Nella sala riunioni, all’ultimo piano della Jin Mao Tower, quel pomeriggio, non volava una mosca. Fino a pochi minuti prima, i manager, convenuti da tutte le parti del mondo, avevano parlato, descrivendo con rigore e puntigliosità lo stato delle aziende al capo supremo. Lui aveva ascoltato in silenzio, annuendo di tanto in tanto. Per tutti, anche per i padroni di casa cinesi, la presenza del grande Yang Wei, era un evento. Per le delegazioni straniere in particolare, si trattava di un’esperienza incredibile, alla stregua di una apparizione mistica. Yang Wei, infatti, appariva in pubblico molto di rado e ciò aveva alimentato un’aura leggendaria intorno a lui. Partendo da zero, in pochi anni, Yang Wei aveva creato un vero impero. E quel giorno, la sua decisione, inappellabile, rischiava di cambiare il destino di milioni di persone. Anche le quattro hostess preposte al servizio di thè caldo sembravano essere consapevoli di questo: immobili come statue attendevano sull’attenti il responso solenne.
Yang Wei, improvvisamente, si era alzato in piedi e per un istante era parso volesse raggiungere le donne. Invece, con gran sorpresa di tutti, si era bloccato a metà strada ed era rimasto fermo di fronte alle immense finestre della sala come incantato dallo scenario spettacolare della metropoli ai suoi piedi. Chi osò alzare lo sguardo in quell’attimo giurò di averlo visto guardare lontano, verso un punto indistinto dell’orizzonte. Nessuno invece seppe mai che Yang Wei in realtà aveva visto qualcosa in basso, in direzione di un vecchio palazzo. La sua attenzione era stata catturata da una minuscola figura che si muoveva sul terrazzo dello stabile di fronte: una donna intenta a stendere il bucato. Quella visione fugace fu per Yang Wei una folgorazione, che contribuì ad accendere la memoria dell’anziano magnate, riportandolo a un tempo immemorabilmente lontano, a quando, da bambino, aiutava la madre nelle faccende di casa. Il padre a quell’epoca non c’era già più, partito soldato, era stato inghiottito dalla guerra in Manciuria e il piccolo Yang Wei, era rimasto con lei. Da quella visione lucida avevano cominciato a giungere gli echi di risate, anche alcune parole sparse e Yang Wei, nell’udirle, riconobbe la voce della madre.
-Due è sempre meglio di una.
Aveva detto la donna rivolgendosi al figlio. Si riferiva alle mollette da usare nell’appendere la biancheria. Yang Wei, assorto nei suoi ricordi, farfugliò sovrappensiero quelle parole… poi le ripeté con più decisione e qualcuno tra i suoi collaboratori presenti in quel momento le captò e subito le trasmise agli altri. La sala cominciò ad animarsi, l’eccitazione si fece palpabile. Quando Yang Wei si voltò e annunciò ai presenti che “Due è sempre meglio di una” si udì un mormorio di approvazione generale e tutti poterono finalmente rilassarsi iniziando a sorridere e a muovere i propri corpi, seppur in modo scoordinato e disarmonico, poiché gesti euforici più espressivi e liberi non erano permessi.
Nello stesso istante in cui Yang Wei comunicava la sua visione strategica ai fidati collaboratori, a migliaia di chilometri di distanza, mio padre, faceva scivolare nel lavello della cucina quattro grossi sgombri freschi. Anche quella volta, come in tutte le altre occasioni, nell’atto di acquistare i pesci, aveva chiesto che non venissero eviscerati. Questo gli avrebbe permesso più tardi di maneggiarli nell’acqua integri, stare di più con loro e creare per qualche minuto, con la scusa della preparazione del pranzo, una piccola ambientazione marina.
