La prima maratona della storia si tenne ad Atene durante la Prima Olimpiade moderna, il 10 aprile 1896, e venne vinta dal greco Spyridon Louis, eppure ad essa si lega anche il nome dell’italiano Carlo Airoldi. Non possedendo abbastanza denaro per recarsi fino alla capitale greca, Airoldi chiese un aiuto economico al giornale milanese La bicicletta (che avrebbe documentato l’intero viaggio) e partì a piedi alle ore 16 del 28 febbraio 1896, dopo aver fatto una corsa di riscaldamento di 5 km ed essere stato visitato dal medico. Percorse una media di 70 km al giorno, passando per l’Impero Austro-Ungarico, l’Impero Ottomano e infine la Grecia.
Non fu certamente un viaggio semplice: Airoldi conobbe un veneto che lo sfidò in una corsa - che vinse - ma venne aggredito da alcuni scommettitori slavi, si fece male ad una mano dopo aver trascorso due notti all’aperto poiché non aveva trovato ospitalità, per evitare i briganti albanesi si imbarcò su un piroscafo per poi raggiungere Atene seguendo i binari della ferrovia, infine sbagliò strada e fece 14 km in più. Il 31 marzo 1896 arrivò finalmente a destinazione, ma le cose non andarono come si aspettava. Il principe greco Costantino accusò Airoldi di professionismo, in quanto già vincitore di un premio in denaro durante la Milano-Barcellona; quindi, venne considerato non idoneo a partecipare alla prima maratona della storia, nella quale si richiedevano atleti non professionisti. Considerando che, a parte quattro, i corridori erano tutti greci, non è da escludere l’idea che volessero scoraggiare la partecipazione di atleti non autoctoni.
Ad ogni modo Airoldi non si arrese, partecipò alla corsa da non iscritto, ma venne bloccato da un giudice di gara poco prima del traguardo e sbattuto in carcere per una notte. Una volta uscito lanciò una sfida al vincitore, Spyridon Louis, che non l’accolse mai.
Un altro nome italiano che rimarrà scolpito nella storia è quello di Dorando Pietri. Dorando era un garzone di bottega di Correggio che per mesi si era allenato per partecipare alle Olimpiadi di Londra del 1908. Durante la competizione, a meno di 3 km dalla fine, la fatica iniziò a farsi sentire (a causa anche dell’energia impiegata per una sensazionale rimonta) e compromise la prestazione di Pietri, che cadde a terra a 200 metri dal traguardo. Alcuni giudici di gara e dei medici violarono il regolamento e lo aiutarono ad alzarsi, sorreggendolo fino al traguardo, che tagliò, dopodiché svenne. Inutile dire che la vittoria non poté essere considerata lecita, e l’oro andò all’americano Johnny Hayes.
La vicenda ebbe un grande impatto mediatico, e la regina Alessandra volle personalmente consegnargli un premio, una coppa d’argento dorata. Pare che a proporre l’assegnazione di un premio (non dovuto in quanto squalificato) fu proprio il creatore di Sherlock Holmes, Arthur Conan Doyle, presente malvolentieri come spettatore della competizione, tentato solo dal posto in tribuna, nonché addetto al megafono durante la competizione. Lo scrittore propose anche un riconoscimento in denaro, ben 300 sterline, delle quali 5 sue, per permettere a Pietri di aprire una panetteria in Italia. Il compositore statunitense Irving Berlin gli dedicò una canzone, e un cronista del New York Times scrisse: “Fu senza esagerazione il più avvincente evento atletico dai tempi della maratona dell’antica Grecia, il cui vincitore cadde dopo aver raggiunto il suo obiettivo e morì nel trionfo”.
Pietri continuò a gareggiare e il 25 novembre dello stesso anno, presso il Madison Square Garden di New York, ventimila spettatori assistettero alla rivincita di Pietri su Hayes.
Una volta ritiratosi dalle competizioni aderì al fascismo, partecipando attivamente ad alcune aggressioni ed esprimendo come ultimo desiderio quello di essere seppellito in camicia nera.
Tristemente note furono le Olimpiadi di Stoccolma del 1912. Quell’anno ci fu un clima insolitamente caldo per la stagione (32°) e alcuni corridori ne furono vittime (dei 68 partiti solo 34 arrivarono al traguardo).
Il carpentiere portoghese Francisco Làzaro (primo portoghese a competere in una Olimpiade) morì al trentesimo chilometro. Inizialmente si pensò al forte caldo e alla conseguente disidratazione (ancora non era permesso ai corridori idratarsi durante le competizioni), poi si scoprì invece che Làzaro, per prevenire le ustioni, aveva ricoperto il corpo di cera, impedendo quindi una normale traspirazione della pelle e causando scompensi irreversibili al fisico.
