Proseguendo il nostro incontro con i fratelli Di Massimo, stavolta mi occupo di Maurizio Di Massimo, un grande esperto di yoga, formatosi sugli insegnamenti di Sri Aurobindo, La Merè, Andrè Van Lysebeth, Padre Anthony Elenjimittam, swami Satyananda e frequentando importanti accademie di yoga , ma soprattutto fondatore di Yoga Rasa, centro yoga, ayurveda e meditazione di Pesaro dal 1991.
Maurizio ha maturato esperienze di insegnamento dello yoga in vari ambiti come la preparazione al parto, lo yoga per bambini, il sostegno alla tossico-dipendenza, nelle case circondariali, nel completamento alla preparazione atletica per sportivi professionisti, nel campo dello yoga terapia, in ambito artistico (musicisti e cantanti), nella scuola e perfino nella conduzione di corsi di yoga per la vista e il vedere.
Alla conoscenza e pratica delle discipline yoga ha affiancato uno studio appassionato dell’ayurveda tra corsi, viaggi, convegni, conferenze e consulenze. Tutto questo a completamento della sua principale competenza, lo studio delle piante curative attraverso la spagiria, la fitoterapia, la fitoalimurgia, la floriterapia, l’aromaterapia e naturalmente l’ayurveda e con una passione profonda nei confronti dell’alchimia.
Quali strumenti fornisce lo yoga alla nostra mente scissa tra razionalità e intuito?
Albert Einstein affermava: “La mente intuitiva è un dono sacro e la mente razionale è un servo fedele. Abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono”.
La pratica dello yoga (in un’accezione più ampia non centrata solo su una pratica fisica, ma che includa un’educazione del pensiero frutto della meditazione e di una salute anche spirituale) ci permette di scoprire che dietro la mente ordinaria, orientata solo sulla percezione sensoria-motoria, immersa nel suo inarrestabile mormorio e frenesia, che al di là della fede esclusiva nella mente razionale come unico strumento di indagine della realtà, esiste una capacità di percezione e conoscenza più profonda.
Lo yoga ci rende consapevoli che il nostro pensare ricorrente e quotidiano è di una mente convergente, categoriale, di una coazione al ripetere mentale, quel nietzschiano “perpetuo ritorno all’identico”. La pratica dello yoga ci munisce, invece, di una mente divergente, creativa, immediata, flessibile, multidimensionale: una mente meditativa e intuitiva che ci avvicina alla intelligenza del cuore. La radice etimologica sanscrita vid include un vedere e un conoscere, una modalità che permette l’insieme di razionalità e visione intuitiva, da cui scaturisce una percezione profonda che penetra e avvolge l’oggetto della nostra indagine, di scoprire, così, la verità, l’aletheia, nel senso greco dello ‘svelamento di ciò che è nascosto’. L’intuito, dono sacro e sottile dell’intelligere, che attraversa come una saetta la nebbia dell’incertezza, del dubbio, della confusione, ci riporta, nel suo senso etimologico, all’ atto di “guardare o vedere dentro”.
In che modo lo yoga può far breccia nella cultura occidentale?
Lo yoga ha già fatto breccia nella cultura occidentale da tempo, ora principalmente come pratica salutistica, per i più solo come una “ginnastica” efficace. Ma è proprio la scienza occidentale che ne sta riconoscendo gli esatti fondamenti scientifici frutto di una tradizione antichissima che ha sempre avuto come oggetto e proscenio di svolgimento l’essere umano. Un corpus di conoscenze non esclusivo per la tradizione culturale indiana, ma un regalo per il mondo sempre più in preda della inquietudine, della irrequietezza mentale e dell’allontanamento da una visione spirituale. Lo yoga indica che l’essere umano è un articolato composto di corpo, vitalità, mente e spirito. Lo yoga è un antico messaggio nella bottiglia lanciato dai sapienti maestri (rishi) nel flusso dell’oceano del tempo con la saggia certezza che sarebbe stato di grande utilità in questi tempi burrascosi e tormentati. Un appello rivolto all’umanità e ad una cultura occidentale, che non ne colga solo l’aspetto esteriore, formale, edonistico, ma l’essenza più profonda composta di semplicità, rispetto, pazienza e amore, tolleranza, ecologia. Magari riflettendo sulle parole del grande Sri Aurobindo:
Ogni yoga è, per sua natura una nuova nascita; è una nascita fuori della vita ordinaria, della vita materiale mentalizzata in una superiore coscienza spirituale, una più grande e più divina esistenza.
