La situazione in Birmania (come viene ancora chiamata la Repubblica dell'Unione del Myanmar) è sempre più grave: polizia e militari continuano a sparare ai manifestanti contro il recente colpo di stato dell’esercito.
Nel cielo di Yangon, l’antica capitale precedente all’attuale Naypyidaw, centinaia di palloncini rossi hanno fluttuato a sostegno della leader Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace 1991 che, dopo 53 anni di dittatura, nel 2016 era stata eletta a guidare il Paese e che è stata arrestata, il primo febbraio 2021, dai militari.
La notizia di questi tristi eventi mi ha fatto tornare indietro nel tempo e come in un film mi passano davanti le immagini e affiorano vividi i ricordi del viaggio in quel misterioso e affascinante Paese per tanto tempo chiuso al turismo e ancora non del tutto accessibile.
Non posso non essere d’accordo con Rudyard Kipling che, alla fine del 1800 in Letter from the East, scriveva: “Questa è la Birmania, ed è diversa da ogni altra terra che tu possa aver conosciuto”.
Il viaggio in Birmania è stato per me un incontro col passato, quando le persone vivevano in sintonia con la natura seguendo lo scorrere naturale del tempo.
Rivedo l'altissima pagoda dorata di Shwedagon dai pinnacoli luccicanti al sole e le costruzioni religiose imponenti di Yangon e quelle migliaia che punteggiano l’enorme pianura di Bagan (Pagan). Si dice che fossero tredicimila costruite in 250 anni da vari sovrani.
Bagan dal IX al XIII secolo è stata la capitale del Regno di Pagan che riuscì ad unificare tutti i territori che oggi compongono la Birmania, colonizzata dagli inglesi dal 1824 al 1942, specie per opera degli scozzesi - uno dei più importanti fu Sir James Scott - e per questo indicata spesso come “la colonia scozzese”, nel 1948 ne è stata dichiarata l’indipendenza.
Ricordo il sorriso delle persone incontrate al tramonto, sotto una pioggia incessante, durante la passeggiata sull’incredibile U- bein bridge, il ponte di teak più lungo al mondo (1,2 chilometri) di Amarapura, un sobborgo di Mandalay che è stata capitale del Myanmar dal 1861 al 1885 e quello delle persone incrociate nel giro in barca nella ragnatela di canali del Lago Inle. Non riuscivo a smettere di fotografare gli orti galleggianti, le palafitte, le canoe-negozio piene di mercanzie e ho ammirato il particolarissimo modo dei pescatori Intha "Figli dell'Acqua" di remare con i piedi, per sospingere le imbarcazioni sul lago, mentre improvvisamente apparivano all’orizzonte templi e pagode.
Ho fatto in tempo anche a vedere nel monastero Nga Phe Kyaung, un notevole edificio interamente costruito in legno di teak che si erge in un punto molto suggestivo del lago, i gatti saltanti, addestrati per far divertire i visitatori. Usanza che mi risulta scomparsa.
Ricordo lo stupore che mi ha colto a Mandalay davanti alla Kuthodaw Paya. È una pagoda costruita dal re Mindon Min nel 1860 con uno stupa dorato centrale di quasi sessanta metri e altri 729 piccoli contenenti steli di marmo con incisioni, sui due lati, di testi sacri. Per questo motivo la pagoda è considerata il libro di marmo più grande del mondo.
Rivedo i fedeli che, nei templi per acquistare meriti, ponevano con cura sugli stupa o sulle statue di Buddha foglie d’oro sottilissime realizzate dagli artigiani dopo un lungo lavoro, nonché il filare degli ombrellini colorati lasciati al bordo delle risaie dello Stato del Mon dalle mondine intente al lavoro.
Ricordo la serenità dei monaci che, con la ciotola in mano nella sfilata mattutina, attendevano con calma le offerte dei fedeli e rivivo la visita alla fabbrica dei cheroot, grossi sigari rollati da mani femminili e in strada pendenti dalle bocche delle signore anziane.
Percepisco ancora il sapore del cibo delle innumerevoli ciotole piene di una gran varietà di vivande che mi venivano servite con l’immancabile riso e con la mohinga, zuppa di pesce con noodles, nelle case dei villaggi che per lo più erano capanne di stuoie intrecciate con stecche di colori diversi.
L’ospitalità mi veniva sempre offerta con un timido sorriso e tanta grazia e dappertutto un mingalabar, il saluto, non è mai mancato, specie dagli scolari che ho incontrato più volte all’uscita delle scuole.
