Nel Cinquecento, a Venezia, si usava cucire monete sui propri abiti per non perderle: erano le prime paillettes, solo che non sfilavano in passerella ma per le calli venete e si chiamavano zecchini. Successivamente queste monete diventarono un accessorio e furono sostituite da dischi metallici. Dobbiamo però arrivare ai primi decenni del Novecento per ritrovare le prime paillettes, formate da gelatina e poi da plastiche, la cui diffusione si pensa sia dovuta ad un ritrovamento tra i paramenti del faraone, nella tomba di Tutankhamon, nel 1922. Dai costumi teatrali agli abiti da sera, nel tempo questo decoro è diventato un trend del fashion system, reso elegante da un paio di tacchi vertiginosi e “sdrammatizzato” anche con un denim.
Abbiamo intervistato Benedetta Grigolin, giovane stilista veneta, che celebra l’effervescenza di una donna dinamica e cosmopolita, che non ha paura di osare, attraverso la capsule collection del suo brand La Zarina, dove le paillettes sono protagoniste assolute.
La Zarina, come nasce questo nickname?
Mi chiamavano così quando lavoravo a New York, e poi ho scoperto essere il nickname di mia nonna materna. È un tributo alla persona più importante della mia vita.
Tre aggettivi per descriverti e tre aggettivi per descrivere il brand.
Ritengo di essere una donna con i piedi per terra, ma che non ha paura di osare. Una grande lavoratrice, che però non perde mai l’ironia e l’attitudine a sognare. Caratteristiche che si riflettono nelle mie creazioni e nel mio brand, che definirei “sparkling”, femminile ed estroso, senza mai tradire il buon gusto.
Nella tua carriera iniziale, hai collaborato come assistente di alcuni fashion editor milanesi: cosa hai imparato e che ricordi hai di quel lavoro?
È un lavoro duro, faticoso e impegnativo. Non esiste vita privata e non esistono orari e weekend. La maggior parte delle volte addirittura, non è previsto un compenso. I grandi nomi dell’editoria di moda richiedono precedente esperienza anche per un semplice stage non pagato perché ti chiamano a rappresentare la reputazione della casa editrice e tu dovrai esserne all’altezza. Di stage in stage sono diventata sempre più sicura di me stessa e del da farsi. Dal primo all’ultimo stage non ho fatto altro che rubare con gli occhi quello che facevano le editor in redazione. Lo stage è anche un’opportunità per guardarsi intorno, osservare, ascoltare conversazioni. Tutto ciò offre una panoramica a 360 gradi su quello che è il vero processo di realizzazione di una rivista di successo, perché nessuno ti insegna nulla. Mi è stato chiesto di fare cose che non mi piacevano: comprare il caffè, portare gli abiti del direttore in lavanderia e altre cose che mi facevano chiedere: “Ma questo cosa ha a che fare col giornalismo di moda?”. Quel che mi aiutava in queste circostanze era sapere che presto avrei inserito quel grande nome sul mio CV a prescindere da cosa mi stessero facendo fare. Le responsabilità sono poi arrivate piano piano, di giorno in giorno, in base al grado di sicurezza mostrata… e ho avuto così la fortuna di poter lavorare con grandi nomi che stimo oltre ogni misura come Sissy Vian, Ezra Petronio, Anya Ziourova e tante altre.
La passione per la moda è legata ad un aneddoto particolare?
È qualcosa che mi accompagna fin da quando ero una bambina che frugava nel guardaroba di sua madre. Da qui deriva infatti gran parte della mia ispirazione agli anni Ottanta. Sono sempre stata attratta e affascinata dal “luccichio”. Provengo da una famiglia di imprenditori nel campo dell’edilizia e delle costruzioni, un campo difficile per una donna, con il quale ho dovuto interfacciarmi sin da molto piccola. Sono stata cresciuta nell’ottica del lavoro, quello duro, della disciplina e dei sacrifici. Forse è stato proprio questo background a far sorgere in me la necessità di liberare le mie emozioni e la mia creatività, di dare sfogo all’altra parte di me, quella sognatrice, che vede la vita anche nella sua leggerezza. La moda ha rappresentato e rappresenta per me un mezzo concreto per esprimere tutto questo.
La scrittrice Simone de Beauvoir diceva: “C’è qualcosa nell’aria di New York che rende il sonno inutile”. Cosa ti ha affascinato della Grande Mela e quanto hai trasferito del fascino newyorkese nel tuo brand? Quali ricordi custodisci di questa metropoli, aneddoti particolari legati al mondo del fashion?
New York è la città delle grandi opportunità, le parole della canzone di Frank Sinatra: “… If I can make it there , I'll make it anywhere”, sono vere. È una città dura, che dà tanto e che toglie tanto. È una città dai mille aspetti, ogni quartiere ha una sua personalità, come la tranquillità di Central Park, la vertigine dei grattacieli di Times Square (che io non amo) e la movimentata vita notturna di Soho che è anche uno dei quartieri più alla moda e chic di tutta Manhattan. È una città che non si ferma mai, abitata da pendolari soprattutto con una gentilezza innata. Ricordo la mia prima Fashion Week, quando assistevo l’allora fashion editor Lester Garcia, era il febbraio 2014, c’erano -15 gradi, vicino a lui, alla sfilata i nomi più importanti del fashion system, è stata l’esperienza più bella della mia vita.
