Primordiale, colorata. Ho visitato l’Africa molte volte, e dopo aver elaborato nella mia mente gli aggettivi più scontati e altisonanti, sono finalmente giunto alla mia personalissima conclusione. Sono i due termini utilizzati in apertura quelli che il mio immaginario ricollega ormai in automatico al continente che si estende dal Mediterraneo fino alle gelide correnti antartiche. Lo ammetto: le città sono caotiche, in alcune aree il turismo di massa ha oltrepassato il livello di guardia e lo stile di vita occidentale pervade sempre più la quotidianità dei vari Paesi - ma tradizioni e culture autoctone in Africa resistono ad ogni aggressione globalizzante e se deciderete di tralasciare i circuiti più battuti allora scoprirete la vera anima di un continente che è probabilmente il più esposto in assoluto a ingiustizie, violenze, conflitti etnici, turbolenze geopolitiche.
Ho deciso di raccontarvi del Mali: meta prediletta, per anni, di chi ambiva a perdersi in un’Africa ancestrale, autentica, radicale, legata alla propria storia e tradizione: un’Africa, appunto, primordiale e assai colorata.
Al di là della situazione pandemica il Mali è off-limits ormai da qualche anno. Teoricamente non vi sono impedimenti di alcun tipo per recarsi nel Paese ma la situazione di turbolenza in cui esso versa sconsiglia di intraprendere un viaggio che metterebbe a rischio l’incolumità del visitatore. In verità è tutta l’area saheliana a essere soggetta a situazioni di tensione che hanno drasticamente ridotto i flussi turistici ormai da tempo: Mali, Niger, Ciad, Burkina-Faso, Sudan, Nigeria. Le motivazioni, numerose e complesse, meriterebbero una (ampia) trattazione apposita e non è questo il contesto adatto per svolgerla. Di fatto, si tratta di destinazioni che hanno smesso da tempo di accogliere individui alla ricerca di un’esperienza straordinaria.
Il mio viaggio in Mali è nato sotto una cattiva stella: in transito a Parigi, una volta atterrato dall’Italia ho scoperto che la connessione per Bamako era stata cancellata. L’equipaggio dell’aeromobile era infatti assediato in hotel nella stessa Bamako da un gruppo di banditi che avevano già assassinato un certo numero di persone. Ricordo che il tono neutro con cui l’addetta alle informazioni per i passeggeri mi ha di fatto comunicato la brusca interruzione di un progetto allestito mesi prima mi aveva urtato quanto la sorprendente vicenda; pareva mi stesse dicendo che il decollo era impossibile, che ne so, per nebbia o un qualsivoglia plausibile imprevisto. Insomma, la compagnia mi ha rifuso la tratta non percorsa e imbarcato per la destinazione di provenienza due ore dopo, e le ferie che avevo programmato in Africa le ho reindirizzate ad Aruba, Bonaire e Curaçao: una vacanza, non un viaggio. Altre storie, altra esperienza, ma la delusione non son riuscito a smaltirla nemmeno tra spiagge e fondali di notevole bellezza.
…E così ci ho riprovato a un anno esatto di distanza dall’assedio del Radisson: sono stato premiato al secondo tentativo, ed eccomi appena uscito dall’aeroporto aggirarmi tra la confusione, i forti odori e le gomitate del mercato di Bamako.
“Non importa quale sia il credo religioso cui appartiene: un africano, nella sua anima più profonda, rimane sempre un animista!” Il mio amico Barthelemy è lapidario quando affronta una questione che va ben al di là delle vicende attinenti all’ultraterreno: in Africa la questione religiosa sottintende quasi sempre specifici assetti politici, squilibri economici fortemente delineati, connotazioni etniche forgiate da conflitti secolari e vicende tragiche- anche se sovente affascinanti.
È difficile dissentire dalla sentenza incontrovertibile di Barthelemy: al mercato a farla da padrone sono le bancarelle che vendono feticci correlati all’animismo. E dunque teschi e scheletri di animali, sculture in legno, camaleonti rinsecchiti (però ne ho incocciato anche uno vivo, una meraviglia!), piumaggi di volatili, code di serpenti; un’esperienza - per me di fatto il biglietto da visita del Paese - molto intensa, paradossale se parametrata all’inderogabile divieto di ingresso nelle moschee per i non mussulmani.
