Andando per matrimoni o in ristoranti modaioli ci si imbatte in menu che cercano di stupire con nomi altisonanti come armonia di appetizer o cestino di parmigiano con petali di bresaola, talvolta con nomi di dubbio gusto come l’ultimo buchino o e per digerire, oppure con articoli sparsi come il risotto allo zafferano con il ginepro e la liquirizia.
Molto più fantasiosi sono dei piatti tipici della tradizione italiana i cui nomi derivano talvolta dalla similarità con altri elementi della realtà e altri dalla fantasia di chi l’ha inventati o dal caso.
Minne di vergine (letteralmente seni di vergine) è il nome di due dolci diversi. Il primo, più conosciuto, quello di catanesi delizie di ricotta su pan di Spagna ricoperte da candida glassa e decorate con una ciliegina candita, create in onore della Santa patrona, Agata, a cui venne strappato il seno per aver osato rifiutare il governatore romano Quinziano. Le seconde, della tradizione di Sambuca di Sicilia nell’agrigentino, sono invece il nome di un dolce di pasta frolla ripieno di crema, zuccata, scaglie di cioccolato e decorato con un pallino sull’apice che, infornato, diventa più scuro; il nome di questi dolci inventati nel ‘700 si pensi derivi dalla suora che li creò, Virginia della Menna, ma secondo altri deriva da un’antica tradizione siciliana legata a culti femminili.
Nella forma simili a questi, sono le pugliesi tette delle monache chiamate anche, più pudicamente, sospiri, soffice pan di Spagna farcito con crema pasticcera o crema Chantilly che, a Guardiagrele, viene presentato a gruppi di tre perché, secondo la leggenda, deriva dall’abitudine di alcune suore di inserire al centro del petto una protuberanza in modo da rendere meno evidente il loro seno.
In tema di seno, troviamo la campana zizzona, cioè seno grande, una gigante mozzarella di bufala tipica della zona di Battipaglia e che arriva a pesare anche 15 chili.
Nulla hanno a che vedere con le monache le uova alla monachina, piatto della tradizione napoletana e siciliana consumato tipicamente a Pasqua in cui le uova sode vengono ricomposte con aggiunta di besciamella o ricotta e poi impanate e fritte.
Con Napoli nel nome, che però è anche questo totalmente slegato dalla preparazione, sono le rame di Napoli, biscotto morbido ricoperto di cioccolato tipico di Catania. Nulla ha a che vedere con alberi e rami e il nome forse deriva da una moneta in rame coniata dai Borbone successivamente all’unificazione del Regno di Napoli con il Regno di Sicilia.
Ritornando all’ambito ecclesiastico, c’è un tipo di pasta e un tipo di gnocco il cui nome allude alla golosità dei preti o, in Romagna, all’augurio di strozzarsi che veniva fatto in questa regione anticlericale in cui lo Stato Pontificio imponeva tasse e costumi rigidi. Parliamo degli strozzapreti o strangozzi o strangolapreti o strangulaprevati (in napoletano) o “strozaprit” (in romagnolo). Una pasta versatile che si presta a condimenti diversi e che il Belli cita nei suoi Sonetti:
La scampaggnata
Nun pòi crede che ppranzo che ccià ffatto
Quel’accidente de Padron Cammillo.
Un pranzo, ch’è impossibbile de díllo:
Ma un pranzo, un pranzo da restacce matto.
Quello perantro c’ha mmesso er ziggillo
A ttutto er rimanente de lo ssciatto,
È stato, guarda a mmé, ttanto de piatto
De strozzapreti cotti cor zughillo.
Ma a pproposito cqui de strozzapreti:
Io nun pozzo capí ppe cche rraggione
S’abbi da dí cche strozzino li preti:
Quanno oggni prete è un sscioto de cristiano
Da iggnottisse magara in un boccone
Er zor Pavolo Bbionni sano sano.(Non puoi credere che pranzo che ci ha preparato quel diavolo di padron Camillo. Una cosa impossibile a dirsi: da restarci matti. Ma quello che ha messo il sigillo a tutta quella gran profusione, è stato, senti a me, un enorme piatto di strozzapreti cotti col “sughillo”. Ma a proposito di strozzapreti, io non posso capire per quale ragione si debba dire che strozzano i preti, quando ogni prete, con tutta la sua aria ingenua, è in grado di inghiottire in un solo boccone pure il signor Paolo Biondi.)
Gli strozzapreti a forma di gnocco si trovano sia al Nord, fatti con pane raffermo, spinaci, uova e grana, che in Campania, fatti, a Napoli, semplicemente con farina e acqua e nel Salento con le patate.
