Voglio, avrò
se non qui,
in altro luogo che ancora non so.
Niente ho perduto.
Tutto sarò.(Fernando Pessoa, Voglio, avrò)
Abruzzo, 1927. Ernesto ha cinque anni, tra poco ne compirà sei. Insieme a lui, nella casetta diroccata tra le montagne teramane, vivono sua madre, suo padre e altri otto bambini, più grandi e più piccoli di lui. Il papà è muratore. Riesce ad ottenere solo piccoli lavoretti. A tavola, a colazione, a pranzo e a cena, sempre patate e qualche verdura. Rare volte la famiglia riesce a procurarsi altro cibo. La fame è tanta. Il freddo di più.
Ma c’è la mamma e c’è anche il papà. Ci sono i suoi fratelli. Se chiama la mamma, lei risponde. Quando ha paura, la notte, la mamma lo rassicura. Ernesto è solo un bambino ma i bambini, nel 1927, aiutavano a tirare avanti le famiglie. Il tasso di analfabetismo, in quegli anni, si aggirava intorno al 36%. La scuola per molti era un lusso da non potersi concedere anche perché le famiglie erano numerose.
I genitori di Ernesto sapevano che lì non c’era futuro per i loro figli. Quando il vicino di casa si presenta ad offrire un lavoro per Ernesto, la famiglia non dice di no anche se quel lavoro prevede affidare il figlio a quello sconosciuto e non rivederlo per molto tempo, forse anni. Ma loro sono sicuri: avrebbe avuto cibo e un posto in cui dormire. Il lavoro consiste nel badare alle pecore durante la transumanza, cioè lo spostamento del gregge dall’Appennino abruzzese alla campagna romana nella stagione autunnale. L’Abruzzo, da sempre terra di pastori erranti, ha nella transumanza, una parte importante della sua storia. Lo spostamento delle greggi ha segnato il territorio e la sua gente soprattutto sulla montagna ha aperto vie di comunicazione e di commercio.
Quando arriva il momento di partire i genitori di Ernesto si raccomandano al padrone. “Ti preghiamo, fai dormire Ernesto al coperto, non lasciarlo fuori”, insiste la mamma, “fallo stare sul carretto, non farlo camminare a piedi per tutto il tempo. È piccolo”, aggiunge tra le lacrime di disperazione e speranza, allungando le mani verso quel figlio che non rivedrà mai più. Il padre lo mette sul carretto. La madre segue suo figlio fino al confine del paese. Lo saluta con la mano, un ultimo bacio e un ultimo abbraccio. “Ciao Ernesto.”
Ma il padrone non è stato di parola. Girata la curva, fa scendere Ernesto dal carretto perché, secondo lui, pesa troppo: cinque anni e qualche ossa in vista. Il bambino obbedisce e per tutta la transumanza cammina a piedi, scalzo, fino alla campagna romana. La notte per lui non c’è giaciglio al coperto e al caldo. C’è la luna, quando il cielo è terso sulle montagne, ma c’è anche il vento gelido che sferza il viso. C’è la paura inesorabile che lo attanaglia ogni maledetta notte di quel viaggio terribile. Lui dorme fuori. Lo lascia lì, il padrone, dopo che Ernesto durante il giorno ha badato alle pecore. Anche il cibo è poco, molte volte niente. Mangia insieme alle pecore. Chiama la mamma Ernesto, l’unica cosa che gli resta da fare. Una sera, mentre vagava nel bosco vicino alla stalla, la sua fame diventa atroce. Il freddo lo punge nelle ossa. Invoca la mamma. Nella sua mente ricostruisce il ricordo di quel volto. E allora vede arrivare dal bosco una signora che indossa un mantello e che gli porge del cibo. Il bambino si gira ma la signora scompare così com’è apparsa. Quella visione gli terrà compagnia per molto tempo nelle notti più difficili della sua vita.
Giunti nella campagna romana e sistemato il bestiame, il padrone decide che è arrivato il momento di liberarsi di Ernesto. Lo porta nel paese vicino. Lo trascina fino al bar in piazza. Lì, un signore pulito e vestito a dovere, si avvicina al padrone chiedendogli come mai il bambino sia così sporco e mal nutrito. Lui alza le spalle e non dà spiegazioni. Il destino, a volte, sembra aspettare il momento giusto. L’uomo prende con sé il bambino, lo porta a casa dove l’aspettano la moglie e gli altri due figli. La donna, guardato attentamente il bambino, ammutolisce: non ha mai visto un bimbo in quelle condizioni. Prende una tinozza, la riempie d’acqua calda. Ci mette dentro Ernesto. Lo lava accuratamente, lo riempie di premura e di sapone. Lo asciuga, lo veste e lo mette a letto. Ernesto dorme per una notte e un giorno senza sosta. Non ha avuto neanche voglia di mangiare. Tutta la stanchezza, tutto il dolore di quelle notti si sciolgono in quel letto caldo, in una casa vera.
