Come sempre cerchiamo di analizzare le risorse che lo yoga ci mette a disposizione per migliorare la nostra pratica, maturare a livello psico-emotivo e far crescere la coscienza collettiva. In particolare, oggi parliamo di etica dello yoga. Cosa significa, quali sono i principi su cui si fonda, da dove ha origine, come si può integrare nella nostra vita e perché è utile conoscerla.
Perché lo yoga non è uno sport come un altro
Sono innumerevoli gli aspetti che contraddistinguono lo yoga da qualunque altro tipo di sport: dai differenti effetti sul fisico a quelli sulla mente, ma l'elemento più significativo è di sicuro l'evoluzione che può apportare a livello della nostra coscienza. Sulle prime lo yoga può sembrare un lavoro che si concentra solo sul corpo, attraverso l'esecuzione di asana (posizioni) e pranayama (esercizi di respirazione), ma è con la costanza della pratica che si arriva a creare armonia interiore, attraverso la rimozione di blocchi fisici e mentali. Corpo e mente sono tutt'uno ci insegna lo yoga e contrariamente a quanto si pensa di solito, la seconda influisce molto sul primo. Secondo l'ayurveda, la medicina tradizionale indiana, prima si ammala la mente e solo in conseguenza il corpo fisico. Già partendo da questo presupposto si capisce la differenza di paradigma con una qualsiasi altra attività considerata prettamente motoria. Non solo, perché approfondendo la cultura yogica possiamo inoltrarci in un cammino di crescita personale, e volendo anche spirituale, grazie a tutto l'immenso patrimonio che i testi della tradizione induista e l'esperienza dei maestri ci hanno tramandato sin dai tempi più antichi.
L'etica yogica
In particolare, abbiamo già visto cosa sono gli 8 rami dello yoga di cui parla Patanjali nel suo famoso libro Yoga Sutra1. Ora ci concentriamo sui primi due rami: Yama e Niyama, che riguardano la condotta dello yogi nella sua vita individuale e sociale, ovvero l'applicazione dell'etica yogica.
In Yama in particolare si raccolgono i cinque precetti universali che guidano lo yogi nella sua vita sociale: la non-violenza, la sincerità, l’onestà, la moderazione/autocontrollo e la mancanza di avidità. In Niyama invece troviamo cinque linee guida (letteralmente osservanze) dedicate alla condotta individuale per migliorare se stessi e la propria pratica: purezza di corpo e mente, contentezza, auto disciplina, studio e educazione di sé, devozione.
Yama
Sono i principi guida di condotta morale per la vita sociale, ovvero “i grandi comandamenti che superano il credo, il paese, l'età e il tempo”2 e che Patanjali identifica in:
1) Ahimsa = non violenza. L'abbiamo visto e commentato più volte essendo uno dei principi più famosi dello yoga, e in generale della cultura indiana3. L’assenza di violenza va coltivata prima di tutto verso noi stessi, a livello di pensieri, parole e azioni. Di conseguenza nei confronti degli altri e del mondo in cui viviamo. In questo senso è qualcosa di più del semplice “non uccidere”, perché va inteso con un significato positivo più ampio di rispetto e amore verso noi stessi e verso il Tutto a cui apparteniamo.
2) Satya = verità, sincerità, autenticità. È la più alta regola di condotta. “Se la mente avesse pensieri di verità, se la lingua dicesse parole di verità e se tutta la vita fosse basata sulla verità, allora saremmo pronti per l'unione con l'Infinito” ha scritto Iyengar commentando questo principio. Da qui la necessità di conformare la vita dello yogi a questo principio. Essere sinceri, significa dunque abbandonare le finzioni in cui viviamo, il superfluo e l'irreale, significa avere padronanza dei propri pensieri, della propria lingua, delle proprie azioni e quindi del proprio sé.
3) Asteya = onestà, non rubare. Rubare porta a rinforzare il proprio ego e ad allontanarsi dalla realizzazione di sé. L'appropriazione indebita comporta anche la mancanza di fiducia, la cattiva direzione e l'abuso. Applicata alla vita quotidiana la pratica di asteya libera dai desideri e dalle grandi tentazioni, e dona in cambio tranquillità e sicurezza.
4) Brahmacharya = castità, continenza, moderazione. Letteralmente coincide con la vita da celibato, lo studio religioso e l'autocontrollo. Chiaramente è un principio che dobbiamo ricordarci fu scritto per aspiranti ricercatori spirituali del II-III secolo a.C. In sé non è però da considerarsi un concetto negativo perché è sinonimo di autocontrollo, concentrazione e austerità in vista di una dedizione rivolta a un sé più grande. Patanjali consiglia la continenza del corpo, ma anche del parlare e della mente, ma come spiega Iyengar nel suo commento ciò non significa che la filosofia dello Yoga sia solo per celibi. Anzi l'esperienza dell'amore e della felicità umana (e quindi anche di una famiglia) è necessaria a conoscere l'amore “divino”. Il punto è non cedere a vizi ed eccessi, vivendo tutto (sesso incluso) in modo consapevole e mantenendosi in uno stato di equilibrio psico-fisico per sviluppare la propria saggezza interiore.
5) Aparigraha = mancanza di avidità, rinuncia, non accumulare. È un altro aspetto di asteya (non rubare) riguarda l'essere liberi da tutto ciò di cui non si ha bisogno. Allo stesso tempo vale anche nel senso di non prendere nulla senza lavorare o come aiuto esterno, se questo coincide con povertà di spirito. Praticare aparigraha permette di condurre una vita semplice e libera dalle dipendenze, dalle false credenze, dai bisogni indotti, dalle manie consumistiche potremmo aggiungere in riferimento all'oggi.