Sempre a questa Olimpiade si lega forse la storia più assurda di sempre. Il giapponese Shizo Kanakuri impiegò 54 anni, 8 mesi, 6 giorni, 5 ore, 32 minuti e 23 secondi per terminare la maratona. Come fu possibile?
Kanakuri partecipò alla competizione grazie ad una colletta della Scuola Normale Superiore di Tokyo, possibilità che gli permise il viaggio per Stoccolma, durato ben 18 giorni.
All’altezza del trentesimo chilometro Kanakuri si fermò a bere un bicchiere di succo di lampone offertogli da uno spettatore che si trovava nel giardino della propria abitazione a Sollentuna, il quale pare lo invitò ad entrare, e fu così che Kanakuri si addormentò sulla poltrona! Quando si vegliò la competizione era ormai terminata da ore e la polizia lo stava cercando ovunque. Il suo animo giapponese non gli perdonò il disonore e in gran segreto prese un treno da Sollentuna a Stoccolma e ritornò in Giappone senza palesarsi alla stampa.
Nel 1962, esattamente 50 anni dopo la famosa scomparsa, un giornalista svedese partì per il Giappone alla ricerca di Kanakuri, e scoprì che insegnava geografia nella sua città natale Tamana. 5 anni dopo, nel 1967, arrivò la grande proposta: la possibilità di concludere la famosa gara, dopo due guerre mondiali, sei figli, 10 nipoti, all’età di 76 anni. La partenza? Proprio da quella casa nella quale si era addormentato, e dove al tempo viveva il figlio di quell’uomo gentile ma negligente (visto che non lo svegliò) che gli offrì il fatale succo di frutta. Con calma, ma anche con uno sprint finale negli ultimi 100 metri, Shizo tagliò il traguardo.
Nel 1936 a Berlino, il sudcoreano Sohn Kee-chung fu il primo a terminare una maratona in meno di 2 ore e mezza, ma la medaglia andò al Giappone, per il quale Kee-chung correva, essendo la Corea del Sud occupata dai nipponici. Nonostante le insistenze della Corea, il CIO non assegnò mai alla Corea la medaglia di Kee-chung, che però fu il tedoforo alle Olimpiadi di Seul nel 1988.
Ma è nel 1952, alle Olimpiadi di Helsinki, che si impose la leggenda, Emil Zàtopek. Emil era un mezzofondista cecoslovacco, già oro alle precedenti Olimpiadi di Londra nel 1948 nei 10000 metri, che, dopo aver vinto due ori a Helsinki nei 5000 e 10000 metri, decise all’ultimo minuto di partecipare anche alla maratona. Vinse l’oro e stabilì un nuovo record.
Emblematica rimase la testimonianza di Jim Peters, maratoneta britannico, il quale raccontò che Zàtopek gli si presentò durante la maratona di Helsinki. Un’ora più tardi si rincontrarono sul percorso e il cecoslovacco chiese all’inglese: “Jim, questo ritmo è troppo veloce?”, ed era una domanda seria perché quella era la prima maratona alla quale Zàtopek partecipava. Il britannico rispose: “No, non abbastanza”, e venne preso in parola. Zàtopek aumentò il ritmo e vinse la competizione.
Il ritorno a Praga fu grandioso, Emil e la moglie Dana (oro nel giavellotto nelle stesse Olimpiadi) vennero accolti con grandi fasti, ma la Storia si intromise. Ecco la Primavera di Praga, Zàtopek fu per le strade con grande coraggio a difendere il proprio Paese, con la moglie firmò il Manifesto delle Mille Parole (“Ho fatto solo il mio dovere. Perché mai i russi avrebbero dovuto avere il privilegio di entrare con i carri armati a Praga?”). Ed è così che Zàtopek, la “locomotiva umana”, chiamato così perchè ansimava rumorosamente mentre correva, venne espulso dal partito e spedito nelle miniere di uranio di Jachymov, sul fronte tedesco. Trascorsero venti anni di oblio, poi venne riammesso solo dopo l’abiura, ma ormai era solo uno spazzino che puliva le strade della sua città, quelle stesse strade nelle quali un tempo tutti lo avevano acclamato.
Dal 1960 inizia a soffiare il vento africano e si porta via il record di Zàtopek, dando inizio ad un’era di indiscusso dominio. L’etiope Abebe Bikila, agente di polizia e guardia del corpo personale dell'imperatore Hailé Selassié, completamente scalzo per tutto il percorso perché le Adidas che gli avevano dato erano scomode e gli avevano fatto venire le vesciche, vinse la maratona delle Olimpiadi di Roma, e lo stesso farà quattro anni dopo a quelle di Tokyo nel 1964 (senza essersi allenato ma almeno con le scarpe). Sarà presente anche alla maratona delle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968, ma si ritirò prima di terminare il percorso.
