conto sia della tradizione classica, che di quella jazzistica?
Significa camminare sulle uova, ovvero trovare l’equilibrio tra il mondo armonico jazz e quello melodico classico, significa cantare la melodia senza stravolgerla e senza commettere l’errore, che tanti musicisti commettono, di voler far vedere quanto si è bravi ad improvvisare e, quindi, di perdere, in questo delirio tecnico, il significato di quello che l’autore ha scritto e la bellezza della melodia originale. Questo è stato il mio ‘faro nella notte’: far navigare le parole e le note della melodia in un mondo nuovo ed armonicamente costruito con grande talento da Stefano Sabatini al pianoforte, Luca Pirozzi al contrabasso e Pietro Iodice alla batteria. L’inserimento del violoncello di Giovanna Famulari ha contribuito a creare quel ponte verso la musica classica che comunque rimane sempre la protagonista del mio disco. Un cammino ed un progetto, quindi, fatto ‘in squadra’ e di cui sono visibilmente orgogliosa.
Quale Opera verdiana si trova maggiormente nelle tue corde?
Ne cito due perché mi rappresentano in modo diverso ma complementare: Addio del Passato e Mercè Dilette Amiche. Nella prima ho potuto esprimere la mia passionalità, il mio romanticismo e l’amore per le ballad jazz, luogo di respiri e tensioni emotive che nel blues e nello swing non sempre trovano spazio. L’altro esprime invece la mia grinta, quella che gli amici chiamano ‘cazzimma’, che esprimo ancor di più, e senza paura, anche sul palco. Ma in tutti i brani di Verdi’s Mood trovate un pezzo di me, una mia caratteristica che, chi mi conosce, sa individuare molto bene.
Come ti sei mossa tra «l’irruenza battagliera» di Va pensiero e le sfumature di Amami Alfredo?
Proprio in questi due brani ho lavorato per ‘cambiare prospettiva’, avvicinando la solennità del Và Pensiero al pop americano, e l’urlo di dolore della Traviata al groove funk creato da Pietro Iodice con il suo drumming riconoscibile ed unico nel suo genere. La scelta è stata spostare la storia originale in un nuovo mondo, cantando la melodia come se fosse stata scritta per Verdi’s Mood. In questi due brani, in particolare, il lavoro di arrangiamento è stato lungo e ‘ragionato’.
Gli arrangiamenti di Stefano Sabatini, il legame delle corde del violoncello di Giovanna Famulari con la tradizione operistica, il ritmo delle percussioni di Pietro Iodice, l’opulenza del contrabasso di Luca Pirozzi come si sono amalgamate con la tua voce «solida e calda»?
È stato un lavoro lungo di ricerca del suono complessivo, un lavoro fatto prima in duo con Stefano, per amalgamare voce e piano, definire le strutture e immaginare i contributi degli altri protagonisti di questo progetto. Poi insieme, in sala prove, abbiamo suonato, ci siamo ascoltati, abbiamo condiviso e limato le partiture, cambiato a volte sfumature o elementi della struttura per dare a ciascuno lo spazio per esprimersi al meglio. Gli strumenti hanno seguito la voce ma anche io ho seguito loro, poggiandomi sul loro talento.
Insomma, come sei riuscita a «recitar cantando» lasciandoti andare all’improvvisazione musicale?
Canto da quando ero bambina, ho conosciuto, sin dall’età di otto anni, palchi di ogni tipo cantando di tutto e navigando tra i generi musicali come se fosse tutto normale e naturale. Amo il palco ed il pubblico, ed ho da sempre un’attitudine recitativa che ho portato in teatro collaborando con Piera degli Esposti, con la regia di Antonio Calenda, e Maddalena Crippa, con la regia di Juan Diego Puerta Lopez. Anche il lavoro in Rai con Pippo Baudo, su Rai 1, mi ha consentito di sviluppare una capacità interpretativa e recitativa che ritengo sia indispensabile avere quando si canta.
Bisogna vivere il testo, farlo entrare dentro di sé e ‘recitarlo con naturalezza’ mentre si canta, perché non basta emettere suoni per abbracciare il pubblico e farlo emozionare con te. Le emozioni nascono dal vivere quello che si rappresenta vocalmente, e sono grata a tutti i palchi e le storie musicali che ho avuto sin da piccola perché questo è un patrimonio di esperienze che mi rende capace di affrontare il pubblico e le nuove sfide musicali.
Sicuramente il lavoro fatto su Verdi ti ha reso più semplice affrontare Puccini, una volta che hai trovato un metodo per il primo, cosa hai dovuto modificare mentre preparavi i brani del secondo?
