Un autoritratto che parli di lei.
Mi chiamo Francesca Vitolo e da oltre 40 anni mi occupo di Neuro Riabilitazione presso l’Ospedale S. Carlo di Milano... Vivo a Milano, ho due figli, un gatto e un cane. I miei interessi sono la lettura, il cinema, il teatro e la fotografia. Appena posso viaggio. Queste sono le ultime settimane di lavoro: a fine anno si concluderà un lungo ciclo della mia vita lavorativa e se ne aprirà un altro.
Come mai la scelta di diventare fisioterapista? Quali pensieri, fantasie, idealità hanno nutrito e sorretto questo obiettivo?
Avevo 18 anni nel 1979 quando – prima del diploma di Maturità – mi sono trovata a decidere cosa fare da grande. Mi interessavano le mansioni in campo sanitario e di cura della persona: assistente sociale, ortottista, fisioterapista, ambiti ancora sconosciuti ai più ed anche per me. Così dopo aver saputo che presso l’Ospedale S. Carlo si trovava una scuola di Fisioterapia ho deciso di andare personalmente a vedere. È lì che ho conosciuto il prof. Boccardi – luminare e pioniere in Italia nonché Direttore della Scuola – che mi ha accolto con la sua umanità, il suo inconfondibile sorriso e mi ha aperto un mondo che non conoscevo, permettendomi di incontrare le terapiste “storiche” durante il loro lavoro in palestra... Mi sono sentita a casa e ho deciso che era quello che volevo fare.
Cosa comporta il lavoro di fisioterapia? Immagino molto forte l’impatto col corpo sofferente dell’altro.
È un lavoro che ti porta ad avere un contatto fisico molto stretto con il paziente, duraturo e prolungato nel tempo. Un lavoro molto impegnativo, non solo fisicamente, ma anche emotivamente per il grande coinvolgimento con persone che hanno subito un vero e proprio lutto: la perdita della propria autonomia, del lavoro, della vita sociale non provoca solo dolore fisico ma una devastazione a livello psicologico. Ed il fisioterapista diventa – all’occorrenza – anche psicologo. Si tratta quindi di un rapporto fortemente empatico, dove il terapista, oltre ad individuare un progetto terapeutico per il recupero ed il miglioramento delle condizioni fisiche – diviene un supporto, un sostegno e talvolta l’amico ed il confidente.
E poi la svolta logopedica, come è successo?
Durante il secondo anno di scuola ho conosciuto la prof. Anna Basso che nel corso di una settimana di lezioni su afasia, neuroanatomia e logopedia, ha spalancato in me una seconda porta: ho deciso che era quella la strada che volevo prendere. Così – durante il terzo e ultimo anno di scuola – ho passato tre giorni a settimana al Policlinico di Milano per partecipare a lezioni e tirocinio con persone afasiche. È stato molto impegnativo portare a compimento due percorsi paralleli con due tesi e due esami finali, ma la motivazione era altissima. Non mi sono mai pentita di quella scelta e – dopo un primo breve periodo durante il quale alternavo il lavoro di terapista a quello di logopedista – ho dedicato il resto della mia vita lavorativa e la mia formazione alla riabilitazione del linguaggio negli adulti.
C’è una qualche connessione che lega la fisioterapia alla logopedia?
Fisioterapia e logopedia sono strettamente connesse tra loro: un danno neurologico all’emisfero sinistro provoca deficit sia a livello motorio che cognitivo; la mia doppia formazione mi ha permesso di avere una visione più completa della persona da trattare, oltre al fatto che sono in grado di gestire un paziente anche dal punto di vista motorio: trasferirlo dal letto alla carrozzina o dalla carrozzina alla sedia nel mio studio, posizionarlo correttamente tenendo conto dell’eventuale spasticità o flaccidità degli arti paretici. Tale competenza purtroppo è totalmente assente nei laureati al coro di laurea in Logopedia, che durante i tre anni di studio non hanno l’opportunità di avvicinarsi all’aspetto motorio dei pazienti neurolesi sia a livello pratico che a livello teorico.
L’incontro con l’afasia. Quale riscontro emotivo, quale risonanza, quale eco interno l’assenza di parola le ha suscitato?
L’afasia era un mondo totalmente sconosciuto negli anni ’80 e non solo per me. Nel corso di questi 40 anni, inoltre, il trattamento dell’afasia ha subito dei cambiamenti radicali, mettendo di volta in volta in discussione l’operato dei logopedisti. Sicuramente l’aspetto peggiore è quello di doversi arrendere al fatto, non solo che il nostro paziente non tornerà mai più come prima ma che nessuno è in grado di fare una prognosi o di prevedere i tempi del recupero che spesso è lunghissimo ed il peso della verità è da sempre sulle spalle del logopedista. Durante queste lunghe relazioni paziente/terapista, infatti, il legame che si crea è fortissimo, frutto di sedute quotidiane “tête à tête” durante le quali il paziente si mette a nudo, dando spesso sfogo a reazioni emotive che il terapista dev’essere in grado di accogliere mantenendo però sempre la giusta distanza. Empatia e resilienza, dunque, uno sforzo non più fisico quindi (come per i colleghi terapisti) ma un grande dispendio di energie per arginare il dolore di chi ha la consapevolezza di una vita che non sarà mai più come prima.
Tanta esperienza clinica e tanta ricerca hanno dato vita a pubblicazioni scientifiche. Ce ne vuole parlare?
Nel corso degli anni ho avuto la fortuna e l’opportunità di conoscere il prof. Luzzatti dell’Università Bicocca di Milano con il quale ho intrapreso una fruttuosa collaborazione sul trattamento di alcuni aspetti del linguaggio da cui sono in seguito nati dei lavori scientifici.
