Nel Castello dei destini incrociati di Italo Calvino, il protagonista, dopo aver attraversato un anonimo bosco, raggiunge, come altri viandanti prima di lui, il misterioso castello che sta al suo centro e che non può che evocare la leggendaria dimora del Re pescatore, malato di una ferita alla coscia. Il prezzo da pagare che il bosco ha chiesto a tutti i presenti per il suo attraversamento è il linguaggio verbale. Ai commensali non resta infatti che esprimersi a gesti e leggere il destino attraverso le immagini simboliche dei tarocchi.
Non è un caso che Calvino, fine conoscitore di simbologia, abbia scelto il bosco per generare nei personaggi il silenzio in previsione di un racconto per gesti e per immagini simboliche. Il bosco, infatti, sul piano degli archetipi, corrisponde all’inconscio e ha un suo preciso corrispettivo nelle acque del mare.
In realtà, non bisognerebbe mai svelare i miti. Il divieto è già contenuto nel loro nome. La radice greca del verbo myō, “sono chiuso”, “sto in silenzio”, da cui la parola mythos (mito), è condivisa dalla parola ebraica mi con cui si intendono le misteriose e invisibili acque del Cielo contrapposte alle più prossime e visibili acque della Terra, il ma’.
Il significato del mito risiede pertanto nelle nozze tra i due, mi e ma’, mito e sua articolazione, in quello slancio - o simbolo - che è il loro abbraccio magnetico e che, come tale, deve restare: un gesto muto, cioè appunto un mito. In gioco, però, come si potrebbe ingenuamente credere, non ci sono solo oziose questioni di ermeneutica o pedanti ossessioni da letterati. La natura del linguaggio verbale, e in particolare del linguaggio che nasce come atto di “separare” il significato dal significante, il mi dal ma’, pare infatti affondare le sue radici nelle più remote concezioni della medicina arcaica, da sempre fuse nel macro-corpo delle credenze religiose e dei suoi riti.
Probabilmente per questo il dio egizio Arpocrate, dio invocato contro i morsi dei serpenti, è un bambino che pone l’indice della sua mano sulla bocca a suggerire il silenzio. Il suo gesto, il signum harpocraticum, è stato assunto nei secoli come monito non solo a non rivelare il mistero, ma anche a non esprimere con parole imperfette quanto di fatto per sua natura è inenarrabile.
Spesso seduto su un fiore di loto che ricorda le manifestazioni del Buddha, il dio invita ad un Silenzio che deve sgorgare come un prodigio. Adornato con lo pschent, la mitria che nella foggia evoca dichiaratamente un pesce, talvolta reca in mano una faretra, la potenzialità muta e assorta di tutte le frecce che escono dal suo grembo.
Presso il suo santuario, a detta di Plutarco, la gente depone voti proferendo ad alta voce la verità per cui “la lingua è destino, la lingua è potere divino”. Figlio di un parto prematuro di Iside, egli è “immaturo ed inarticolato” come il silenzio che precede il linguaggio e che ignora le divisioni della sintassi.
Com’è noto, la potenza del linguaggio verbale è stata riconosciuta in seno alle culture antiche come capacità demiurgica del fare e del disfare in senso prepotentemente fisico. Il nomen è omen, destino, perché esso replica con il potere del suono e del suo significato le forze invisibili con cui si muove la ruota degli eventi.
Un pesce è il simbolo muto con cui i primi cristiani cifravano l’ineffabile natura del Cristo. Egli infatti aveva ammonito a non curarsi della contaminazione che entra nel corpo tramite il cibo, ma piuttosto di quella che si produce facendo uscire dal corpo la parola. Essa, infatti, è per lo più giudizio, separazione, scelta provvisoria e supponente di un lato della realtà che viene separato dal suo rovescio e che può far allontanare l’uomo dall’Unità, infrangendone l’armonia fisica e psichica. A meno che essa non sia “parabola”: analogia, figura, favola. Cristo nelle rappresentazioni dei primi cristiani è effigiato come un pesce e per il medioevo Egli è il Dottore per eccellenza.
Già il medio-oriente caldeo e babilonese aveva conosciuto sacerdoti che nei riti di medicina si vestivano come pesci. Il pesce, si sa, è muto. Secondo il sentire antico, esso vive assorto nella purezza e nella potenzialità di una realtà che non conosce separazione e divisione. Esso è una cosa sola con l’Acqua ed è probabilmente per questo che si è “sani come un pesce”, perché la sanità è salute in quanto è interezza e integrità. “Sano”, infatti, vuol dire anche “intero”.
Dell’essere uno con la propria origine, come il pesce nell’acqua, è quindi testimone il caduceo di Hermes, declinazione su tema del bastone di Asclepio, dio della medicina. Le due forze della natura rappresentate dai due serpenti che si affrontano in una tensione dinamica per riavvolgersi sempre attorno all’Uno ammoniscono a non cadere nella dualità del giudizio per non spezzare l’armonia del corpo e della mente. Bisogna tacere, dicono, chiusi alla maniera di Hermes. Bisogna cioè essere ermetici.
Dante, per parafrasare la sensazione sovrumana ch’egli prova guardando negli occhi di Beatrice, sceglie l’immagine mitica della metamorfosi del pescatore Glauco. Questi, scoperta un’erba curativa che fa rivivere i pesci, ne mangia e diviene egli stesso un dio-pesce. Come lui Dante si sente mutare dall’interno in una creatura marina divenendo addirittura “consorto in mar degli altri dèi”.
Nel Castello dei destini incrociati, la “forza” di Parsifal, eroe della leggenda che manca di guarire il Re pescatore prima di fargli la “domanda” è, nelle parole di Calvino, “d’essere così nuovo al mondo e così occupato dal fatto di essere al mondo che non gli viene mai in mente di far domande su ciò che vede”. Nella leggenda egli guarirà il Re pescatore solo dopo che il suo Silenzio, come fa un grembo gravido di compassione, avrà partorito la giusta domanda sulla malattia del Re. Come una freccia da una faretra.
Del Silenzio ermetico di Arpocrate è infine simbolo la pesca, che qualche cosa ha certo a che vedere cabalisticamente con il pesce. Essa ha la forma di un cuore, ci dice Plutarco, mentre la sua foglia è chiaramente una lingua. Come il Pesce assorto nell’Acqua della sua origine, essa ci invita, se ben ascoltiamo, a parlare sì, ma solo dopo che lo ha deciso il cuore. Le parole, infatti, possono essere d’argento, ma il silenzio è d’oro.