Ne L’amore ai tempi del colera Fermina Daza, sposa appieno le convenzioni borghesi e accetta per marito il pacato, rassicurante, dottor Juvenal Urbino, invece dell’amato, timido ma tenace, Florentino con cui riuscirà a essere felice solo 53 anni dopo. “Se qualcosa la mortificava era l’ergastolo dei pranzi quotidiani. Perché non solo dovevano essere all’ora convenuta, dovevano essere perfetti e dovevano essere proprio quello che lui voleva mangiare senza domandarglielo. Se lei qualche volta lo faceva, come una delle tante inutili cerimonie del rituale domestico, lui non alzava neppure gli occhi dal giornale per rispondere: “Qualsiasi cosa”. Lo diceva sul serio, con i suoi modi amabili, perché non ci si poteva aspettare un marito meno dispotico.

Ma all’ora di pranzo non poteva essere qualsiasi cosa, ma proprio quello che lui voleva, e senza il minimo errore: la carne che non sapesse di carne, che il pesce che non sapesse di pesce, che il maiale non sapesse di rogna, che il pollo non sapesse di piume. Anche quando non era stagione di asparagi bisognava trovarli a qualsiasi costo, affinché lui potesse godersi il vapore della sua stessa orina fragrante.

Non ne incolpava lui: ne incolpava la vita. Ma lui era un protagonista implacabile della vita. Bastava l’intralcio di un dubbio perché allontanasse il piatto sul tavolo dicendo “Questo cibo è fatto senza amore”. In tal senso raggiungeva livelli incredibili di ispirazione. Una volta assaggiò appena una tisana di camomilla e la rimandò indietro solo con una frase: “Questa roba sa di finestra”. Sia lei sia le domestiche rimasero stupite, perché nessuno sapeva di qualcuno che si fosse bevuto una finestra bollita, ma quando assaggiarono la tisana per cercare di capire, capirono: sapeva di finestra.

La ragione per cui quasi nessuna donna diventa chef de cuisine è che per eccellere in cucina occorre cucinare per soddisfare un intimo e intenso colloquio con se stessi. Le donne invece han sempre cucinato per altri e per motivi altri da quel bisogno dirompente che è far cantare la propria ispirazione. Il rapporto culturale standard della donna con il cibo si racchiude nell’equazione cibo uguale sostentamento, mentre alle prese con la materia culinaria l’uomo la plasma essenzialmente per insufflarle vita propria.

Si prenda una tersa giornata autunnale profumata di aria sottile e ci si arrampichi con lo spirito di un impressionista, o semplicemente raschiando da qualche parte un pizzico di allegria, tra i boschi dell’Appennino. Strada Statale 64 Porrettana. A Sambuca Pistoiese si fermi la macchina e ci si riempiano gli occhi di un paese antico addossato alla strada, se possibile seduti a godersi uno spicchio di sole sulla spalletta del ponte costruito dalle legioni romane. Quei paesi dove la strada è più importante del paese e le case fanno a cazzotti per guardarvi passare.

E’ essenziale ai fini di quel che verrà dopo annusare l’aria di Sambuca, aria antica di valle appenninica profumata di ghiaccio e foglie in inverno e di sassi caldi e fiori d’estate. Espletata la tappa olfattiva si prosegua rigorosamente senza fermarsi in pellegrinaggio a Pavana nel bar della signora inglese dove Francesco Guccini gioca a briscola. Si rischia di lasciare un’impronta propria in un mondo che va conservato così com’è.

Tirate l’ora di pranzo e fermatevi a Sasso Marconi. Quel posto brutto almeno quanto la canzone che lo cita, è il rifugio di una delle rare donne che possono esprimere qualcosa dietro a un fornello, Aurora Mazzucchelli. Tovaglie candide senza ridondanti bizantinismi assiepati sul tavolo come quasi sempre nei ristoranti stellati che spesso rimandano alle fantasie di potenza di una casalinga in cerca di riscatto sociale. La premessa quindi è che protagonista debba essere solo il cibo.

Non ha ancora il coraggio di chiamare i piatti con la sobrietà necessaria, non tutti hanno il dono della sintesi divina che schiude il mondo della beatitudine. Però ha intuizione a sufficienza per trattare la materia del territorio con destrezza tale da trarne fuori una nuova espressione.

Mangiate dunque animali insoliti come la mora romagnola e le lumache barbaine perfetta sintesi di un territorio con un forte carattere proprio. Invece di cercare chissà quali wine tasting per esprimere capriole evolutive non necessarie, trovate il coraggio della banale correttezza e ordinate un lambrusco. Che sia magari il lambrusco Marcello di Ariola. Se avete correttamente aspirato l’aria di Sambuca Pistoiese e di quella vallata dell’Appennino lo capirete senz’altro e ne trarrete il senso intimo e compiuto.

Ristorante Marconi
Sasso Marconi
Via Porrettana, 285
40037 Bologna
051 846216
Chef Aurora Mazzucchelli (menu: maialino “mora Romagnola”, pancetta croccante con cavoli di Bruxelles, mela marinata al pepe di Sechuan; Lumache barbaine in sfoglia all’olio fritte, erbe di campo; Lambrusco IGT Gran Cru Marcello, Cantine Ariola, Parma).

Testo di Consuelo Cecconi