Il giorno 12 di questo mese di febbraio del 2022 si apre la Mostra intitolata Mutamenti presso la Galleria Il Fondaco di Bra (Cuneo) diretta da Silvana Peira.
Tre gli artisti: Astrid Fremin scultrice, Lucio Maria Morra pittore, Giorgio Racca fotografo, che, con i loro diversi linguaggi, si esprimeranno attorno ad un unico tema ovvero “Il libro dei mutamenti”, più noto come I Ching, un corpus di testi sapienziali e divinatori di origini antichissime da sempre utilizzato come oracolo attraverso la consultazione dei sessantaquattro esagrammi che lo compongono.
È stato con grata meraviglia che ho accolto la nascita di questa esposizione a più voci, e la meraviglia è un forte e bel sentimento che espande il campo visuale e spalanca lo sguardo, al contrario della paura che lo contrae così che gli occhi si fanno stretti come fessure dalle quali spiare le ragioni del nostro smarrimento.
La meraviglia è il miracolo dell’arte e con la meraviglia ho compreso l’importanza di questa trilogia ed ho accolto l’invito ad essere una quarta parte di quest’ opera, la parte che usa la parola come materia plasmabile.
Non è questo nostro un tempo di interezza, di sicuri approdi, di risonanze udibili che sappiano colmare d’armonia le separazioni e le lontananze che ci graffiano il cuore.
È piuttosto tempo di frammenti che non ritrovano il proprio tutto, di parti che cercano di ricreare forme che contengano il nostro “prima”, eppure sappiano sperimentare nuovi scenari, nuovi linguaggi emergenti dall’inquietudine della ragione, per accogliere il mistero, per inoltrarsi nell’oscurità che prelude alla scoperta, coraggiosa, della necessità d’immaginare un futuro.
L’individuo è una sorta di sé scomposto che induce a trovare spazi per l’intero: lacerato, diviso, confuso eppure depositario di una traccia di luce, di una nota che lo collega con i suoni cosmici.
Occorre un linguaggio che penetri nelle fessure della nostra coscienza e la illumini di attese.
Bisogna essere “capaci”, ovvero capienti, vuoti, così da accogliere la potente vibrazione che attraversa ogni frammento, poiché in ogni frammento passa la forza creatrice che è forza divina.
Con questa consapevolezza e con coraggio i tre artisti hanno scelto di percorrere quella della contiguità come via di superamento di una visione separata e separante, per recuperare la fiducia nel mutamento che avviene quando ci si lascia attraversare dal desiderio di non-separatezza, dalla speranza di ritrovarsi in un grembo capace di risvegliare l’originaria memoria dell’unità.
Un’espressione di generosità e di amorevolezza che travalica la singolarità del segno per dare alla luce un tutto, un insieme di linguaggi che si richiamano fino a diventare una lingua nella quale rappresentare il dolceamaro sentore di questo presente che cerca salvezza.
Con forza si percepisce l’esigenza di non essere soli ad immaginare un diverso modo di rapportarci alla vita, al mondo che ci spinge ineluttabilmente al cambiamento.
Non individui che si uniscono per esorcizzare il timore dell’isolamento bensì anime di carne che cercano e scambiano fili di vissuto per legarsi saldamente ad un percorso condiviso nel quale si incontrano parti che cercano di ricomporsi, di pronunciare la parola originaria, di vedere attraverso l’occhio interiore.
È la parola che attribuisce i nomi alle cose e si prende cura della loro verità, la parola che si fa capace di purezza, che si dona in un attimo fulmineo e infinito.
La parola che fa ritorno a se stessa per imparare a riconoscersi in un nuovo gesto d’amore.
La parola che può dare riposo, la parola che dispiega le sue ali per proteggere la nostra mente affaticata.
Parola rivelata che si mostra e poi subito si nasconde, si svela e poi di nuovo si vela.
Parti separate di diversa materia che si cercano nell’universo degli insiemi.
Parti che si connettono nella diversità, nella ricerca di un intero che sia frutto di consapevolezza e condivisione: parti che si ritrovano e si sfiorano nella fotografia, parti che si avvicinano e si uniscono nei materiali scultorei, parti che si toccano nell’incontro tra fondali pittorici e tessere sapienziali.
Corpo visuale, corpo tattile, corpo eterico attraversato dal segno divinante.
Tre strati di sostanza che si fondono a creare un documento nel quale più sensi sono coinvolti, diversi approcci percettivi: corpi ancestrali che si avvicinano, figure che si contorcono, esplodono o implodono alla ricerca di altre forme.
Immagini che si compongono in un mosaico di suggestioni colme di bellezza, di poesia.
Fondali misteriosi e cangianti che accolgono i segni potenti che aprono lo sguardo sul divenire del tempo e dello spazio.
La materia si sublima e si fa simbolo, segnale di vissuto, orma di sacro.
Sono parti che hanno bisogno di incontrarsi nell’intento comune di ricercare un’unità diversa nella gioia della condivisione.
È uno sguardo consolatorio, uno sguardo di stupore quando lasciamo che si dischiuda l’involucro della nostra soggettività per lasciar penetrare la forza che si esprime con il linguaggio amorevole della condivisione.
Attraverso la condivisione l’anima si apre la strada verso il suo scopo, verso il compimento del suo destino che è quello di tracciare un segno d’amore grazie al quale lingue differenti si parlino, si incontrino per far nascere il tessuto che accoglie, riscalda, guarisce, cura.
È l’assorbimento di cui parla il TAO: una condivisione di forza vitale che impregna le parti creando un tessuto di somiglianza, di identità spirituale, un coinvolgimento nell’evoluzione della vita, un bisogno di lasciarsi entrare nel processo naturale e di farsi assorbire.
Così la sequenza delle cose ci apparirà chiara come il sorgere del sole e della luna, e tutto sarà come dovrebbe.
Un’espressione artistica che si è sviluppata e consolidata grazie ad un lungo e complesso percorso che ha reso possibile una visione nella quale si fondono e si intrecciano arte e spiritualità.
Un incontro che è già contemplazione se contemplare è attingere a quel templum (il tèmenos dei Greci) che è lo spazio abbracciato dallo sguardo, ma anche lo spazio del cielo dal quale l’augure riceve gli auspici.
L’artista è il tramite di questa fusione: non arte che raffigura il sacro ma arte sacra nella sua capacità di smuovere gli animi, di toccare le corde del cuore che è lo scrigno nel quale l’unione rimane sigillata per sempre, poiché è lì che è depositata la memoria dell’unità.
Una visione taumaturgica che trova guarigione nell’interiorità che custodisce farmaco e antidoto per difendere il Bene.
Una sacralità che sa condurci al nostro interno, in interiore homine, là dove ogni risposta sta accovacciata in attesa di poter uscire dal proprio spazio oscuro per tornare ad illuminare il cammino del cercatore di stelle, del creatore di sogni, dello scopritore di mondi.
L’opera d’arte non deve lasciare traccia del Sé bensì recuperare il legame di intensità che la plasma attraverso il gesto della mano.
Quando l’artista perde se stesso nella sua arte, l’arte prende vita.
(Pir Vilayat Inayat Khan)
A cura di Save the Words®