Per lungo tempo non mi sono chiesto se e quale significato avesse quella pratica, mi divertiva guardarlo e basta. Poi, crescendo e ricostruendo la storia di mio padre, ho cominciato a chiedermi come potesse un individuo nato e cresciuto in una città di mare sopravvivere in un luogo dell’entroterra, con pianure e montagne e mai una linea blu all’orizzonte e ho capito che forse anche quel gioco con i pesci faceva parte di una lunga serie di rituali che lui aveva creato per sopravvivere. Per questo non era la prospettiva di un piatto di sgombri al forno - ottimi anche alla griglia, alla mediterranea, con aglio, olio, pomodori e prezzemolo – a rendere mio padre così giulivo, c’era ben altro e questo “altro” non era neppure veramente legato ai pesci ma ancora prima sembrava ricollegabile all’acqua, allo scintillio dell’acqua, al suo suono, alla sensazione corporea delle mani nell’acqua o forse da tutte queste cose insieme. Si trattava quindi di una sorta di drammatizzazione inconscia, necessaria. La creazione di un microcosmo emotivo-sentimentale nella costante ricerca di un centro di gravità stabile.
Ma c’era anche altro.
Mi sono reso conto all’improvviso di quanto le scelte nella sua vita siano state influenzate dalla mancanza del mare, come i mobili in mogano, lunghi e bassi, che per lungo tempo ho visto in soggiorno e che ora parevano testimoniare la sua ricerca delle linee orizzontali, come anche quella sua abitudine di sottolineare le parole scritte, il gusto per le mappe antiche incorniciate e appese in ogni dove in casa, la creazione con la voce di suoni inusuali come la sirena delle navi in attesa di attracco, l’interesse costante per lo stato del vento. E una misteriosa irrequietezza ad ogni partenza e a ogni arrivo. Come abbia fatto a resistere non so. Forse esiste in ognuno di noi una possibilità sconosciuta di adattarsi a qualunque cambiamento, anche il più estremo o forse questa capacità è solo prerogativa di pochi.
Come ogni anno arrivava l’estate e con la bella stagione tornava la possibilità di rivedere il mare. Crescendo, ho imparato a osservarlo mio padre, quando arrivava il momento di partire. Quante volte l’ho perdonato per i traghetti perduti perché lui, nei porti diventava un altro, posseduto da un ordine al quale non poteva sottrarsi, vagava tra marinai e pescatori, parlava con navigatori in partenza, osservava le navi impegnate nelle loro manovre.
-Al mare, non c’è tempo di annoiarsi - diceva. E si smarriva.
Crollato in poltrona dopo il lauto pranzo, con le mani che sapevano di pesce - guai chiedergli di lavarle! - mio padre non poteva sapere che a una manciata di chilometri più a Ovest altre mani - le mani di Leo - stavano completando un’ultima otturazione. Dal giorno seguente Leo non avrebbe più fatto il dentista, bensì l’artista. Anche il suo ultimo cliente, l’avvocato Trompetto, benché onorato di essere curato dalle mani del titolare dello studio anziché da un suo assistente, aveva affettuosamente convenuto che: “Meglio un mediocre artista felice che un acclamato dentista scoglionato”. Era la verità. E ne avevano riso insieme.
