Divisa coloniale e fucile in spalla, Jakson, il nostro ranger, ci raccomandava di stargli vicino, tutti insieme e uniti, perché tra le pianure dello Tsavo bisogna muoversi prudentemente e soprattutto compatti, durante il safari a piedi: le sorprese sono sempre in agguato.
Nessuna leggerezza, distrazione o allontanamento dal gruppo per fotografare in solitaria, ammoniva. La Range Rover con Malik ci aspettava poco lontano, raggiungibile facilmente, all’occorrenza.
Con i suoi 22.000 kmq. Tsavo Est e Ovest è il più grande dei 54 parchi nazionali del Kenya e alcuni tratti si possono attraversare a piedi, ovviamente accompagnati da esperti del posto. Jakson è uno di questi. L’Ovest è caratterizzato da magnifici paesaggi, fitta vegetazione, paludi e sorgenti, mentre scenari semi-aridi e desertici sono propri dell’affascinante parte Est, immensa e poco turistica, accessibile dalle località balneari della costa.
Eravamo sei persone in quel pezzo di riserva, quel giorno di ottobre, scese dal fuoristrada per ammirare da vicino le giraffe che brucavano le foglie dagli alberi e in lontananza gli ippopotami sbuffanti negli acquitrini. Ma c’erano anche impala lì intorno e zebre, che immobili ci piantavano lo sguardo addosso, disturbate da quell’inaspettata incursione di umani nel loro habitat.
Quando noi camminavamo per procedere, loro con uno scatto lesto scappavano intimorite. Per tornare a spiarci curiose a distanza. Gli elefanti erano più lontani rispetto al punto di inizio del nostro tour e per fotografarli utilizzavo l’obiettivo 70:200 della reflex.
Rivolgendomi a Sara, collega e amica, scherzavo galvanizzata: “Abbiamo davanti a noi, materializzati e dal vivo, tutti gli animali che alle scuole elementari vedevamo solo nel sussidiario. Ti rendi conto?”. Lei rideva, intenta a scattare col tablet compulsivamente a ogni metro. Il nostro safari a piedi era programmato per il pomeriggio, con le luci che rilasciano ombre lunghe, avviandosi al crepuscolo.
In Kenya, trovandosi geograficamente all’Equatore, tutto appare compatto o dilatato a seconda dell’ora del giorno. Di mattina il cielo è incollato a terra, talmente basso e vicino che sembra di toccarlo; i colori contrastanti delle nuvole bianchissime con il suolo ruggine sono saturi, intensi. Verso sera il sole precipita quasi senza preavviso, disegnando striature arancio nel buio, mentre di mattina le albe tingono l’orizzonte di uno struggente rosso vivo.
Durante il walking safari si vedono molti animali pascolare insieme e l’eccitazione di immortalarli con uno sfondo così scenografico è fortissima. Facoceri, waterback e piccoli dik-dik erano lì sotto i nostri occhi: immagini da atlante naturalistico.
Eravamo stati avvertiti da Jakson fin da subito che era sconsigliato avvicinarsi troppo all’acqua della palude, perché gli ippopotami sono imprevedibili. Sono fra i più grandi e pericolosi animali al mondo e il loro essere pachidermi placidi trae in inganno perché in realtà, fuori dalla mota, riescono a raggiungere agevolmente una sbalorditiva velocità di 30 km. orari, nonostante le loro tonnellate di peso. Scattanti e molto aggressivi. “Camminare rilassati e in silenzio – ci spiegava a voce bassa Jackson – è il modo migliore per vedere qualsiasi cosa senza spaventare ed essere spaventati. Noi qui siamo ospiti” ripeteva col sorriso e l’esperienza di chi conosce intimamente questa terra. E la rispetta.
Avanzare in silenzio consente anche di udire l’incedere dei propri passi e il battito del cuore che sembra un rullo di tamburo, tanto i sensi sono allertati. Guardavo le mie desert book inzaccherarsi, lasciare il segno del carrarmato della suola sul terreno rossastro, quasi la firma tangibile che lì c’ero stata con le mie gambe e non seduta dietro il finestrino di una jeep.