Bikila è stato il primo a vincere due maratone di seguito, dopo di lui ci sono riusciti solo il tedesco Waldemar Cierpinski (Montreal 1976 e Mosca 1980), e il kenyota Eliud Kipchoge, nelle ultime due Olimpiadi (Rio de Janerio 2016 e Tokyo 2021).
All’età di 37 anni Bikila rimase paralizzato dalla vita in giù a seguito di un incidente stradale, ma continuò a gareggiare (tiro con l’arco, tennistavolo, corsa di slitte). Morì quattro anni dopo a solo 41 anni.
Bikila si è imposto come il simbolo della liberazione africana dal colonialismo europeo, in quanto la prima medaglia d'oro olimpica del continente africano fu proprio la sua.
Olimpiadi di Seul 1988. Il ventinovenne vicentino Gelindo Bordin fa parte del gruppo di testa dal venticinquesimo chilometro in poi, fino al traguardo, che taglia con un tempo di 2h10’32’’.
Ci riprova quattro anni dopo, nel 1992 alle Olimpiadi di Barcellona, ma al quinto chilometro un corridore cade durante la confusione creatasi davanti al primo punto di rifornimento. Per schivarlo purtroppo Bordin si fa male al menisco sinistro, tiene duro fino al trentesimo chilometro, dopo il quale, in lacrime, si ritira. “Avrei preferito arrivare, anche con gli ultimi. Magari soffrire fino al trentanovesimo chilometro, per poi morire lì”.
Gelindo, “l’uomo che vive in pianura”, è stato il primo italiano a vincere una maratona olimpica, e l’unico italiano a vincere quella di Boston.
Nel 1996, alle Olimpiadi di Atlanta, il sudafricano Josia Thugwane, il sudcoreano Lee Bong-Ju e il keniota Erick Wainaina salirono sul podio olimpico dopo aver terminato la maratona. Dei centoundici atleti che tagliarono il traguardo, il centosettesimo era il musulmano bosniaco Islam Djugum. Il suo allenamento? Correre per le strade di Sarajevo negli anni dell’assedio serbo. “Lì la vita vale così poco che non hai tempo per avere paura. Ogni mattina che ti svegli devi ringraziare Dio di essere ancora vivo”, disse ai giornalisti. Durante le sue corse quotidiane evitava cecchini, bombardamenti, raccoglieva la legna per la stufa, schivava i morti per le strade e raccoglieva quelli ancora vivi, con un’alimentazione del tutto squilibrata fatta solo di riso e fagioli per quattro anni.
“Correre è il mio modo di lottare, tutti devono sapere che la Bosnia sta morendo”.
Atene 2004. Trentacinquesimo chilometro. L’italiano Stefano Baldini ha davanti a sé solo il brasiliano Vanderlei de Lima e dietro l’americano Mebrahtom Keflezighi. Ma ecco che succede l’impensabile. Tra gli spettatori c’è un personaggio noto, l’eccentrico presbitero irlandese Cornelius Horan, che nel 2003 durante il Campionato Mondiale di Formula 1 si buttò in pista con un kilt e un cartello “Leggete la Bibbia”, che nel 2004 irruppe durante una corsa di cavalli e che nello stesso anno era proprio lì, ad Atene, pronto a compiere l’irreparabile: irrompere durante la maratona. La vittima? Vanderlei de Lima che, bloccato dall’irlandese, già sfinito, barcolla, si riprende aiutato da uno spettatore greco, ma perde sette secondi fatali. È l’occasione per Baldini, che conquista l’oro, dopo di lui l’americano Keflezighi e solo terzo de Lima.
A seguito di questi fatti, la Federazione brasiliana chiese l’assegnazione anche a de Lima di una medaglia d’oro, ma la proposta non venne accolta. Il brasiliano ricevette dal CIO la medaglia Pierre de Coubertin e l’anno dopo rifiutò la medaglia d’oro che il connazionale Emanuel Rego gli offrì dopo averla vinta a beach volley: “Non posso accettare la medaglia di Emanuel. Sono felice con la mia, è di bronzo, ma significa oro”.
Cornelius Horan tentò di rovinare anche i Mondiali di Calcio 2006, con tanto di saluto nazista e lodi a Hitler. Ricevette un ASBO e venne scomunicato dalla Chiesa Cattolica ma nessun provvedimento poté restituire quello che Horan aveva portato via a de Lima.