“Paziente” non si nasce, ma si diventa proprio malgrado: da secoli i medici raccontano e scrivono aneddoti sui pazienti ideali e su quelli difficili, ma solo negli ultimi decenni la ricerca neuro-scientifica ha identificato i processi mediante i quali una persona sana dapprima scopre e poi accetta di “essere malata” e quindi decide di curarsi.

In sintesi, possiamo affermare che un individuo sano diviene malato quando riconosce come anomali alcuni segnali che provengono dal proprio corpo (sintomi), li interpreta come un cambiamento negativo del proprio essere, cerca quindi di recuperare il proprio stato precedente e, se ciò non è possibile con le proprie forze, cerca aiuto da chi ritiene abbia competenza nel risolvere tali problemi.

Questo meccanismo basilare è comune a tutti gli uomini di ogni popolo e cultura: ciò che varia sono le modalità con cui il paziente acquisisce consapevolezza ed i criteri di scelta dei guaritori e della cura.

Se il medico deve padroneggiare l’arte di conoscere gli uomini, per aiutare gli assistiti nella realizzazione del proprio progetto di salute, il paziente dovrebbe coltivare un’arte speculare, quella di relazionarsi con il proprio medico. È infatti riconosciuto il valore dell’alleanza terapeutica tra curante e assistito, della negoziazione come strumento per un approccio globale, incentrato sulla identificazione e condivisione di valori, senso, interessi, obiettivi, per una cultura medica nella quale il potere delle decisioni possa essere condiviso tra curanti e coloro che ne vivono in prima persona le conseguenze.

Questi aspetti vengono peraltro considerati prevalentemente dalla prospettiva del medico. Meno spesso viene enfatizzata la necessità che anche il paziente acquisisca nuovi doveri e responsabilità.

Uno degli aspetti principali di quella che si potrebbe definire “l’arte di essere un paziente” dovrebbe consistere nel non divagare, nel cercare di focalizzare il problema essenziale, evitando lunghi elenchi di sintomi all’interno dei quali il medico può disperdersi.

D’altronde il medico stesso influenza in maniera significativa il modo in cui i pazienti esprimono la propria soggettività e narrano la propria storia. La sua professionalità si deve quindi manifestare nel dirigere il flusso di informazioni, nel porre domande pertinenti, ovviamente nel rispetto dei desideri e delle priorità del paziente, ma evitando l’invischiamento e la passività nell’ascolto.

Si tratta di utilizzare al meglio la propria capacità di valutazione critica, intuizione, esperienza, occhio clinico, abilità poco codificate ma di grande efficacia, soprattutto nell’ambito della Medicina Generale, luogo della complementarità tra biografico e biologico. Il paziente ha spesso infatti la percezione di essere malato, anche quando non si riesce a identificarlo come tale ricorrendo al modello biomedico classico.

Percepisce più di quanto è in grado di esprimere, perchè il linguaggio degli organi che non funzionano non è completamente noto, sia al paziente che al curante, e la semantica della soggettività ancora poco sviluppata. Inoltre, secondo la tradizione classica, quando un sintomo non corrisponde precisamente a un segno, le affermazioni del paziente vengono messe in discussione.

In alcuni casi peraltro accade il contrario: una persona può presentare sintomi chiaramente codificati ma non riferirli al proprio medico. Ciò succede spesso quando il malato tende alla divagazione oppure presenta un altro elemento di criticità: la tendenza a minimizzare, a nascondere un sintomo importante, frequentemente per una reazione psicologica di negazione, tipica di soggetti che comprendono la possibile natura patologica dei sintomi ma non vogliono accettarla. Sono situazioni in cui il paziente teme di perdere il proprio ruolo familiare o sociale e per questo nega la malattia, non curandosi del fatto che proprio la sensazione di indispensabilità dovrebbe spingere a badare maggiormente alla salute.

È peraltro inevitabile (e giuridicamente sancito) che la decisione ultima spetti al paziente, che ha il diritto di compiere scelte in conformità dei propri valori e delle capacità di coping. La scelta del diretto interessato è dunque rispettabile e comprensibile, all’interno dello specifico contesto, anche se non condivisibile dal punto di vista strettamente scientifico.

Possibili barriere alla comunicazione di un sintomo:

  • paura del riconoscimento di malattia e delle relative conseguenze;
  • ridotte aspettative relativamente alle possibilità di cura, ad esempio, a causa di precedenti esperienze negative, personali o indirette;
  • percezione di scarsa disponibilità del medico all’ascolto;
  • mancata percezione del sintomo come possibile malattia;
  • fatalismo;
  • trascuratezza;
  • desiderio di non allarmare/coinvolgere i familiari.

Bibliografia

Collecchia G, De Gobbi R, Fassina R, Ressa G, Rossi RL. La diagnosi ritrovata. Le basi del ragionamento clinico. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2021.