La Libia è oggi uno dei Paesi più difficili da governare per la varietà di etnie e di sistemi tribali presenti. Una società fortemente tradizionale, dove è stato sottovalutato il potere rappresentato dalle tribù e la loro potenziale influenza sulla riappacificazione interna. La presenza dei giacimenti petroliferi, ubicati principalmente nel territorio di Nord-Ovest, di Sud-Ovest e in quello orientale, ha certamente contribuito a inasprire gli animi della popolazione suddivisa nelle tre grandi aree della Tripolitania, della Cirenaica e del Fezzan.
Come profetizzato da Muammar Gheddafi nell’ultima intervista italiana, rilasciata poco prima della sua morte, al quotidiano il Giornale il 15 marzo 2011 e richiamata su “giornale.it” del 17 febbraio 2015: “Se al posto di un governo stabile, che garantisce sicurezza, prendono il controllo queste bande legate a Bin Laden, gli africani si muoveranno in massa verso l'Europa. E il Mediterraneo diventerà un mare di caos”.
I risultati di questa profezia sono oggi sotto gli occhi di tutti.
Il miele ha attirato le mosche
I grandi giacimenti petroliferi e di gas naturale hanno attirato l’attenzione delle grandi potenze straniere che, oltre all’interesse economico, temevano che in Libia le continue tensioni interne potessero agevolare la crescita del potere dello Stato Islamico.
USA e Francia, considerati tra i maggiori Paesi che avevano partecipato alla liberazione della Libia dal regime dittatoriale, sono poi quasi scomparsi dalla scena libica, abbandonando il Paese al suo destino, dando così un segnale del fallimento della loro tanta proclamata missione. Hanno lasciato il Paese in mano ad una miriade di tribù governate con forte autonomia e autorità da leaders che non accetteranno facilmente di perdere questi loro requisiti atavici per entrare sotto il potere di un unico leader. È questo un grande problema che ha rappresentato e rappresenta ancora un forte ostacolo per una futura riunificazione nazionale. La situazione locale è poi aggravata dal fatto che il potere reale non è di fatto in mano solo ai contendenti locali, ma anche e forse soprattutto ai Paesi che hanno sostenuto l’una o l’altra parte della popolazione nelle continue guerre civili dell’ultimo decennio che, invece dell’unità, hanno portato il Paese ad una devastazione col rischio della bancarotta, pur possedendo ingenti riserve di petrolio.
La situazione libica, inoltre, è stata all’attenzione di tutto il mondo per gli atti di violenza che sono stati perpetrati nel recente decennio verso prigionieri, spesso attirati dai trafficanti di esseri umani.
La Libia è oggi sul punto di tentare il difficilissimo avvio verso la transizione democratica con le libere elezioni previste per il 24 dicembre 2021.
Per meglio comprendere le motivazioni che portano a indire le elezioni per il 24 dicembre è opportuno descrivere una sintesi dell’evoluzione politica che il Paese ha subito nel decennio post Primavera Araba, con alcuni riferimenti agli aspetti economici locali.
La Prima guerra civile libica
È iniziata il 17 febbraio 2011, tra le forze vicine a Muammar Gheddafi e quelle dei rivoltosi del Consiglio Nazionale di Transizione che fu costituito per guidare la rivoluzione, e si è conclusa il 20 ottobre 2014, dopo la caduta e uccisione di Gheddafi e la caduta del suo regime.
Successivamente la Libia è stata “governata” da milizie tribali sparse nel territorio, senza un vero governo centrale unitario rappresentativo di tutta la nazione.
La popolazione, dopo che il Paese era diventato un grande sostenitore del terrorismo internazionale, inneggiava ai risultati della primavera araba arrivati dopo 42 anni di dittatura (dal 1969 al 2011) e sembrava proprio che il Paese dovesse rinascere per raggiungere velocemente un regime di vera democrazia. Purtroppo, ipotizzare che, quasi per un evento magico, tutto ad un tratto le miriadi di tribù, atavicamente diffidenti tra loro, si potessero mettere assieme in piena armonia, è stata una vera chimera. La difficoltà di questa veloce transizione è stata aggravata dal fatto che già nel territorio si erano annidati ribelli e terroristi provenienti da diversi Paesi.