Lo sguardo è lo specchio dell’anima: in quale maniera gli insegnamenti yoga possono contribuire alla sua evoluzione?
L’occhio, e di conseguenza l’atto del vedere, condividono con l’anima la loro natura ignea. Il vedere è attraverso la luce così come l’anima è un principio luminoso. Colui che vede non lo effettua solo attraverso gli occhi e il cervello, ma coinvolge il sé più profondo, non a caso definito anche come l’osservatore, il testimonio. Le esperienze che noi vediamo-conosciamo vengono raccolte nella loro essenza più profonda dal nostro sé centrale. Il fuoco della comprensione le brucia purificandole come in una distillazione, togliendo la materia inutile e rendendole come un concentrato, come una essenza che immagazziniamo nella nostra profondità. Nella tradizione antica esoterica si parla della apertura di un occhio di coscienza, di un centro che integra la visione lunare e solare simboleggiato come un occhio trasversale al centro della fronte nelle figure delle divinità o degli illuminati. È noto anche come Ajna chakra, chakra della conoscenza sottile, l’occhio dell’intuizione, della percezione profonda, della saggezza, indicando così che gli occhi guardano ma non vedono e, solo questo, l’occhio unico, centrale, in equilibrio, ha la vera visione conoscitiva ed evolutiva.
Continuo a trarre insegnamento da quello che diceva un caro amico che non ho mai incontrato se non nelle mie meditazioni, divenuto cieco di corpo, ma non di spirito:
Moltissimi uomini hanno posto la massima cura nell’ammobiliare la loro casa esteriore senza mai occuparsi della casa interiore. E quando un fatto qualsiasi li pone nella necessità di abbandonare la bella casa, fatta per gli occhi corporali e rifugiarsi in quella interiore, si trovano davanti ad un grande sconosciuto: se stesso.
Cosa aggiunge la ‘spagiria’ alle tue competenze erboristiche?
La spagiria è il completamento del mio percorso erboristico, è l’allontanarsi dalla posizione antropocentrica di sfruttamento delle piante e, al contrario, il porsi di fronte alla pianta come un’entità vivente.
Nei testi alchemici sovente si cita “questo è lavoro di donne” con differenti significati che io colgo, invece, come l’invito ad essere “lunari” cercando l’insegnamento del filo sapienziale della tradizione erboristica femminile, all’essere sul piano di esistenza vegetale in uno stato ricettivo, percettivo, rispettoso.
È stato lo scoprire che gli antichi maestri iniziavano l’opera con le preghiere di lode e di invocazione alla volontà divina accantonando gli intenti lucrosi, indirizzando gli sforzi per creare quello che potesse essere di beneficio per i disagi degli esseri umani ad avvicinarmi a questa disciplina.
Il botanico vedrà nella pianta l’oggetto da classificare, il chimico-farmacista si focalizzerà sull’analisi ponderale dei principi attivi, il poeta si stupirà della bellezza e dell’armonia, ma solo l’alchimista opererà includendo tutti questi aspetti, agendo nella consapevole umiltà di essere un semplice “operaio” collaborativo con la Natura, o come si appellavano gli antichi maestri, un agricola: colui che lavora nel campo. Il compito dell’alchimista dovrebbe essere di elaborare le sostanze della natura rendendole più sottili e assimilabili (in termini moderni biodisponibili), il “separare” (solve) e il “riunire” (coagula) potenziando le proprietà curative e trasformative utili per l’essere umano, il produrre una quintaessentia: “...la proprietà essenziale di una cosa, la sua natura, il potere, la virtù e efficacia curativa”.
La spagiria è stata, oltre che l’acquisizione di una metodica di laboratorio antica, ma ancora tecnicamente ineccepibile, la comprensione di una visione energetica e spirituale del mondo vegetale, fondata sulla suddivisione universale tripartita: sale, mercurio, zolfo. dove il sale è il piano materiale, strutturale, la forma; il mercurio il piano energetico, vitale, dinamico; lo zolfo il piano sottile, la personalità, la specificità del vegetale. Nell’ambito operativo il sale è la parte minerale, il mercurio l’alcool estratto per fermentazione, lo zolfo gli oli essenziali. Questa alchimia verde è una fitoterapia spirituale, una via di trasformazione della materia vegetale e personale.
