L’effetto Oscar si fa sentire nelle sale cinematografiche, riaperte da metà maggio, con il film Nomadland, prodotto dalla Walt Disney, che domina la classifica.
Consapevolezza di sé, resistenza e speranza per il futuro insieme a note di saggezza, tra i temi dominanti della pellicola, diretta dalla cinoamericana, Chloé Zhao che per sensazioni e stati d’animo, resta fedele alle contemporaneità delle frustrazioni e sofferenze umane che rispecchiano tuttavia gli ultimi anni dominati dalla pandemia.
Una storia capace di arrivare al momento giusto, di riflettere l’aria che si respira. Da un adattamento del libro Nomadland. Un racconto d’inchiesta, della giornalista Jessica Bruder, il film è una riflessione sull’esistenza, su ciò che si possedeva prima e sugli affetti cari ormai perduti, sull’accettazione, la voglia di libertà, alla ricerca di una vita al di fuori della società convenzionale che va oltre l’orizzonte.
Dal Leone d’Oro alla 77a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, alla conquista per la regista pechinese, Chloé Zhao di tre riconoscimenti alla 93a edizione della notte degli Oscar 2021 (la seconda donna a vincere la statuetta dopo Kathryn Bigelow per The Hurt Locker nel 2010, e la prima di origine asiatica), come miglior film, migliore regia e migliore attrice protagonista a Frances McDormand, (terza statuetta della sua carriera).
Fern è una donna sessantenne, che dopo la perdita del marito e del lavoro (“era un’insegnante”) in una cittadina del Nevada, Empire, dopo il crollo economico della Grande recessione nel 2006, carica i bagagli nel suo vecchio e malridotto furgone e si mette sulla strada, lasciando la sua città, i suoi affetti portandosi dietro solo ricordi essenziali. Non possiede quasi più nulla, tranne una vecchia giacca che le ricorda l’uomo della sua vita. Inizia uno stile di vita al di fuori delle convenzioni sociali, un perpetuo errare, non come ultima possibilità, ma proprio modo di vivere ed “essere nel mondo”, come realtà possibile, scelta di libertà, in contrapposizione all’egemonica visione della società capitalistica e sedentaria.
C’è il sogno americano nel racconto di Chloé Zhao, grandi spazi, vasti paesaggi di lande desolate dell’Ovest americano, dal gelo del Nevada al caldo dell’Arizona, e non più fisse dimore e macchine ma case su ruote alla scoperta della terra e dei luoghi di sconfinata bellezza. C’è anche la dignità e la solidarietà tra gli esseri umani in difficoltà che “sognano l’autosufficienza, ma riconoscono l’importanza della comunità. Vivono uno per tutti e tutti per uno e in questo sta la bellezza della loro scelta di vita”.
È il ritratto di una società, di una nazione, quella degli Stati Uniti, e anche di un'identità femminile, che trovano le forze per sopravvivere nello smarrimento esistenziale a causa di un welfare e sistema inesistente, già in declino a cominciare dalla fine degli anni Ottanta. Cieli aperti, camper attrezzati come piccole case viaggianti a bordo delle quali esplorare mete sconosciute e affascinanti, aggraziate dalle musiche di Ludovico Einaudi.
Fern, è un’anima inquieta ma cordiale, che lavora saltuariamente (“a me piace lavorare”) presso il colosso Amazon, che sosta presso comunità di nomadi, suoi compagni di viaggio con cui condivide sentimenti e passioni al caldo di un falò, nel gelo di un’altra notte, per poi ripartire.
Frances McDormand, attrice protagonista, durante le riprese cinematografiche, trascorse diversi mesi con dei veri nomadi: Linda May, Swankie e Bob Wells, che in Nomadland, sono le guide e i compagni di Fern. Storie di umiltà, di instabilità, di una comunità alle prese con realtà difficili ma che vivono per il bene comune con lo spirito libero che è proprio dell’essere umano molto più della sedentarietà.
Fern (“è tra i fortunati che possono viaggiare ovunque e a volte li chiamano nomadi”), porta avanti una tradizione americana, alla ricerca di un nuovo posto in cui stare e da cui scappare, in nome della sovversione identitaria e che ritrova nell’umanità e nelle emozioni comuni, la spinta e la forza per rialzarsi. È il simbolo di un’America che protesta, che sceglie la non appartenenza al sistema, alle convenzioni. C’è un’empatia antropologica, culturale e geografica, nelle immagini e percezioni di Chloé Zhao, che torna al cinema dopo il potente The Rider, con un personaggio solitario che è la metafora americana, della precarietà, del bisogno di movimento e di andare avanti. La sua non è una denuncia politica ma il ritratto di una nazione in preda alle diseguaglianze sociali ed economiche, alla sfiducia in un regime finanziario disastroso.