In realtà, dopo la costituzione del Consiglio Nazionale di Transizione, si sperava di portare a termine il programma i cui obiettivi principali erano di proseguire la rivoluzione fino alla liberazione dell'intera Libia dai territori caduti nelle mani dei ribelli e successivamente di organizzare libere elezioni con l’approvazione di una nuova costituzione.
Il nuovo Consiglio venne riconosciuto dalle Nazioni Unite, dall’Unione europea, dall’Unione Africana, dalla Lega Araba, dall’Organizzazione della cooperazione islamica, ecc., anche se sono stati registrati alcuni voti negativi.
Le prime elezioni libere
Dopo 43 anni in Libia, il 7 luglio 2012, ci sono state finalmente le prime elezioni libere con l’elezione dei membri del Congresso Generale Nazionale (GNC), che sostituì il Consiglio Nazionale di Transizione, con la vittoria dell’Alleanza delle Forze Nazionali (NFA), una forza politica considerata moderata, capeggiata dall’ex Primo Ministro Mahmoud Jibril e con la sconfitta del Partito Giustizia e Costruzione (JCP) vicino ai Fratelli Musulmani. La sconfitta fu ancora più pesante per i partiti più radicali rispetto all’JCP guidati dai leader delle milizie islamiste.
Le elezioni, a cui hanno partecipato un grandissimo numero di formazioni politiche, anche in ragione della frammentazione della popolazione in oltre 140 tribù, hanno pertanto prodotto un risultato molto eterogeneo dal punto di vista politico e la vittoria del partito più moderato è stata attribuita alla forte coalizione formata senza divisioni interne. Il risultato, ben differente da quello ottenuto in Tunisia e in Egitto, è stato comunque un segno di grande incoraggiamento, quasi un buon auspicio a continuare per il veloce raggiungimento di una vera democrazia.
Infatti, le elezioni hanno messo in luce la chiara volontà di fermare l’ondata islamista che invece si cominciava a registrare nei Paesi arabi della Primavera Araba. Purtroppo, l’entusiasmo fu di breve durata e le difficoltà si evidenziarono sin dal tentativo di formazione del nuovo governo, a causa di scelte poco opportune per la presenza di pochi membri del Parlamento vicini a Jebril e di deputati dell’area del Paese che aveva dimostrato maggiore ostilità alla dittatura di Gheddafi.
Dopo l’attacco dell’11 settembre 2012 al consolato statunitense a Bengasi, con l’uccisione dell'ambasciatore americano in Libia e di altre tre persone, il Congresso Nazionale Generale (GNC) il 14 ottobre 2012 elesse Ali Zeidan come Primo Ministro. Un uomo ben conosciuto, ex membro del GNC e avvocato in difesa dei diritti umani, che si dimise l’11 marzo del 2014 e fu sostituito da Abdullah al-Thani, colonnello e uomo di Stato libico, che assunse la carica di Primo Ministro a titolo provvisorio, poi confermato con l’lezione del giugno 2014.
Il 14 febbraio 2014 entra in scena un altro importante personaggio: il generale Khalifa Belqasim Haftar, già vicino a Gheddafi, che, forte di un consenso di buona parte della Cirenaica, chiede la dissoluzione del Congresso Nazionale Generale e la formazione di un nuovo governo ad interim per andare subito a nuove elezioni.
La Seconda guerra civile
La Seconda guerra civile inizia il 16 maggio 2014, quando il generale Khalifa Belqasim Haftar lancia un attacco alle milizie islamiche in Cirenaica, territorio dove è forte la sua presenza, acquisendo così un maggiore potere contrattuale e il 18 maggio, senza l’autorizzazione del governo centrale, occupa il palazzo del Parlamento di Tripoli con soldati a lui fedeli.
Con le elezioni del 26 giugno 2014 c’è stata la sconfitta degli islamisti, che erano prevalenti nel precedente parlamento, e l'affermazione dei candidati liberali e federalisti. Il nuovo Parlamento invece di riunirsi a Bengasi, secondo le nuove disposizioni elettorali, si riunì a Tobruk ritenuta città più sicura poiché sotto il controllo di Haftar. Tale paura fu confermata alcuni giorni dopo, il 30 luglio, quando una delle milizie islamiche occupò Bengasi proclamando l’Emirato Islamico.