Affrontare Puccini mi ha dato non pochi pensieri perché, dopo aver avuto con Verdi’s Mood un successo così importante, volevo dare qualcosa di nuovo al mio pubblico. La Sony Classica però puntava su Puccini e la sfida, per me, era ancor più grande: le melodie pucciniane sono cantabili ab origine, quasi pop, e dovevo farle mie, renderle nuove senza stravolgerle, darle nuova vita lasciando intatta la loro cantabilità, trovare nella mia voce una nuova modernità che motivasse questa operazione musicale e divulgativa.
Mister Puccini In Jazz ha richiesto un lavoro ancor più lungo e pensato. Un anno e mezzo che ho vissuto con entusiasmo ed impegno, travolta da una giostra di emozioni, tra fatica ed anche arrabbiature perché magari le cose non girano come vuoi e ti senti bloccata. Ma poi ho seguito lo stesso metodo vincente: ho visto i brani con gli occhi della mia mente ed ho immaginato ‘Musetta’ cantare in 5/4 mentre passeggia nella via; la Manon Lescaut cantare una ballad straziante mentre è avvolta, nel letto, dalle sue trine morbide; e la saudade avvolgere i primi tocchi furtivi delle mani di Rodolfo e Mimì. I miei dischi nascono così, dalla mia immaginazione, tra teatro, musica, colori e brividi che mi scuotono quando capisco di aver trovato la strada giusta. Il resto viene da sé, anche perché ho una squadra eccezionale con cui concretizzare il tutto.
Sempre Amore e Morte, la tragedia che incombe dietro l’angolo, la Poesia, tra il freddo di «Che gelida manina» l’amore che fugge di «E lucean le stelle», cosa ti ha guidato nella scelta delle arie? La loro fama, oppure una tua predisposizione personale?
Ho volutamente scelto le arie più famose per complicarmi la vita, perché è più facile per il pubblico ascoltare e dire ‘che bella idea’ oppure ‘e no, questa non mi piace’. Rielaborare arie poco note mi avrebbe protetta dalle critiche ma io amo il rischio ed ho voluto fare questo nuovo salto mortale protetta solo dalla rete dei miei eccezionali collaboratori. Ho quindi ascoltato le più famose arie di Puccini e mi sono lasciata guidare, come sempre, dalla mia testa dentro la quale le melodie vengono elaborate, impastate con quanto musicalmente conosco, distrutte e ricostruite prima che la bocca emetta dei suoni. E poi, cantandole tra me e me, mentre guido o mentre cammino o mentre faccio la spesa, ho atteso il brivido, quel momento in cui mi dico «Sì, ci siamo!».
Come hai lavorato sul Coro Muto/Tonight di Madame Butterfly, su quel coro ‘a bocca chiusa’, dove non si riesce a capire chi canta, del quale non si riesce a comprendere se e quale funzione rivesta, ma che è un dono memorabile di Puccini?
Dare parole al Coro Muto è stata forse la cosa più ardita che io abbia mai fatto nella mia vita. Ma è nato tutto così naturalmente che, quando ne ho parlato con l’allora Direttore Artistico della Sony Classica, Luciano Rebeggiani, spiegandogli il significato di voler dar parola al coro, ho avuto il suo autorevole placet. Ho immaginato questa melodia come una jazz ballad, una canzone d’amore in cui la parola ‘butterfly’ evocativamente riportava il brano nella cornice Pucciniana ma in cui questa melodia avesse una forza jazzistica che la estraesse dal contesto operistico. Volevo cantare l’amore di una donna che attende il ritorno del suo uomo, che canta il suo amore che mai finirà per lui e che sogna di volare come una farfalla per essere dolcemente vicina a lui. Una jazz ballad, quindi, che credo sarebbe piaciuta al maestro Puccini, così moderno e vicino alla cultura ‘pop’ americana della sua epoca.
Insomma ci vuole «coraggio e fantasia, per rileggere in chiave jazz arie rese immortali e intoccabili dal tempo e dalla tradizione». Come hai collaborato con la prestigiosa Orchestra filarmonica diretta da Jacopo Sipari di Pescasseroli affiancando alla grande orchestra d’archi, il trio jazz, al pianoforte Stefano Sabatini, Luca Pirozzi al contrabasso e Pietro Iodice alla batteria?