La decisione pareva estemporanea in verità il processo era iniziato molto prima. Era da tempo che Leo si era distaccato dal suo lavoro. Suo padre l’aveva voluto dentista e così lui aveva fatto con suo figlio. Nello studio oltre a lui e al figlio lavorava anche Ninetta, moglie devota e donna operosa. Era sempre stata lei a far andare avanti lo studio. Per questo forse, nel notare il crescente disinteresse di Leo per il mondo dei denti, non si era preoccupata granché, anzi, aveva subito cercato di assecondare il marito nella ricerca della nuova strada. Che, va detto, all’inizio risultava tutt’altro che chiara. C’erano giorni in cui Leo trascorreva le sue ore nel laboratorio di ortodonzia a mescolare impasti colorati per poi stenderli su carta. Altre volte polverizzava i frammenti d’oro provenienti dalla lavorazione delle protesi su grossi fogli neri per poi fissarli con colle a spruzzo e subito contornarne le forme fantastiche. Ma la scelta di proseguire in quella esplorazione andò avanti, a braccetto con una crescente necessità di solitudine e ascolto. Ciò lo portò ben presto a rifuggire molte abitudini acquisite in quegli anni, tra le quali la compagnia dei soliti amici – quasi tutti colleghi dentisti – con cui aveva fino a poco tempo prima condiviso soprattutto l’oziosa ricerca di ristoranti stellati e la frequentazione di luoghi di vacanza esclusivi. Ora invece, quando non era in studio a trafficare con i suoi dipinti, Leo aveva preso l’abitudine di guidare fuori città fino a uno svincolo autostradale. Là il gradevole paesaggio collinare della città lasciava il posto a un’immensa piana desolata. Lungo un rettilineo asfaltato spiccava una stazione di rifornimento di carburante e un piccolo chiosco-bar che fungeva anche da negozio alimentare e giornalaio. Leo amava da pazzi quel posto anche perché la figlia della proprietaria assomigliava in modo incredibile a una ragazza che lui aveva molto amato da giovane, una certa Maja, una croata. Oh sì, se la ricordava bene la sua Maja con quel suo sguardo selvatico e le ascelle villose che lo erotizzavano ma che non piacevano a sua madre – solo le donne di basso ceto non si depilano, aveva sentenziato – insieme al suo curioso passo marziale che forse era retaggio genetico delle parate giovanili dei tempi di Tito e che a lui, soprattutto all’inizio, metteva di buon umore. Ma anche su quello la madre aveva avuto da dire raccontando al figlio i tragici eventi delle foibe e il calvario di alcuni parenti istriani costretti a scappare per sfuggire alla furia degli slavi. “La ferita è ancora fresca” - diceva. Ammettendo subito dopo che quella piccola croata in casa, con il suo passo militaresco e le ascelle villose, non le era mai piaciuta.
-Perchè non ti trovi una ragazza piemontese, una di queste parti?
Aveva cominciato a suggerire con insistenza la madre.
-La Ninetta, per esempio, non ti piace? È una così brava ragazza.
-I genitori sono bravi cristiani – aveva chiosato il padre, improvvisandosi violin di spalla della madre.
E lui, non molto tempo dopo, aveva seguito il loro consiglio e con una scusa tanto pietosa da doverla subito rimuovere dalla mente, aveva lasciato Maja e si era fidanzato con la donna che sarebbe poi diventata moglie e madre di suo figlio. Immerso in quei ricordi lontani Leo, nel negozietto vicino allo svincolo autostradale, ripeteva sempre gli stessi gesti, acquistava una copia del giornale – che non leggeva mai – e l’immancabile stecca di sigarette, che sarebbe durata una settimana. E poi si sedeva fuori, sopra ad una panchina e rimaneva lì in attesa. Se era giornata buona - le avvisaglie erano già riconoscibili lungo la strada - la catena montuosa all’orizzonte si polverizzava in una nebbia fitta lasciando libera la grande pianura che a quel punto acquistava in ampiezza e drammaticità. E là, in quello spazio sterminato, che a lui ricordava certe lande sud-americane, avveniva il miracolo: un cavallo dal mantello baio con in groppa un ragazzino faceva la sua comparsa sfrecciando al galoppo. Non succedeva sempre ma quando succedeva Leo avvertiva un particolare calore all’altezza del cuore e subito scivolava in un’altra dimensione. Là, in un riverbero di voci lontane, udiva i racconti del padre – racconti uditi decine di volte – e la descrizione dei giorni in cui, nel profondo Sud del Cile, il padre ragazzino si recava a scuola a cavallo. Le risonanze fortissime tra le immagini reali e quelle emergenti dal profondo procuravano a Leo una sensazione impagabilmente dolce, facendogli dimenticare i giorni vuoti e le inutili attese di fronte a quel paesaggio misterioso ed evocativo.
-Papà, sono qui! Sono diventato un pittore! - urlava Leo di fronte a quella vastità.
Seduto sulla panchina, seguendo con lo sguardo la figura del cavaliere farsi sempre più piccola, Leo restava in ascolto del suo batticuore, mentre la voce avrebbe voluto gridare ancora, urlare tutte in una volta le parole di riconoscenza e amore, che non aveva mai potuto pronunciare.