Questo stato di confusione generale fece finalmente muovere nel 2015 la comunità internazionale per la promozione di un governo unitario e ciò ufficialmente per arginare il terrorismo e l’emigrazione, di fatto perché c’era anche la necessità di riportare la Libia ad una riorganizzazione e ad una migliore gestione delle proprie risorse petrolifere.
Dopo un incontro ufficiale in Marocco, con la partecipazione dell’ONU, venne indicato Fayez Al-Sarrāj, architetto e urbanista di una importante famiglia libica, per l’incarico di Primo Ministro del nuovo governo libico, riconosciuto all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Venne così formato il Governo di Accordo Nazionale (GNA). Tale decisione non venne però accettata da Haftar e il nuovo governo non riuscì ad ottenere la fiducia dei deputati della Camera dei Rappresentanti, di Tobruch, che da quel momento, sotto il controllo di Haftar a capo dell’Esercito Nazionale Libico (LNA), sarà in aperta competizione col Governo di Tripoli.
I due governi
Di fatto, dal 2015 e fino al 2019 in Libia sono coesistiti due governi con due eserciti che spesso si fronteggiavano.
A Tripoli per la Tripolitania, nel territorio che racchiude la zona ovest del Paese lungo il Mediterraneo, dal confine con la Tunisia, fino alla fine del Golfo della Sirte, ha sede il Governo di Accordo Nazionale (GNA) riconosciuto dall’ONU e presieduto da Muṣṭafā al-Sarrāj.
A Tobruk per la Cirenaica, nel territorio che racchiude la fascia orientale della Libia, lungo il confine con l'Egitto, dal mar Mediterraneo, al confine con il Sudan e il Ciad, ha sede il Governo della Camera dei Rappresentanti di Tobruk appoggiata da numerose potenze regionali e internazionali e guidata da Khalifa Haftar, uomo con un forte potere in Cirenaica.
Stranamente si parla dei governi dei due citati territori e non si menziona un’altra area fortemente strategica della Libia che è il Fezzan, che occupa la parte sahariana a sud della Tripolitania, dal confine con l'Algeria fino alla Cirenaica lungo il confine con Niger e Ciad. Un territorio apparentemente isolato dal resto dei territori libici, dove sono ubicati una parte dei giacimenti petroliferi, abitato principalmente dai gruppi etnici formati soprattutto da tebu e tuareg, tra le cui tribù viveva anche il colonnello Gheddafi.
I tuareg si trovano principalmente nell’estremo Ovest del Fezzan, lungo la frontiera algerina. I Tebu nella zona centrale ed orientale in prossimità della linea di confine tra Ciad e Libia.
La Seconda guerra civile libica si poté definire conclusa il 23 ottobre 2020, quando la Commissione Militare Libica Congiunta, che rappresenta i due governi rivali, ha raggiunto un accordo permanente per cessare il fuoco su tutte le aree della Libia, entrato subito in vigore.
Nel febbraio del 2021, a seguito di un incontro a Ginevra organizzato dall’ONU sul problema libico, è stato sancito l’accordo, con la presenza di un folto numero di rappresentanti libici, di formare un governo di transizione per traghettare il Paese verso le prossime elezioni fissate per il 24 dicembre 2021, data già concordata con la Conferenza di Parigi.
I principali sostenitori dei due governi
In un caos generale così grande non era difficile ipotizzare che alcune potenze straniere si avvicinassero a gruppi e a etnie diverse per potere avere “un posto a tavola” per la spartizione delle ingenti risorse petrolifere e per una maggiore attenzione agli aspetti del terrorismo locale.
Troviamo oggi la presenza di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Turchia, Russia, ecc. che si sono schierati con l’uno o con l’altro governo. Si sono trovati assieme in questa operazione anche Paesi che hanno sempre manifestato una forte diffidenza ad avere comuni rapporti di collaborazione. Inoltre, è opportuno evidenziare che i diversi Paesi non si stanno certamente muovendo solo per motivi economici, ma anche per aumentare la propria influenza nella politica mediterranea.