Mentre camminavo gli occhi si riempivano di bellezza: un orizzonte sconfinato con una dominante di colori caldi e tanta vegetazione all’intorno. Distinguevo sempre più vicine le sagome degli elefanti. A volte la quiete era interrotta da uno stormo di uccelli che uscivano dalle fronde per librarsi in volo e ciò rendeva tutto ancor più magico e vivido, come certe riprese dall’alto del film La mia Africa.
È un’esperienza unica trovarsi nel mezzo della natura selvaggia con gli agi del ventunesimo secolo, pensavo. Tutto assume valore inestimabile e si imprime nella memoria, per non andare più via.
Jakson accompagna di frequente piccoli gruppi di turisti a piedi e li affascina con racconti. Durante il trek ci ha spiegato alcune parole swahili: il rungu, per esempio, quel pezzo di legno penzolante tra le vesti quadrettate tipiche dei masai, è il bastone in ebano lungo mezzo metro con l’estremità bombata, che viene usato come una clava potente e serve per assestare colpi letali agli animali alla radice degli occhi, in caso di pericolo. Talvolta è utile anche per scostare le zolle di terra e riconoscere dagli escrementi se per caso ci si trova in prossimità dei leoni.
Di tanto in tanto, tra la polvere, durante il nostro walking safari compariva qualche scheletro di animale, cosicché Jackson ci parlava della naturale catena della vita ma anche delle insensate scelleratezze del bracconaggio.
“In Kenya il 90% dei visitatori viene qui per vedere gli animali a scopo turistico e naturalistico – dice Jackson - ma una piccola percentuale fa anche danni all’immenso patrimonio faunistico”. Il Kenya, da solo, vanta la maggiore varietà e numero di animali e di flora del mondo intero.
Jackson ci avvisa che è vietato comprare souvenir e oggetti ricavati da animali selvatici: pelli, avorio, corna e corni di rinoceronti, carapaci di tartarughe marine. Ci informa che ci sono pene molto severe per chi infrange queste regole. “E’ vietata la raccolta di coralli, conchiglie e uova di struzzo – aggiunge – a meno che non provengano da allevamenti autorizzati”.
Un safari a piedi è tutto questo e molto di più: una lezione di vita nel cuore pulsante di una natura selvaggia e prorompente e un condensato di emozioni ancestrali. I primi sintomi del mal d’Africa.
In Kenya sono poi tornata dopo qualche anno, infatti, e un altro degli spettacoli più emozionanti ai quali ho assistito è stata la migrazione degli gnu dal Kenya alla Tanzania. Gli gnu sono animali che seguono le piogge e per procurarsi da mangiare sono costretti a spostarsi e a guadare il Mara, il fiume che divide i due Stati.
Ecco, qui, si è praticamente sul set di un documentario, con decine di jeep per le riprese fotografiche e i video. Ad un certo punto si vede l’orizzonte oscurarsi, diventare nero. Migliaia di gnu avanzano lentamente a capo chino fino alla riva del fiume. Una volta arrivati il capo mandria si avvicina a una zebra nelle vicinanze, si consulta lei (si nota proprio in confabulare tra loro), quindi la zebra va al fiume per abbeverarsi e intanto controlla i pericoli in acqua, dove ci sono i coccodrilli. Non è prudente attraversare adesso, sembra dire la zebra al capo gnu, che decide di spostarsi in un altro punto. È un rituale che dura ore, a volte anche giorni.
La mandria ritenta il passaggio. La scena si ripete: il capo gnu parla con la zebra e quando questa da il consenso, il capo gnu ordina di attraversare. Al suo comando passano tutti insieme, perché solo così, nella loro logica possono salvarsi. Si lanciano in un galoppo frenetico e l’acqua si fa schiumante, schizzi giganteschi di fango si sollevano. I coccodrilli rimangono storditi. Azzannano a fauci aperte, ma a vuoto, perché gli gnu sono tanti e veloci.
E quando tutti gli gnu hanno attraversato, decine di gazzelle e piccoli impala imitano l’impresa, gli vanno dietro ma essendo poche, loro sì muoiono mangiate. E l’acqua si colora di rosso. Uno spettacolo sicuramente cruento che tuttavia è il sunto della vita, con concentrati i valori principali dell’esistenza: unione, amicizia, fiducia, coraggio ma anche incoscienza. Noi siamo rimasti ammutoliti dentro la nostra jeep con gli occhi lucidi e qualche lacrima sul parka.