La sua nuova vita prevede ancora il lavoro con gli animali ma anche la scuola, finalmente. I vestiti sono nuovi e puliti. Usciva insieme ai fratellastri. Mangia ad una tavola. Dorme al caldo. È responsabile, quando ha degli orari da rispettare non tarda mai. È riconoscente. Chiede una bici, gliela regalano. Con quella stessa bici e con un vestito nuovo percorre tutta la campagna romana seguendo al contrario la strada che lo aveva portato lì alla ricerca della sua famiglia d’origine. Ha sentito che in un rifugio sono arrivate delle greggi dall’Abruzzo, dalla montagna teramana. Spera con tutto il cuore che tra i pastori ci siano anche i suoi fratelli o le sue sorelle. Si ricorda in particolare di Pasquina. Giunto al casale, vede fuori vicino alla fontana delle ragazze impegnate a lavare panni. Si avvicina e chiede se tra di loro ce n’è una di nome Pasquina. La donna che ha di fronte è poco più che adolescente. Lo guarda negli occhi. Non lo riconosce subito ma dice: “Io sono Pasquina”. “E io sono Ernesto”. Pasquina non può credere ai suoi occhi. Lo abbraccia. Piangono insieme per la morte della mamma avvenuta per le complicanze di un parto qualche anno prima. Dormono nella stalla abbracciati per le notti successive. Alcuni giorni dopo si separano. Ernesto torna dalla sua famiglia adottiva e Pasquina continua la transumanza con la promessa che presto si sarebbero rivisti.
I diciassette anni aprono un altro capitolo nella storia di Ernesto. Giunge per lui, come per tutti i ragazzi italiani, la chiamata alle armi. La Seconda guerra mondiale aspettava il sacrificio di milioni di giovani vite. Ernesto torna al suo paese natale per recuperare i documenti necessari alla partenza. Lì rivede suo padre e la sua famiglia d’origine. Lascia loro i vestiti buoni e i soldi che i genitori adottivi avevano messo da parte per lui. Intanto conosce Anna, la donna della sua vita. Anna ha 16 anni. Il padre vuole farla sposare con uno molto più vecchio di lei ma che possiede un gregge numeroso. La figlia, però, si rifiuta, fa di tutto per far accettare al padre la proposta di Ernesto. Sono innamorati, giovani e felici nonostante la guerra alla porta. Ernesto viene arruolato nel glorioso gruppo degli alpini della Brigata Julia che venne inviata in Russia. Rientrò decimata in Italia nel 1943. Morirono in centinaia: di guerra, di stenti e di freddo. Mandati al fronte senza nulla, se non il loro coraggio. Molti non tornarono neanche morti, rimasti lì, sepolti nella neve.
Ernesto torna. Una cannonata che spezza la sua giovinezza gli salva la vita. Il colpo dritto in pancia compromette alcune funzioni importanti. Lo operano nell’ospedale da campo allestito al fronte. Non riprende mai conoscenza. Si risveglia nell’ospedale di Iesi, pesa 36 chili. Lo vanno a trovare i suoi genitori adottivi riempiendo la sua stanza di ogni ben di Dio. Portano con loro anche una ragazza che voleva sposarlo ma per lui c’era solo Anna. Dopo una lunga convalescenza torna al suo paese natio, nella montagna teramana. Lì si unisce ai partigiani, lascia di nuovo la casa e Anna e, insieme ai due fratelli di lei e al padre, si nasconde e lotta nelle montagne. Anna portava loro da mangiare. I tedeschi arrivarono in paese a chiedere conto dei ragazzi che non si erano arruolati nel loro esercito. Cercano i partigiani, sulle montagne. Una sera si presentano alla porta della casa di Anna, vogliono sapere dove sono gli uomini della sua famiglia. Il nonno viene percosso ma non tradisce. Si limita a dire che non sapeva dove fossero. I tedeschi allora prendono Anna e la portano in piazza minacciandola di morte per ottenere una confessione. Il maestro del paese, diventato capo della zona, si oppone a quello sconfinamento perpetrato dai tedeschi nel suo territorio. Li caccia e salva Anna dalla fucilazione.
Finita la guerra, Anna e Ernesto iniziano la loro vita da coppia sposata. Hanno una bambina. Intorno a loro continuano a morire fratelli e amici. Ernesto si ammala. All’inizio non si capisce bene cosa abbia, ma il medico del paese attribuisce la causa del malessere alla ferita di guerra e agli organi compromessi. Ernesto ha infatti contratto il diabete in una forma seria. Inizia il difficile cammino di cura. Per i due sposi non è facile andare avanti ma la loro vita prosegue anche grazie all’impegno di Ernesto a cercare un lavoro e alla forza di Anna, capace di affrontare le avversità. Ernesto si mette a studiare e vince un concorso per l’impiego di guardia comunale. Lo stipendio mensile permette loro di vivere tranquillamente e di poter avere altri figli. Morirà a 70 anni, dopo una vita conquistata minuto per minuto e guidata da una forza e da un coraggio appresi a 5 anni nella solitudine delle fredde notti montane.
Nota dell’autore: la storia di Ernesto, di Anna e della loro vita è vera, raccontata a chi scrive dalla figlia Erminia.