Ho lavorato con la logica ‘Matrioska’, partendo dal lavoro mio e di Stefano Sabatini e costruendo con la ritmica di Pirozzi e Iodice il groove complessivo. Nelle strutture dei brani, sin dall’inizio ho individuato gli spazi dove inserire l’orchestra in modo solistico o di accompagnamento, e questi magici inserimenti sono stati ideati e scritti dal maestro Pino Jodice che ha affiancato il maestro Jacopo Sipari di Pescasseroli in fase di registrazione archi avvenuta nell’Auditorium dello splendido Festival Pucciniano di Torre del Lago. Sipari ha dimostrato il suo talento poliedrico, riuscendo a passare dalla classica al jazz con grande naturalezza, compito arduo per qualsiasi direttore.
Colgo l’occasione di questa intervista per dire nuovamente ‘grazie’ al Direttore Generale Franco Moretti che ha voluto rendere disponibile l’orchestra e che ha posto il logo del più importante festival Pucciniano al mondo, sul mio disco. Un vero riconoscimento, questo, del valore di questa produzione musicale! La registrazione del trio jazz nello studio della Telecinesound di Roma prima, degli archi a Torre del Lago poi, sempre con il tecnico del suono Simone Sciumbata, e del missaggio che io e Simone abbiamo curato in modo maniacale, si è conclusa con lo step del mastering affidato al grande musicista, produttore, arrangiatore e tecnico del suono Roberto Guarino. Un lavoro davvero di squadra!
Il coraggio non ti manca, dopo Verdi e Puccini, ora stai portando in scena il progetto Italian JazzSongs, omaggio ai grandi cantautori italiani rivisitati in chiave Jazz, in trio con Roberto Guarino alle chitarre e programmazione elettronica, e Flavio Boltro alla tromba che ti vedrà per due serate all’Alexanderplatz Jazz Club di Roma (dal 13 al 14 Gennaio 2023), cosa ci dobbiamo aspettare?
Con Roberto Guarino il lavoro è stato meravigliosamente naturale e sereno. Sono arrivata da lui con le idee abbastanza chiare su come volevo strutturare i brani, su quello che il computer avrebbe dovuto fare o non fare, sul mood complessivo di ciascun brano che ho scelto con questo criterio: voglio cantare le canzoni dei cantautori che amo ma che non ho mai cantato! Roberto ha collaborato per anni con i più importanti cantautori italiani, da Dalla a Renato Zero, ha creato i dischi di Samuele Bersani vincendo due Premi Tenco e chiedere a lui di lavorare con me su questo progetto è stata un’intuizione felice. Roberto ha scelto le soluzioni armoniche, ha sostenuto i miei voli pindarici, contenuto la mia creatività e dato la sua visione del brano che, magicamente, si è fusa con la mia.
Abbiamo lavorato ore ed ore senza scontri, sorridendo, stimandoci l’un l’altro e questa è la cosa più bella di questa collaborazione. Quando ho pensato a questo progetto ho immediatamente visto l’immagine di me, Roberto e Flavio sul palco. Perché? Perché sapevo che Flavio sarebbe arrivato su ciascun brano ed avrebbe creato momenti forti, grintosi ed appassionati con la sua eccezionale ‘tromba jazz’. Da quando lo vidi suonare anni fa al Calvi Jazz Festival con Michel Petrucciani, decisi che un giorno lo avrei voluto con me sul palco. Flavio ha avuto il compito non facile di entrare nel mondo musicale definito da me e Roberto suonando come lui sa fare, ed il suo contributo è davvero di rara bellezza.
Saranno due serate ricche di pezzi memorabili e amatissimi dal pubblico, delle vere e proprie perle scelte dal repertorio dei cantautori italiani più vicini al mondo del jazz e del blues: ed è così che Lucio Dalla, Paolo Conte, Pino Daniele, Fabio Concato, Samuele Bersani, Lucio Battisti, Ron, Gino Paoli e Renato Zero trovano una nuova prospettiva musicale dove il pubblico potrà ritrovare le parole e le melodie da sempre tanto amate.
Canterò anche un mio brano inedito, intitolato Alle Cinque, dedicato a Paolo Borsellino, di cui ho composto la musica su parole scritte a quattro mani con lo scrittore teatrale Giovanni Soldani. Questo brano nasce dal racconto della speciale abitudine, che Borsellino aveva, di alzarsi sempre alle cinque del mattino "per fregare il mondo con due ore di anticipo" e rende omaggio ad un vero eroe dei nostri tempi, veicolando così in musica un vero e proprio messaggio di amore per la legalità.
Cosa farai dopo Italian JazzSongs?
Adesso sto lavorando su progetti di internazionalizzazione della mia Opera Jazz, con prima tappa il Brasile, e poi sto puntando molto su questo nuovo Italian JazzSongs. Ho tanto su cui lavorare e, in tutto questo, amerei trovare il tempo per riposare un po’ e godermi l’applauso del pubblico. I nuovi progetti possono attendere.