Ho comprato una porta di legno, che mi sono portato dietro tutto il viaggio e ovviamente a casa. Squisitamente lavorata, mi ricorda costantemente di quel viaggio così difficoltoso ma davvero unico, perché solo in Afghanistan mi è capitato di non incontrare nessun individuo che non fosse un cittadino locale. Patti chiari sin da subito: a Timbuctù non si può andare per ragioni di sicurezza. “E quindi?” chiedo a Barthelemy, un po’ sconfortato: era uno dei miei obiettivi principali. “Tranquillo: trascorreremo più giorni nel Pays Dogon, è sempre stata la scelta migliore anche quando ci si poteva andare, a Timbuctù!” La città mitica, nel cuore del deserto, effettivamente ha subito distruzioni e angherie architettoniche che ne hanno irrimediabilmente deturpato l’impronta urbanistica e culturale e mi è stato anche detto che al di là del mito non sia poi così mozzafiato come altre destinazioni. Però ho la sensazione che non mi accontenterò della visita della moschea di fango di Djenné a rimborso della delusione.
E invece mi sbaglio: quando intravedi la moschea di Djenné, lo intuisci sin da subito che è qui il cuore del Paese. È giorno di mercato e il trambusto, l’atmosfera e le interazioni umane e gli odori e le voci e gli sguardi tutto insomma racconta di un magnetismo spontaneo, abituale ma al contempo coinvolgente come fosse la prima volta per tutti, ed io perdo il controllo delle mie emozioni e del mio apparato fotografico. È un bene: è l’istinto che mi mena per vicoli, stradine, cortili, banchi di vendita e scuole coraniche presenti in numero sorprendente. La mia macchina fotografica sa già cosa fare, io premo solo lo shutter, grilletto che innesca una serie di duelli a quale risulterà lo scatto più sorprendente. Ora sono completamente solo di fronte all’ingresso di un’abitazione (i marmocchi mi invitano ad entrare sorridenti, le matrone appollaiate all’ombra delle costruzioni in fango che invece mi tengono a distanza con occhiate dal significato incontrovertibile) e subito dopo devo sgomitare tra la folla per non farmi trasportare chissà dove, grato al cielo per un pertugio in cui fuoriuscire da un flusso umano travolgente come una violenta corrente oceanica.
“Qui il caldo è secco, si sta bene…” Ho capito, Barthelemy, a te la pianura padana non ha mai garbato, me lo hai già detto, però io ora sto soffrendo il caldo e l’unica visita consentita in un luogo di culto di tutto il Paese giunge provvidenziale come il tè nel deserto.
La Grande Moschea di Djenné vista da fuori scompagina la vostra personale classifica dei monumenti preferiti. Realizzata interamente in fango, con le travature in legno in bella vista, potrebbe essere una chimerica creazione di un set cinematografico; e invece è tutto vero, e persino il muro di cinta con le sue escrescenze in altezza finisce per attirare la vostra attenzione. L’interno invece non è ugualmente travolgente: una serie apparentemente infinita di arcate, tutte a ridosso l’una dell’altra, di fatto occupano l’intero spazio adibito alla preghiera. Lo stesso Mihrab appare ridimensionato, o forse sono i fedeli che scompaiono di fronte alle titaniche colonne, chi lo sa, certo è che la frescura interna ora mi appare meno corroborante: meglio cuocersi là fuori però contemplando la straordinaria struttura.
L’elemento più determinante di un viaggio è sempre l’incontro: ci si mette in cammino per un monumento, una specie animale, un paesaggio strepitoso, e poi quel che marchia a fuoco l’esperienza è uno sguardo o un saluto che si tramuta in una fugace ma sincera confidenza il cui ricordo sarà per sempre. Non è facile per un bianco essere invitato in una casa privata in un Paese fortemente tradizionalista come il Mali: bisogna farsi accettare dall’uomo di casa, adattarsi alla realtà locale, essere disposti a tollerare qualche scomodità, concedere ampie dilazioni in tema di igiene. Niente di tutto questo rappresenta un problema per me, ma stavolta mi sembra difficile che qualcuno mi inviti per un tè o mi offra uno spuntino.