Le tensioni tra i due governi in questi anni sono state elevatissime e solo con l’intervento turco a favore del Governo di Accordo Nazionale di Tripoli si è evitata la vittoria di Haftar su Sarrāj, quando nell’aprile del 2019 marciò per la conquista di Tripoli.
Inoltre, non tutti i Paesi sono usciti allo scoperto in forma diretta nella guerra civile; infatti, c’è stata la presenza di mercenari russi nei conflitti locali a favore di Haftar, e, nello stesso tempo, alcuni Paesi hanno dato segnali di stanchezza per la prosecuzione di questa continua rivalità tran i due governi.
La ripartizione più visibile delle influenze straniere è stata principalmente la seguente: Russia, Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti hanno dato il loro appoggio al governo di Haftar, mentre USA, Francia, Italia, Turchia e Qatar hanno sostenuto il governo di Sarrāj.
Aspetti economici
La profonda crisi economica, che nel decennio ha caratterizzato il Paese, certamente non è stata dovuta alla mancanza delle risorse naturali presenti, ma solo alla totale assenza di gestione da parte di un governo condiviso dalle molteplici popolazioni tribali sparse nel territorio.
Anche in Libia l’aspetto economico che mina la sopravvivenza degli abitanti, pur avendo il Paese grandi risorse petrolifere, è certamente la motivazione principale che ha mosso le grandi potenze mondiali a schierarsi con l’uno o con l’atro dei governi sopracitati che si sono costituiti.
Infatti, a fronte di 6.871.287 abitanti del 2018, la Libia ha una riserva di petrolio accertata per il 2019 pari al 2,8% delle riserve mondiali totali attualmente verificate, come riportato in Statistical Review of World Energy 2020, 69th editional. Risultando così, per riserva petrolifera accertata, la 10a nazione a livello mondiale e la prima tra tutti i Paesi africani produttori di petrolio.
La produzione di petrolio della Libya ha avuto nell’ultimo decennio il seguente andamento in milioni di tonnellate: 81.7 (2009), 84.67 (2010), 24.37 (2011), 72.67 (2012), 49.47 (2013), 24.47 (2014), 20.57 (2015), 19.37 (2016), 43.87 (2017), 54.97 (2018), 57.8 (2019).
Pur col forte calo di produzione nel periodo dopo la Primavera Araba, la Libia ha sempre avuto una produzione di barili/giorno sempre elevata in rapporto al proprio numero di abitanti.
Dai risultati riportati dal Centro Studi Confindustria (CSC) del 6 agosto 2019 risulta che la guerra in Libia ha comportato danni enormi al Paese e ai Paesi con cui intratteneva relazioni commerciali. Da qui è emersa la necessità di avviare un piano straordinario di sviluppo di investimenti mobilitando le istituzioni internazionali, specie europee e statunitensi.
In particolare, è opportuno ricordare che per l’Europa il gas libico è di grande importanza, infatti, esso è estratto e gestito dalla “Mellitah Oil & Gas”, joint venture fra Eni e NOC, per tre quarti dall'Eni e per un quarto dalla NOC (Compagnia nazionale libica), che ha anche realizzato e gestisce il “Greenstream”, il gasdotto più lungo d'Europa che, attraverso la Sicilia, serve oggi buona parte dei Paesi europei.
L’interesse internazionale è anche rafforzato dalla preoccupazione che le bandiere nere dello Stato Islamico sono vicine a molti pozzi petroliferi libici.
Comitato Militare Libico 5+5
Il Comitato Militare Libico 5+5, che include cinque ufficiali dell’ex Governo di accordo nazionale e altri cinque dall’autoproclamato Esercito Nazionale Libico del generale Khalifa Haftar, si è riunito a Ginevra a partire dal 6 ottobre, per tre giorni, sotto l’egida della Missione di Sostegno delle Nazioni Unite in Libia, per discutere precisi accordi sul ritiro di mercenari, combattenti e forze straniere dalla Libia. Nell’incontro hanno concordato il “cessate il fuoco” valido per tutta la Libia, con l’assenso anche da parte dei rappresentanti del governo della parte orientale della Libia e dei relativi Paesi sostenitori (Emirati Arabi Uniti, Egitto, Arabia Saudita e Russia).