Dal sacro al profano, passiamo dagli strozzapreti agli spaghetti alla puttanesca, semplicemente con salsa rossa, olive e capperi, tipico della cucina partenopea con una variante romana che prevede l’aggiunta di acciughe e l’utilizzo delle penne al posto degli spaghetti. L’origine di questo nome non è certo, secondo alcuni fu ideata da un oste per rifocillare gli avventori di una casa di facili costumi, secondo altri fu inventato da una prostituta francese, Yvette, che volle rendere omaggio al mestiere più antico del mondo, secondo altri ancora fu inventata dall’architetto Sandro Petti, chef del suo Rancio Fellone, quando una sera aveva finito tutte le scorte ma degli amici insistettero che preparasse loro qualcosa perchè avevano molta fame quindi sarebbe andata bene anche “una puttanata qualunque”.
Parlando di nomi strani, nell’ambito dei salumi, c’è una grande presenza di nomi che richiamano apertamente la sessualità. Così troviamo le palle del nonno, prodotto tipico umbro leggermente affumicato e composto da vari tipi di tagli di carne di maiale, caratterizzato dalla sua insaccatura in budello a nido d’ape e dalla forma allungata, da cui il nome; i coglioni di mulo, noti anche come mortadella di Campotosto (Abruzzo), un salume ormai quasi introvabile che deve il nome sia alla forma ovale del confezionamento sia al fatto che sono sempre legati in coppia per poter essere stagionati a cavallo di un bastone o di una canna; il culatello di Zibello nella bassa parmense, infine, considerato il re dei salumi perchè fatto con una parte pregiata del maiale della quale si asportano, a differenza che nel prosciutto, cotenna, grasso, ossa e fiocchetto. Si dice che il culatello abbia l’aroma della nebbia; chiamato all’origine investitura, perché culatello era considerato un termine volgare, vanta origini medievali e solo nel 1735 viene chiamato col nome con cui è oggi conosciuto.
Sempre in ambito di riferimenti sessuali troviamo il ligure brandacujun, ricetta a base di patate e stoccafisso lessati e poi “brandati”, cioè scossi energicamente, il cui nome deriva dal fatto che la brandatura veniva fatta dal più stupido della ciurma che non era adatto a fare altro. Altra spiegazione per questo piatto è che dovendo prepararsi scuotendo un tegame pesante, il marinaio si posizionava con le ginocchia piegate tenendo il tegame quasi a terra per cui in questa posizione non si agitava solo il tegame ma anche alcune parti intime del marinaio.
Il cazzimperio romano, cioè il pinzimonio in cui intingere ortaggi crudi, secondo alcuni deriva dalla cazza, nome romano per il mestolo, e secondo altri, invece, deriva dall’effetto afrodisiaco che avrebbe. Il nome venne poi cambiato in pinzimonio, dall’unione di pinza e matrimonio cioè intingere ma solo nel matrimonio.
Un ultimo piatto dal nome che evoca sessualità sono i cazzilli di patate, una specie di crocchè, ricetta tipica di Palermo.
Tre cibi dal nome più dispregiativo sono i grattaculi, una parte spinosa delle zucchine, che deve il nome al fastidio che danno a chi si abbassa per raccoglierli, il formaggio Puzzone di Moena (Trentino), dall’odore intenso e forte, e il formaggio veneto chiamato Bastardo del Grappa che deve il nome a una di tre ragioni: perché era fatto mischiando latte di vacca, pecora e capra, o perché fatto con il latte che non andava bene per il Morlacco del Grappa, o infine perché sul Grappa non viene prodotto né l’Asiago né il Montasio.
Dal Monte Grappa, il pensiero va presto all’esercito e vengono in mente i biscotti bersaglieri, tipici della zona di Catania. Ricoperti di glassa al cacao e venduti insieme ai biscotti regina, che invece sono bianchi e ricoperti di glassa al limone. Sono chiamati in dialetto “viscotti ca liffia” perché liffia in siciliano significa lisciata e il verbo alliffiare significa adulare o convincere con dolcezza, mentre il nome di bersaglieri sarebbe legato allo sbarco in Sicilia, nel 1943, degli americani che venivano chiamati genericamente bersaglieri e per i quali venne creato questo biscotto utilizzando la cioccolata che veniva regalata agli isolani dai soldati a stelle e strisce.
Ultimo nome strano di questa carrellata, la neonata, il cui nome commerciale è bianchetti, cioè il pesce appena nato, che può essere di tipi diversi: alici, triglie, sarde, pagelli pescati con le reti a strascico. Ormai raramente reperibile grazie alla normativa che mira a proteggere il patrimonio ittico del nostro mare, la neonata viene preparata sotto forma di frittelle o polpette, con la pasta o, talvolta, consumata cruda con olio, limone e pepe.