Non saprò mai per quale motivo la bimba mi ha preso per mano e fatto entrare nel cortile di casa sua, dove mamma e numerose amiche oppure parenti ciarlavano ad alta voce di argomenti comuni a tutte le latitudini. Il fatto di essere l’unico bianco in giro? L’abbigliamento chiaramente differente? O l’istinto che ci spinge verso altri esseri umani senza ragione apparente? Nei Paesi islamici può essere pericoloso entrare in casa delle persone se non è presente il capofamiglia: l’onorabilità e la reputazione spesso sono tutto quello che queste genti hanno come merce di scambio. Ma la spontaneità dei bimbi che non possono decifrare le conseguenze di certi gesti o comportamenti spesso sovverte ogni codice di condotta. Insomma, ecco che queste signore abbigliate con colori sgargianti ora a voce ancor più alta di prima mi dileggiano - tanto l’ho capito che fanno battute sui bianchi a cui piacciono le forme generose delle donne africane, e quindi me la rido insieme con loro - però, alla fine, il mio tè me lo son fatto offrire pure stavolta. E anche una pietanza il cui nome non riuscirò mai a tramandarvi; buona, veramente, ma ladra miseria quanto speziata?!?
Volete sapere della navigazione sul fiume Dogon? Grandiosa!... Mopti? Andateci. Ma è la falesia di Bandiagara il posto più straordinario e incantevole del Mali. Provate a immaginarvelo, questo altipiano dove per una volta il secco ocra che predomina in Africa è intervallato dal verde della vegetazione e da -incredibile ma vero - campi coltivati, fertili e rigogliosi. Aggiungete ora le abitazioni originali delle persone realizzate in fango essiccato e i granai, così famosi e straordinari da essere inseriti nel Patrimonio UNESCO. Sarebbe già abbastanza per inserire l’intero contesto tra le prossime mete da visitare, eppure il meglio deve ancora venire…
Vi chiedo un ulteriore sforzo di immaginazione, più intenso questa volta: vedetele coi vostri occhi, queste decine di donne, che precedono l’alba tutte intorno ai pozzi per riempire i loro recipienti e trascorrere l’intera giornata a vivificare con l’acqua le colture che sfameranno l’intera famiglia e coloro i quali acquisteranno i loro ortaggi al mercato. “Economia di sussistenza” la chiamavano ai miei tempi a scuola, una perifrasi di cui solo ora comprendo appieno il significato. E il silenzio che regna sovrano nello spazio sconfinato, quasi offensivo nei confronti di quel duro lavoro: le donne trasportano gli otri in un perfetto equilibrio anatomico - schiena dritta e passo costante - per non trascurare nessun angolo dell’appezzamento di pertinenza. Le possibilità per scattare sono infinite ma la faccenda non va presa alla leggera: è questo un contesto in cui i fotografi non sono graditi. Credenze ancestrali, diffidenza verso gli estranei, un senso dell’onore molto più marcato che altrove fanno sì che le signore non gradiscano essere riprese troppo da vicino. E se a malincuore mi tocca ricorrere allo zoom mentre una differente focale mi avrebbe consentito maggiori soddisfazioni, almeno mi rifaccio con un premio di consolazione quanto mai appagante. I giovani sono uguali dappertutto e non solo non rifiutano di posare, ma addirittura mi chiedono di essere i protagonisti del reportage. Ti accorgi che il luogo è alieno dall’overtourism perché nessuno ti chiede soldi in cambio: l’ambita ricompensa è solo quella di accalcarsi attorno al fotografo per ravvisare di essere entrato a tutti gli effetti nel frame.
Pare incredibile che nel corrente millennio si possa ancora vivere in questi luoghi sperduti, lontani da tutto, agglomerati di fango le cui porte, di certo suppellettili ovviamente funzionali, sono però soprattutto ai miei occhi opere d’arte finemente intarsiate e testimoni di una cultura e uno stile di vita immutato da secoli. Penso che sia questo il luogo in cui pulsa la vera anima del Mali, soprattutto ora che a Timbuctù i banditi hanno distrutto i preziosi manoscritti custodi della millenaria, straordinaria vita ed esistenza di chi abita il Sahel.
Non vi ho raccontato delle etnie che abitano il Paese, e neanche di tanti altri luoghi che ho visitato e che riservano ugualmente emozioni indescrivibili. Poco importa: sono sicuro che si tornerà a viaggiare in sicurezza nella regione. E dunque antenne dritte, mi raccomando!