Houston, we have a problem.
Jack Swigert, astronauta della missione Apollo 13, lo comunicò alla Nasa nel 1970 dopo aver scoperto che un'esplosione aveva danneggiato la navicella spaziale in cui si trovava. In verità il suo problema in quel momento si era già in qualche modo risolto, tanto che nella frase da lui realmente pronunciata il verbo era al passato:
Houston, we have had a problem here.
Per noi tutti, invece, qui e adesso, la citazione è vera così come la tradizione popolare l'ha tramandata. Con l'aggiunta del plurale, perché di problemi non ne abbiamo uno solo, ma parecchi.
Il primo e forse il più serio si chiama acqua. Sulle nostre montagne si nota sempre di più l'assenza di neve: l'aridità avanza e quest'anno in molte località alpine si è sciato con la neve artificiale. Per restare nei confini europei già sappiamo che entro la fine del secolo non ci saranno più ghiacciai e che in tutto il bacino del Mediterraneo i giorni senza precipitazioni aumenteranno in maniera sensibile, mentre il riscaldamento globale, che già adesso ha raggiunto 1,5 gradi, aumenterà fino a 2 gradi e forse più. Allargando lo sguardo incontriamo il rischio di scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya e una siccità dilagante che diminuirà catastroficamente la portata dei fiumi con conseguenze disastrose sulla produzione degli alimenti per la nostra sopravvivenza. Il 90 per cento dell'acqua dolce adesso a disposizione viene infatti consumata per l'agricoltura e l'allevamento, ma continuando così tra qualche decennio saremo quasi a secco.
Eccolo il quadro dipinto da Marco Cattaneo, direttore del National Geographic Italia, durante un incontro su “Equilibrio tra genere umano e risorse della Terra” organizzato a Pisa dall'Infn e dalla Fondazione Palazzo Blu. Purtroppo i colori diventano ancora più cupi se si va avanti nella descrizione del nostro medioevo prossimo venturo. “L'acqua più calda degli oceani avrà più energia e quindi provocherà l'intensificarsi di precipitazioni violente che troveranno un suolo impreparato a raccogliere l'acqua perchè più il terreno si inaridisce, più diventa impermeabile”, ha spiegato Cattaneo. “Uragani ed eventi estremi si susseguiranno. Da noi ne abbiamo avuto un esempio il 4 e 5 ottobre 2021 in Liguria”.
Insomma, il nostro pianeta non ci sopporta più. Lo stiamo stressando con il mito della crescita senza fine e lui sta reagendo con una crisi di nervi che ci getta in faccia non solo gli uragani, ma anche i suoi rifiuti, restituiti attraverso un forte inquinamento liquido, solido e gassoso. “Non si può perseguire una crescita materiale e quantitativa illimitata in un pianeta dai limiti biogeofisici definiti”, ha sentenziato Gianfranco Bologna, presidente onorario del Wwf. “I grandi cambiamenti globali ci sono sempre stati, ma questa volta li abbiamo creati noi aumentando l'impatto sui sistemi naturali e riducendo di conseguenza la loro capacità rigenerativa”.
C'è poco da fare, la Terra non è infinita, ha una dimensione precisa e non si può ampliare per il nostro fabbisogno. I suoi 510 milioni di chilometri quadrati, di cui 150 di terre emerse, stanno lì da 4,6 miliardi di anni e ne hanno viste di tutti i colori, dalle glaciazioni ai terremoti, con conseguenti mutamenti radicali del pianeta. La vita ebbe inizio intorno ai 3,8 miliardi di anni fa, ma noi, in qualità di Homo Sapiens, esistiamo soltanto da 200mila anni. Da quel momento, però, l'utilizzo delle risorse naturali è andato sempre crescendo, così come la popolazione. Basti pensare che duemila anni fa, nel periodo della nascita di Cristo, solo 190 milioni di individui popolavano la Terra, mentre oggi abbiamo raggiunto gli 8 miliardi. Una crescita diventata sempre più significativa se si considera che negli anni Cinquanta del secolo scorso la popolazione era di 3 miliardi e che è quindi più che raddoppiata in pochi decenni.