Inizia così il percorso, sostenuto dalle Nazioni Unite, il cui obiettivo è porre fine alla crisi e alla lunga e quasi continua guerra civile iniziata il 15 febbraio 2011.
L’accordo politico dovrebbe vedere anche il rispetto dei diritti umani e la fine dei cruenti stati di detenzione e delle violenze a cui sono stati sottoposti uomini e donne provenienti dall’area subequatoriale e di passaggio dalla Libia per volontà dei trafficanti di esseri umani.
Le forti tensioni preelettorali
La molteplicità dei candidati alla presidenza mostra la pluralità delle etnie e delle tribù che si contendono la presidenza. Questo flusso non è certo foriero di serenità né per lo svolgimento delle elezioni, né per l’accettazione del risultato, qualunque esso sia. Ogni elezione lascia sempre nell’animo dei perdenti la naturale diffidenza sulla regolarità dell’avvenuto svolgimento delle elezioni e quando questi gruppi sono così numerosi è certo che difficilmente si potrà ipotizzare una loro accettazione democratica dei risultati.
Alle difficoltà emergenti dal grande numero di candidati si somma anche la manifestata candidatura di Saif al-Islam Gheddafi, figlio di Muammar Gheddafi, che, dopo l’avvenuto sequestro da parte della potente milizia di Zitan, proprio quella che nel 2011 cacciò Gheddafi da Tripoli nel 2011, è ancora ricercato dalla Corte penale internazionale. Per la cui candidatura, assieme a quella di Haftar, è stata chiesta la sospensione da parte del Procuratore militare della Libia, come riportato da Nova.News del 22 novembre 2021. Nel citato articolo è riportato che il primo è accusato per crimini di guerra, mentre il secondo è accusato per vari crimini e in particolare “ dell’uccisione di civili nel 2019 nella zona di Asbea, a sud della capitale libica, Tripoli, ad opera dei mercenari del gruppo russo Wagner alleati all’Lna; del bombardamento contro un centro di detenzione per migranti a Tajoura, a est di Tripoli, che ha provocato l’uccisione di 63 persone; del raid contro il Collegio militare di Tripoli in cui sono stati uccisi 26 cadetti; di un attacco alla città di Zawiya, a ovest di Tripoli, che ha causato altre vittime civili”.
La sospensione di molti candidati è arrivata con le decisioni dell’Alta Commissione elettorale libica (HNEC). Tra i candidati di maggiore peso elettorale risultano essere stati esclusi Saif Al-Islam Gheddafi e subito dopo Khalifa Haftar per una condanna a morte emessa dalla Corte Marziale di Misurata. Ogni giorno si registrano nuove esclusioni e nuovi ricorsi da parte degli esclusi, azioni che non lasciano ben sperare che le prossime elezioni possano facilmente avvenire o comunque avvenire senza tensioni, con lotte che potrebbero fare ricadere nel caos la Libia.
A seguito della presentazione delle candidature e delle esclusioni di parte di esse si sono verificati scontri che hanno destato serie preoccupazioni. Molti dei candidati famosi sono stati successivamente riammessi, compreso Saif Al-Islam Gheddafi che, nell’assenza dalla Libia aveva a sua volta organizzato una forza politica dal nome “Movimento Verde” sostenuta dalla parte di popolazione rimasta vicina alla memoria del padre. Resta sempre un candidato forte, anche se su di lui pendono la condanna da parte del tribunale di Tripoli e il mandato di arresto della Corte Penale Internazionale (ICC). Tra i riammessi c’è stato anche il Primo Ministro libico ad interim, Abdulhamid Dabaiba.