Niyama
Se in Yama sono raccolte le regole di condotta universali per la vita sociale con Nyama si intendono le osservanze e le regole di comportamento per la disciplina individuale.
1) Saucha = la pulizia, la purezza. Si intende per il corpo, ma soprattutto per la mente. Purificarsi dai turbamenti indotti dalle emozioni negative (odio, passioni, ira, cupidigia...) è necessario non solo per raggiungere benessere, ma anche concentrazione, padronanza dei sensi e attitudine alla propria realizzazione.
2) Santosa = la contentezza, l’appagamento. Si produce quando una persona è semplicemente se stessa. Essere yogi significa essere naturalmente appagati e felici perché si è consapevoli della propria natura spirituale, della propria verità, della propria appartenenza al Tutto. Sviluppare santosa significa concentrarsi sulla gioia e non sulle insoddisfazioni, significa meditare per superare i turbamenti della mente, significa vedere il meglio e non i difetti.
3) Tapas = la pratica costante, lo sforzo intenso, l’austerità, l'auto disciplina. Deriva dalla radice “tap” che vuol dire bruciare, divampare, splendere. Attraverso la pratica dello yoga e lo sforzo costante bruciamo tossine e impurità a livello sia fisico che mentale. Si tratta di fare uno sforzo consapevole in vista di un obbiettivo più grande. Tapas può riguardare il corpo, la mente, ma anche la parola. In questo senso, la moderazione (brahmacharya) e la non-violenza (ahimsa), che abbiamo visto sopra, sono tapas del corpo. Sviluppare un modo di pensare che ci liberi dallo stress, dalle emozioni negative, dai pensieri ossessivi sono tapas della mente. Così come, allo stesso modo, non mentire, non parlare male degli altri, far conoscere la verità sono tapas della parola.
4) Svadhyaya = lo studio di sé e dei testi antichi. Si intende l'educazione dell'Io. Il percorso yogico porta a un profondo studio di noi stessi, delle nostre qualità e delle energie che ci muovono, che sono poi le stesse che muovono l'Universo. Da qui lo studio di sé può diventare un percorso di consapevolezza della propria essenza più profonda e della non-dualità tra noi e il Tutto. Nella concezione induista la divinità risiede all'interno di noi stessi e non in un Dio separato. Le numerose divinità induiste rappresentano in questo senso la manifestazione ciascuna di specifiche qualità che appartengono anche all'essere umano ed è compito di ciascuno risvegliarle e coltivarle. Lo studio dei testi (chiaramente della tradizione) è considerato una guida per risolvere i problemi della vita e aiutare l'aspirante nel suo cammino di crescita.
5) Isvara-pranidhana = il culto del divino, la devozione, la resa al grande Sé. Coltivare questo principio significa guidare le proprie azioni e la propria volontà in un’ottica di fiducia, resa e gratitudine verso l'Universo e il grande Sé. Coincide con bhakti, la devozione e l'adorazione del divino e di tutte le sue qualità (le stesse che ci appartengono), attraverso pratiche di meditazione come il canto dei mantra. Il fine degli otto rami nella concezione di Patanjali, e in particolare di questo principio, non dimentichiamolo, era il raggiungimento del Samadhi (l’assorbimento cognitivo, stati di supercoscienza, illuminazione). Anche non volendo arrivare a tanto oggi si chiarisce da sé il potenziale di questa osservanza.
È evidente, dunque, come la ricerca e la potenziale applicazione di questi principi nella vita quotidiana possano cambiare anche radicalmente l'esperienza di una persona. Senza per forza diventare asceti o religiosi, con lo yoga si possono però raggiungere livelli sempre più alti di realizzazione di sé, attraverso un percorso che tutti possono scegliere passo passo, secondo le proprie inclinazioni e predisposizioni. Si comincia sul tappetino per diventare sempre più coscienti prima del proprio corpo, poi della propria mente e via via della realtà in cui viviamo, della nostra connessione e interdipendenza come esseri umani e come parte di un tutto, a partire dal nostro rapporto con gli altri e con la natura. È questa consapevolezza sempre più profonda che può condurci a diventare attivi nella società, nella nostra comunità e nelle nostre relazioni. A partire dalle piccole scelte fino ad armonizzare l'intera vita in un unico flow che realizzi una visione e un'esperienza non-dualistica della realtà.
Note
1 Patanjali, Yoga Sutra, cap. II, a partire dal sutra 29. Considerato “la Bibbia dello Yoga”, è il più antico testo di yoga pervenuto dalla sapienza indù. Si tratta di un testo filosofico, scientifico ma anche pratico, concepito e utilizzato come un vero manuale tecnico. Il testo è composto da 196 aforismi (sutra) divisi in 4 libri/pada. La loro versione definitiva arriva a noi nel V-VI secolo d.C. ma si tratta della riorganizzazione di materiale più antico, risalente circa al II-III secolo a.C.
2 B.K.S. Iyengar, Teoria e pratica dello yoga, Ed. Mediterranee.
3 Ahimsa: voce sanscrita che significa “non nuocere”. Nella credenza religioso-filosofica degli Indiani rappresenta uno dei principi fondamentali della morale (variamente inteso nei vari sistemi, dal brahmanesimo al giainismo, al buddhismo, all’induismo). È alla base della dottrina della non violenza proposta da Gandhi. (Fonte: Enciclopedia Treccani).