Differenze tra il fashion system italiano e quello newyorkese?
Credo che il Made in Italy sia un concetto unico e a sé. Non è riconducibile solo ad un’indicazione di provenienza geografica, ma ingloba un insieme di valori e significati profondi, uno stile ben riconoscibile ed una strategia produttiva basata sulla qualità delle materie prime e dei processi, oltre che sull’attenzione ai dettagli. Questo è ciò che ha portato la moda del nostro Paese a distinguersi con un tratto ed un codice stilistico ben preciso e molto forte e a qualificarsi come una delle prime eccellenze a livello globale. A New York, si può facilmente notare come l’interscambio di etnie e culture diverse influenzino la moda, rendendola eclettica, dinamica, talvolta estrosa e per questo sicuramente molto affascinante!
Hai lavorato a New York come Marketing & Communication Manager di una nota azienda del mobile e di design, pensi che il fashion e il design abbiano degli elementi in comune?
Il fashion e il design sono molto simili. Si basano entrambi sulla cura e il dettaglio, la ricerca, il materiale della più alta qualità e che dura nel tempo. Io ho avuto la fortuna di lavorare in un’azienda, Poliform, che è un’eccellenza mondiale e che ha contribuito ad affinare il gusto del bello, dell’eleganza.
Fashion e design sono parte dello stesso mondo, che si influenzano a vicenda e si rincorrono, sono i colori di una vita che sarebbe altrimenti in bianco e nero: ti vesti bene per sentirti bene. In casa collezioni oggetti di design per lo stesso motivo. E sono entrambi sinonimo di esplorazione: forse sono quello che ci rende pionieri in un mondo di cose già viste e scoperte.
Da dove prendi l’ispirazione dei tuoi modelli?
Dagli anni Ottanta, reinterpretandoli in chiave contemporanea. Un’epoca che porto nel cuore e che mi affascina tantissimo per la stravaganza che ne contraddistingue lo stile, i colori forti, vivaci e le forme ed i volumi geometrici che accompagnano l’ascesa di un nuovo concetto di donna, che lotta per la sua indipendenza ed affermazione.
A quale tipo di donna è dedicata la tua collezione?
A tutte le donne sicure di sé, che non hanno paura di osare, ma senza mai rinunciare all’eleganza. Ad una donna effervescente e dinamica, cosmopolita, che ama viaggiare e che vive ed ama il fermento delle capitali metropolitane, un po’ come ho fatto io.
Una collezione interamente “sparkling” per l’utilizzo delle paillettes in ogni tuo capo. Come nasce questa idea?
Come menzionato sopra, sono cresciuta con un’impostazione molto rigida, provenendo da una famiglia di imprenditori e grandissimi lavoratori, in un campo che per noi donne non è mai facile. Ho ereditato l’attitudine al lavoro, al sacrificio ed alla disciplina ed ora, affiancando mio padre tutti i giorni in azienda, di cui seguo gli affari generali, mi scontro con un ambiente prettamente maschile e molto duro. Le paillettes ed il loro luccichio rappresentano ed esprimono l’altra parte di me, l’altra faccia della medaglia della mia personalità, quella stravagante ed estrosa, e la mia visione della vita nella sua brillantezza ed effervescenza.
La nuova Capsule Collection 2021 di La Zarina, è un tributo all’eleganza retrò anni Ottanta. Cosa vuoi che le tue clienti indossino di quei tempi?
Adoro i capi dalle spalle sagomate e geometriche, dal taglio quasi maschile. Ne sono affascinata sia a livello stilistico che di significato. Come tutti sappiamo, gli anni Ottanta hanno rappresentato un’epoca di grandi cambiamenti a tutti i livelli, sociale, politico ed economico. I capi femminili dalle maxi spalle sono forse proprio l’emblema del nuovo ruolo che la donna rappresentava: “spalle larghe” come quelle dell’uomo, per esprimere, quasi a volerlo ostentare, il successo raggiunto ed il suo empowerment.
Come hai affrontato la pandemia visto il brand emergente?
Mi sono rimboccata le maniche e ho cercato di rimanere positiva, decidendo di lanciare la nuova Capsule Collection 2021, nonostante il momento non fosse dei migliori. I miei capi di paillettes emanano lucentezza ed esprimono effervescenza, e questo può sembrare in contrasto con il momento attuale, in cui siamo fortemente limitati nel condurre la nostra vita sociale e ludica. Mi sono rivolta a tutte quelle donne che come me non smettono di sognare, e proprio in un momento così buio scelgono tutti i giorni di non rinunciare alla loro femminilità e di prendersi cura di sé, concedendosi dei momenti e delle occasioni un po’ “sparkling” per brillare!