Le tensioni si sono poi inasprite fino al punto che gruppi armati hanno circondato palazzi delle Istituzioni con la motivazione ufficiale dell’avvenuta sostituzione, da parte del Consiglio di presidenza, nell’attuale qualità di Comandante supremo delle Forze armate, del comandante del distretto militare di Tripoli, Abdel Basset Marwan, e di nominare al suo posto il maggiore generale Abdel Qader Mansour. In realtà sembra che le motivazioni siano più complesse, infatti le tensioni potrebbero avere avuto come obiettivo il rinvio delle elezioni per dare la possibilità del recupero di candidati importanti per la presidenza. Le parole pronunciate dal capo della milizia armata che ha circondato il palazzo del governo: “Non ci saranno elezioni presidenziali in Libia, chiuderemo tutte le istituzioni statali” lasciano presagire che il Paese non è ancora pronto per una transizione democratica.
Dopo annunci di certezze e di incertezze sulla fattibilità delle elezioni del 24 dicembre, l’Alta Commissione Elettorale Nazionale libica (HNEC) il 21 dicembre ha ordinato lo scioglimento dei comitati elettorali. Le elezioni sono state rinviate e per la Libia, ancora una volta, si spegne il sogno della democrazia, ricadendo in un nuovo profondo caos.
Considerazioni finali
Probabilmente in Libia è mancato un adeguato periodo di transizione che consentisse, ancor prima di formare un vero e proprio governo, di smussare criticità esistenti tra le diverse etnie che compongono il Paese. Le difficoltà economiche del post rivoluzione, la bramosia di avere il comando delle risorse petrolifere, le diverse elezioni verificatesi in breve tempo, hanno probabilmente indebolito la capacità del popolo stesso di riorganizzarsi.
La Libia nell’ultimo decennio è stato un Paese in preda al caos, dove la presenza di più governi ha certamente aumentato lo stato di disagio tra le molte tribù del Paese, nelle quali è sempre prevalsa una forma di anarchia.
Dobbiamo augurarci che le prossime elezioni, a seguito delle serie motivazioni dell’attuale rinvio, possano essere precedute da tutti gli adempimenti necessari per ottenere un clima di maggiore serenità e potere così diventare il punto di partenza per la formazione di un governo democratico stabile. Purtroppo, i troppi interessi internazionali sulla Libia, da parte di Paesi tra di loro non sempre in armonia, lasciano prospettare delle difficoltà operative per le future elezioni e per il futuro nuovo governo. La molteplicità dei candidati, le contestazioni mosse soprattutto per le candidature di Saif al-Islam Gheddafi, di Khalifa Haftar, di Abdulhamid Dabaiba e di altre personalità libiche da parte di gruppi in costante tensione tra di loro e le prospettive della gestione economica delle enormi riserve petrolifere non lasciano ipotizzare a breve scadenza lo svolgimento di elezioni serene, né la certezza di una prospettiva democratica l’indomani delle elezioni, qualunque sarà il risultato elettorale.
Un punto che dovrebbe accomunare i gruppi delle diverse etnie che confluiranno nel governo è la lotta ai jihadisti libici che ancor oggi si procurerebbero parte dei propri proventi operando nel settore molto redditizio del traffico di essere umani, contrabbando di petrolio, droga e armi.
Perché si possa sperare in un nuovo successo del post primavera araba, per un Paese con vaste parti del territorio ancora in mano a trafficanti di armi e di esseri umani che hanno gestito enormi flussi migratori di persone affamate e perseguitate dalle guerre, spesso sotto il controllo di milizie irregolari che consentivano anche la presenza di fuorilegge e di terroristi tra i migranti, è indispensabile che ancor prima delle elezioni vengano approvati dal Governo di Unità Nazionale una nuova Costituzione che includa pienamente la rappresentanza delle minoranze etniche del Paese e un programma condiviso sulle principali criticità da superare.
È importante, infine, che si arrivi alle elezioni col prioritario chiarimento delle candidature da escludere per motivi certi di carattere penale e di sicurezza nazionale, con un accordo internazionale accettato anche dai Paesi che sostengono i due governi.
Diversamente si potrebbe correre un altissimo rischio che si formi un nuovo governo che porti ad un caos gestionale ancor superiore a quello attuale, facilitando l’incremento di tutte quelle attività commerciali illecite e talvolta disumane che hanno contraddistinto questo decennio libico.