“Grazie a una pubblicazione su Nature del 2020 abbiamo scoperto che la massa umana materiale, cioè tutto quello che abbiamo messo in piedi e che è permanente, dai mattoni al cemento, dai metalli alla plastica, è oggi superiore alla massa umana vivente”, sottolinea Gianfranco Bologna. Se poi ci vogliamo confrontare con gli altri mammiferi, allora avremo la sorpresa che noi, 8 miliardi di esseri umani, siamo in realtà solo il 36 per cento del totale, che gli animali selvatici raggiungono appena il 4 per cento, mentre ovini, bovini, caprini e tutti gli altri animali che abbiamo addomesticato e che usiamo per la nostra alimentazione costituiscono il restante 60 per cento. Non solo: ogni anno mangiamo ben 66 miliardi di polli, che, secondo la media di Trilussa, fa un po' di più di 8 ciascuno. “La crescita della popolazione è diventata un problema molto serio”, insiste Bologna. “Per secoli e secoli, pur con andamenti alti e bassi, gli equilibri dinamici naturali hanno consentito alla specie umana di raggiungere questi livelli di iperconsumismo, ma adesso stiamo superando tutti i limiti e ciò che è in pericolo non è tanto la Terra, quanto la nostra civiltà”.
Se Jack Swigert trovò facilmente il suo interlocutore nella Nasa, la nostra Houston non è altrettanto semplice da trovare. A chi lanciamo i nostri allarmi? Certamente alla scienza, ma dobbiamo riconoscere con franchezza che per il momento nessuna soluzione è a portata di mano. Disseminiamo pale eoliche sui nostri territori per catturare la forza del vento, si cerca nella fusione nucleare un nuovo modo per produrre “energia pulita”, si esplorano Marte e la Luna per capire se questi pianeti potranno darci in futuro risorse naturali a noi indispensabili per limitare gli stress alla nostra Terra. Ma siamo ancora molto lontani da qualsiasi risultato concreto. La parola magica è “sostenibilità”, ma le parole da sole non bastano. “Ci vuole una visione nuova che metta insieme tutti i pezzi, dall'acqua, all'aria alla biosfera, con tutte le conoscenze scientifiche nei vari settori, in modo da avere uno spazio operativo sicuro che tiene conto delle risorse del pianeta”, esorta Bologna. “Ci vuole una vera e propria rivoluzione, un grande mutamento di opinione, un long life learning che cambi il modo di stare al mondo”, incalza Cattaneo. “Ma al momento la situazione è ferma”.
Inutile anche credere che le scelte individuali di responsabilità e consapevolezza possano davvero servire a qualcosa. Certo, possiamo scegliere di consumare meno carne, o, meglio ancora, ridurre la cementificazione del territorio, risparmiando sabbia e ghiaia, ma sarà come cercare di vuotare il mare con un cucchiaio. “In 120 anni la popolazione è quintuplicata: questo è un problema reale da affrontare. C'è poco da fare, 8 miliardi di abitanti con uno standard di vita di un certo tipo non hanno posto sulla Terra”, insiste il direttore del National Geographic. “Un controllo delle nascite per un paio di generazioni, naturalmente senza scelte autoritarie, comporterebbe una decrescita consapevole che credo aiuterebbe molto”.
Ma c'è anche qualcosa che ognuno di noi può davvero fare tutti giorni: ridurre l'uso della plastica usa e getta. Lo tsunami di questi rifiuti che si riversa nei mari sta già producendo risultati da brivido, tanto che persino nella fossa delle Marianne, a 6000 metri di profondità, è stato trovato un piccolo crostaceo, l'Eurythenes plasticus, che nel suo organismo già contiene nanoplastiche. E nanoplastiche già sarebbero state trovate, ahimè, persino nel sangue umano. “Il problema della plastica è che in alcuni casi ha bisogno di 400 o 500 anni per degradarsi. Ciò significa che se Galileo avesse gettato un pezzo di plastica in Arno, questo ci sarebbe sempre....”, spiega Cattaneo. Non facciamo, però, di ogni erba un fascio. Con la plastica si fanno anche le valvole per il cuore, le carlinghe degli aerei e molti altri strumenti indispensabili. Ma la plastica contenuta negli indumenti di poliestere o negli scrub dei trattamenti estetici possiamo evitarla, così come le plastiche usa e getta dei sacchetti dei rifiuti e delle bottiglie dell'acqua. Almeno proviamoci.