Come le donne e i bambini, per proteggermi dal sole, mi sono messa sul volto la thanaka, polvere di legno ricavata dal tronco dell’omonimo albero sfregando la parte interna contro una pietra.
La tradizione del thanaka è antica: il suo utilizzo si trova riportato in un poema del XIV secolo, scritto dalla consorte del re Razadarit. Ora è divenuto simbolo della protesta civile.
Non ho invece provato il betel, un miscuglio di noce macinata e idrato di calce, che dovrebbe ridare energia e tutti in Birmania lo masticano e per questo hanno i denti rossi.
In una fabbrica ho comprato il tessuto per il longyi, gonna indossata da uomini e donne e che è stato il mio abito per il resto del viaggio.
L’aver girato con i mezzi pubblici in terraferma e navigato lungo il fiume Irrawaddy da Yangon a Mandalay, con una barca il cui ponte ad ogni fermata diventava un mercato pieno di colore, mi ha avvicinato alla gente tanto da poter conoscere più profondamente questo meraviglioso Paese e arrivare, il più possibile, alla sua essenza.
Cosa che ha reso ancora più speciale e indimenticabile il viaggio e mi stringe il cuore pensare a quello che sta passando.
Ogni volto era una storia.
Dalla Birmania passava la variante più meridionale della Via della Seta che collegava il mondo cinese a quello indiano e poi al Mediterraneo e questo favorì la mescolanza di popoli, oggi sono censiti 135 gruppi etnici, raggruppabili in 10 etnie principali con origini, storia, lingua, costumi e stili di vita differenti, immutati nel tempo.
Per la maggioranza sono Birmani, il resto sono gruppi etnici come gli Shan, i Karen, i Kachin, i Chin, i Kayak, i Mon e i Raiane, distribuiti nel Paese secondo la divisione amministrativa: sette Stati, sette Regioni e un Territorio.
Fanno parte dei Karen i Padaung, i “collo lungo”, noti per l’usanza delle donne di farsi allungare il collo due o tre volte più del normale, portando diversi anelli d’oro o di rame.
I Chin, migrati dalla Cina nell’VIII secolo, un tempo animisti sono oggi in maggioranza cristiani.
Gli Shan, di origini cinesi con forti influenze siamesi, sono dediti all’agricoltura e alla pastorizia.
I Rohingya, di fede mussulmana, concentrati soprattutto nello Stato di Rakhine, non sono stati riconosciuti ufficialmente come un gruppo etnico indigeno birmano e, in seguito a violenze di massa dell’esercito, sono stati costretti a rifugiarsi in Bangladesh da dove sembra che provenissero.
In Birmania non c'è una religione di Stato. Il Paese segue prevalentemente il Buddhismo Theravāda che rappresenta il filone più antico del Buddhismo. Praticato sin dai tempi del Regno di Pagan si mescola con credenze animiste come i Nat, nome che viene dato agli spiriti che vivono negli alberi e offrono protezione.
Sono rimasta affascinata dal loro culto che si perde nel tempo, il cui inizio certamente risale a quando il ritmo della vita era legato alla natura. Anche se il re Anawrahta (1044-1077), nel fondare il Primo Impero Birmano, decise di adottare il Buddhismo come religione ufficiale, riconobbe una lista di 37 Nat.
La loro presenza è ancora molto viva nella spiritualità del popolo birmano specie nelle realtà rurali. In ciascun villaggio ci sono un paio di templi dedicati ai Nat locali e quello che vigila sulla casa è rappresentato da una noce di cocco appesa al tetto e ogni giorno i componenti della famiglia vi si rivolgono e offrono doni.
Nelle città la loro venerazione è contrastata dai religiosi più nazionalisti. Keziah Wallis, dell’università Victoria di Wellington in Nuova Zelanda, ritiene che la frattura sia emersa per la prima volta nel diciannovesimo secolo, quando si è affermata un’interpretazione del Buddhismo come filosofia razionale libera dalle forzature religiose.
A Taung Pyone ogni anno, ad agosto, centinaia di migliaia di pellegrini, provenienti da tutta la Birmania, si presentano in questo piccolo centro abitato per entrare in comunione con i Nat offrendo banane, noci di cocco, alcol e denaro, tramite un sacerdote che accoglie e accetta le elargizioni dei fedeli.
Mingalabar Birmania che i Nat ti siano propizi.