Un paziente può essere etichettato come ipocondriaco quando presenta il timore, o la certezza, di avere una malattia seria non diagnosticata, in grado di permeare globalmente la sua vita (“illness as a way of life”). Stando alla definizione, la condizione deve infatti persistere per almeno sei mesi e provocare un significativo stato di infermità.
Caratteristiche del disturbo ipocondriaco:
- invalidante e cronico nel 4-6%;
- frequente reciproca conflittualità con il curante;
elevati tassi di consultazione di specialisti, accertamenti strumentali, interventi chirurgici; - scarsa risposta ai comuni trattamenti;
- primitiva o secondaria (in circa 2/3 dei casi: depressione maggiore, disturbo di panico, disturbo ossessivo-compulsivo, ansia generalizzata);
- overlap con la somatizzazione;
- frequente resistenza alla consulenza psichiatrica.
Il progresso scientifico ha determinato un notevole accrescimento del benessere, ma anche un aumento diffuso della percezione dei rischi e, in certi casi, la produzione di nuovi, sotto la spinta del processo di medicalizzazione della salute enfatizzata dai media. Il paziente è bombardato da una enorme mole di offerta informativa “esterna”, che tende spesso a sovrastare quella dei curanti ma che, pur essendo assai criticabile, è ugualmente pertinente dal suo punto di vista. L’assistito, infatti, non possiede gli strumenti per valutarla in modo adeguato. Manca una formazione del cittadino ad un sapere scientifico “critico”, in grado di renderlo più consapevole nel compiere scelte autonome nei riguardi della propria salute.
I medici sono anch’essi condizionati da pareri personali e culturali, anche se ovviamente esprimono (dovrebbero esprimere) le proprie valutazioni principalmente da una prospettiva scientifica, facendo riferimento ai dati di letteratura.
Capacità intellettuali del paziente, informazioni di qualità adeguata, oneste ed equilibrate, non sono tanto dei presupposti finalizzati ad una informazione intesa come “autorizzazione” del medico alla decisione finale, quanto elementi che entrano in gioco nella costruzione di senso del processo comunicativo. Alla base della relazione tra medico e paziente è infatti il rapporto di fiducia, basato su una autorevolezza del primo in grado di resistere alle multiple e conflittuali fonti di informazione dei pazienti.
Il medico dovrebbe anche provare a capire (= decodificare) i motivi nascosti del disagio del paziente, sottesi alle richieste di rassicurazione, anche se in effetti questo obiettivo è spesso difficilmente raggiungibile.
La gestione del paziente ipocondriaco comprende in pratica l’utilizzo di specifiche strategie di consultazione, ad esempio, la programmazione delle visite di controllo a scadenza prefissata, con un accurato esame obiettivo, un ascolto attento, la spiegazione della natura dei disturbi (sintetizzabile come un’aumentata percezione di normali sensazioni corporee), il tentativo di confermare la realtà della sensazione.
Obiettivo generale è ottenere l’adattamento del paziente ai propri sintomi piuttosto che la loro eliminazione.
Il percorso va adeguato alla singola persona, nei suoi aspetti sistemici, razionali e non razionali. Comunicare significa entrare in relazione con il mondo del paziente, accettare anche il suo punto di vista, di cittadino con diritti riconosciuti.
Quando il paziente non accetta i consigli, compito del medico è di riuscire a far includere nella valutazione elementi di razionalità scientifica, portandolo eventualmente a “dare un senso” al suo dissenso, e quindi ad assumersi responsabilità. Solo in questo caso il medico può interrompere il suo tentativo di rispettosa persuasione e accettare le possibili conseguenze di una scelta autonoma, sia quelle favorevoli, come il ridotto impatto emotivo o il raggiungimento di una maggiore capacità di scelta, sia quelle sfavorevoli, ad esempio, la ridotta adesione all’invito a sottoporsi (o a non sottoporsi nel caso specifico) ad esami o in generale ad accertamenti senza indicazioni scientifiche.
In generale è importante rassicurare, ma con riserva, per la sensibilità limitata dei test diagnostici e la inevitabile incertezza della medicina.
In alcuni casi, soprattutto nelle forme secondarie, sono utili gli antidepressivi, con graduale titolazione. In casi selezionati, soprattutto per motivi di disponibilità pratica, possono essere utili le terapie cognitivo-comportamentali.
Bibliografia
Collecchia G, De Gobbi R, Fassina R, Ressa G, Rossi RL. La diagnosi ritrovata. Le basi del ragionamento clinico. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2021.