La sua esperienza si è estesa in altre declinazioni.
Per quanto riguarda l’esperienza sul campo invece, questa mi ha dato l’opportunità di formare altri logopedisti e – da quando esiste il corso di laurea in Logopedia – di fare da tutor a studenti del II e III anno, accogliendoli per dei tirocini pratici e portandoli ad avere esperienza anche con i pazienti adulti. Per gli studenti che frequentano il II anno del corso di laurea di Fisioterapia sono il referente per le lezioni di Riabilitazione Neurologica mentre a coloro che prestano tirocinio nel nostro reparto, ho sempre dato l’opportunità di partecipare a sedute di trattamento dei pazienti da loro seguiti in palestra.
La voce e la non voce. Due modi differenti di comunicazione.
Mi sono affacciata al mondo della vocologia dopo gli anni 2000, un po’ per le richieste sempre più pressanti da parte dell’utenza, un po’ perché nel frattempo avevo iniziato ad usare la voce per cantare in un coro. Anche in questo settore mi sono avvalsa di una personalità del calibro della Dott.ssa Silvia Magnani, Foniatra e Otorinolaringoiatra nonché collaboratrice del Piccolo Teatro di Milano. Lavorare sulla voce – che è lo specchio delle nostre emozioni – mi ha permesso di esplorare nuovi ambiti, totalmente differenti da quelli neurologici cui ero abituata: trattamenti brevi, risultati quasi sempre soddisfacenti, step di lavoro ben definiti da un lato, un grande lavoro sulle emozioni e sulla personalità dall’altro. Un vero e proprio lavoro di psicologia per scoprire ansie e fragilità che spesso sono alla base delle disfonie.
E in seguito la cura di pazienti neurologici affiancando i colleghi fisioterapisti.
Il lavoro in un grande ospedale, all’interno di un reparto di Riabilitazione mi ha permesso di collaborare con i colleghi fisioterapisti che spesso sono i primi a segnalarmi pazienti da valutare. A volte si tratta di collaborazioni che proseguono per molti mesi durante i quali i dubbi, le preoccupazioni ma anche i rapporti con i caregiver vengono condivisi. Il recupero però non procede mai in parallelo, talvolta è necessario sospendere un trattamento e proseguire con l’altro ed anche in questi casi un grande affiatamento è necessario tra noi operatori per operare scelte a volte dolorose ma necessarie.
La pandemia e il conseguente lockdown come si sono insinuati nel suo lavoro? Quali pratiche lese? Quali possibilità rimaste? Sono scaturite nuove possibilità di intervento?
La pandemia ed il conseguente lock down hanno scardinato molte dinamiche tra gli operatori ospedalieri; reparti e ambulatori chiusi da un lato, corsie trasformate in reparti di infettivi, personale ridotto per motivi di salute ed una grande paura iniziale, hanno fatto sì che ci si dovesse reinventare e rimettere in gioco. Da un giorno all’altro tutti i miei trattamenti ambulatoriali sono stati sospesi ed io ho scelto di lavorare a fianco dei colleghi fisioterapisti; ho rispolverato quelle competenze sull’assistenza al malato grave che erano sepolte da anni e mi sono calata nei panni di tirocinante seguendo gli operatori più esperti per lavorare nei reparti Covid ad alta intensità di cura. È stato come un cerchio che si è chiuso: io che ho iniziato a lavorare 40 anni fa come terapista in corsia mi sono ritrovata, a pochi mesi dalla cessazione della mia attività lavorativa, a riprendere un percorso di assistenza fisica della persona che evidentemente era stato solo interrotto.
Adesso come procede la sua attività? Quali prospettive, quali cambiamenti?
Attualmente vedo la luce in fondo al tunnel, come si suole dire. Mi mancano pochi giorni di lavoro (ho ripreso a fare la logopedista a tempo pieno a giugno) dopo di che verrò messa definitivamente a riposo. Ancora non realizzo bene come cambierà la mia vita dopo tanti anni, ma sento che le energie necessarie si stanno esaurendo; penso di aver dato molto – e ricevuto tanto in termini di riconoscenza e affetto – per questo mi appresto a lasciare il posto a qualcun altro.
Vivere a Milano ha influito sulle sue scelte lavorative? Quali opportunità? E quali inciampi?
Vivere a Milano è stato fondamentale per il mio lavoro e per la mia formazione. Innanzitutto, per molti anni ho potuto avvalermi della collaborazione e del supporto della prof. Basso che si è sempre resa disponibile nell’organizzare corsi di aggiornamento al Policlinico e nella consulenza a pazienti afasici. Le colleghe provenienti da altre regioni erano costrette a grandi spostamenti, spese extra e una complessa organizzazione familiare per poter partecipare alle leggendarie settimane di tirocinio, nelle stesse aule che ci avevano viste studentesse. Inoltre Milano e le regioni del Nord Italia erano all’avanguardia (e lo sono tutt’ora purtroppo) nella cura e diagnosi dei deficit neuro cognitivi, e la maggior parte di corsi e convegni a cui ho partecipato si sono tenuti a poca distanza da casa.
Quale angolo milanese potrebbe idealmente essere il posto elettivo per dare ospitalità ai suoi pazienti?
A Milano, in zona Porta Venezia – è ancora presente la sede di A.IT.A. Lombardia, l’associazione fortemente voluta e creata da Anna Basso a metà degli anni ’90 a sostegno delle persone afasiche e delle loro famiglie. La pandemia ha inferto un duro colpo all’associazione ed agli afasici, che hanno patito più degli altri l’isolamento e la deprivazione da stimoli esterni e dai raduni che solitamente si tengono nelle sedi dell’associazione. Mi auguro che a breve tutto possa riprendere come e meglio di prima.