E la tua visione ayurvedica?
L’ayurveda non è solo la medicina strutturata più antica che conosciamo, ordinata in branche mediche, con una ricca farmacologia erboristica, e altro tanto da renderla una funzionale e moderna medicina, ma una autentica filosofia della salute e della vita: non indica solo la cura delle malattie, ma la via per il benessere e la felicità degli esseri umani. L’ayurveda rammenta la stretta relazione tra natura, cosmo, creazione e gli esseri viventi. Stare bene in salute, nel senso più olistico del termine, è un atto di consapevolezza, una modalità di esistenza orientata su questa visione. Nascere, esistere, è affrontare la vita comprensiva di salute e malattie. Vivere nell’armonia con se stessi, nel rispetto degli altri e della natura (inclusiva di ogni essere vivente) è il fondamento di una condizione sana ed equilibrata.
Vivere richiede disciplina, attenzione e stili di vita dove la salute viene considerata come un bene da amministrare, da gestire e anche da donare. Non si tratta di divenire dei “ragionieri” calcolatori, ossessionati dalla prevenzione, ma di godere e gioire della vitalità, della condivisione e dell’aiuto verso tutti. La salute, lo stare in salute è un’arte, dove la malattia e il disagio sono maestri, insegnanti, allenatori. L’uomo artista della propria vita sa saggiamente essere allievo della malattia e maestro nello stesso tempo dell’insegnamento.
In Ayurveda la cura di se stessi è concepita anche come lo strumento che agevola la crescita evolutiva dell’anima. Nascere significa ottenere un corpo, saperlo usare: è la capacità di dare all’anima che si incarna la possibilità di una crescita evolutiva. Il corpo è sacro così come la medicina, perché sia nella conoscenza della prevenzione che nell’attuazione della cura e della guarigione, il malato, che è il medico (o il medico di se stessi) operano nell’ottica delle leggi dei destini. Attuando così le norme di una vita sana, rispettosa e felice manifestiamo un percorso evolutivo di saggezza.
In cosa consiste la “dottrina delle segnature”?
La teoria delle segnature si ispira all’idea che nelle forme, nei colori, nei segni, si possa trovare un’indicazione terapeutica. La segnatura inizia da una modalità di osservazione, di percezione intuitiva e di riflessione analogica: ad es. osservando la pianta del Salice si valutava che, vegetando negli ambienti adiacenti all’acqua, potesse avere in sé sostanze capaci di contrastare le malattie dell’“umido” nel corpo umano, le forme reumatiche e influenzali. Si utilizzava così l’acido salicilico che successivamente la modernità scientifica avrebbe sintetizzato come acido acetilsalicilico (vedi la nota aspirina). O che la conformazione del gheriglio della noce abbia un’influenza nutritiva sulla struttura cerebrale ricordandone la forma; segnatura confermata dalla presenza delle vitamine del gruppo B (in particolare della B12) e da sani grassi polinsaturi.
Nonostante lo stimolo all’indagine e all’osservazione acuta della realtà materiale, la teoria delle segnature ha creato in determinati periodi storici una stagnazione del pensiero erboristico ed alchemico, obliando la vera e fondamentale ricerca dell’archetipo vivente che la pianta incarna e manifesta, la condivisione di ciò che “è divino. La segnatura come indicatore degli archetipi costituenti e permeanti tutta la realtà, l’archeo di Paracelso”. Questo innovatore della medicina descriveva la natura come un grande libro scritto con una grafia cosmica e divina dove le forme e relativi processi parlano della manifestazione delle leggi superiori: il monito di Ermete Trimegisto “così come in alto in basso”. Da non dimenticare il trattato De signatura rerum (1621) del filosofo e mistico tedesco Jacob Bohme:
D’altra parte noi vediamo in questo mondo in che maniera l’essenza unica interiore si sia manifestata con la sua somiglianza secondo il desiderio della generazione e in che modo si è diversificata, per il lavorio interno, nelle stelle, negli elementi, nelle piante e in tutte le creature.
Insomma Maurizio Di Massimo è un personaggio dai mille interessi, colto e sensibile, un eroe che viaggia per Universi paralleli, appartenenti al mondo visibile, ma soprattutto a quello invisibile, un lettore attento del grande libro magico della natura, immerso tra i suoni delle piante, gli insegnamenti degli antichi maestri e la sottile voce del cosmo, insomma una sorta di moderno “alchimista”.