In questi giorni orientarsi tra la crescente ed incontrollabile massa di informazioni dedicate alla pandemia e alle sue conseguenze è davvero difficile, anche perché coloro che parlano in nome della scienza esprimono spesso opinioni diverse e perfino contrapposte.
Va subito detto che la variabilità delle opinioni non è di per sé un fatto negativo, anzi, di fronte a problemi ancora aperti è bene avere un atteggiamento critico e mantenere viva la discussione. La scienza, infatti, procede per prove ed errori e ognuno, pur con l’onere della prova, ha il diritto di esprimersi liberamente senza preclusioni e censure. Come ci ricorda Umberto Eco: “Nella scienza non vale il giudizio della maggioranza ma è democratica in quanto alla fine prevale il giudizio della comunità scientifica che si stabilizza nel corso degli anni e talora … dei secoli”.
La peculiarità di questa situazione è dovuta al fatto che diversamente da quanto avviene in altri ambiti scientifici, per la medicina le discussioni non sono riservate agli scienziati ma sono di dominio pubblico. Nessuno, per esempio, sarebbe interessato a partecipare alle dispute tra matematici e fisici sui problemi ancora aperti relativi alla meccanica quantistica e alle sue applicazioni, mentre per quanto riguarda la medicina le questioni aperte e le nuove “scoperte” sono subito riprese dalla stampa, diventano oggetto di talk show televisivi e vengono diffuse sui social network con l’intento di destare clamore più che approfondimenti. Evidentemente, visto che si tratta della propria salute e di salvare la pelle tutti si sentono in diritto di esprimere i propri convincimenti creando così delle fazioni pro e contro come se la scienza fosse una questione di scelta tra bianco o nero.
In questo contesto, la scarsa familiarità con i principi che regolano il metodo scientifico ci espone al pericolo di accettare in modo acritico qualsiasi novità o di schierarci in modo ideologico più che scientifico, anche quando le scelte potrebbero rivelarsi più dannose che utili.
Gli inganni, le illusioni, le false interpretazioni, gli errori che affollano la ricerca biomedica sono tantissimi e complessi e la loro sia pur sintetica descrizione richiederebbe molto tempo. Qui mi limito a stuzzicare l’interesse con tre esempi.
Fallacia narrativa: giudici e profeti del giorno dopo
Ormai da molti mesi non si parla altro che di virus: da dove vengono, come sono fatti, come si diffondono, come si previene il contagio, come ci si ammala, come si guarisce e molto, molto altro ancora. In questo ingorgo informativo, uno degli esercizi più popolari, a cui non si sono sottratti neppure i cosiddetti esperti, è stato quello di ricostruire i fatti, in particolare quelli relativi alle prime fasi della pandemia, interpretandoli secondo il proprio punto di vista, impartendo giudizi sulle persone coinvolte e spiegando alla gente che sarebbe bastato poco per far assumere agli eventi una piega diversa e molto più favorevole. Insomma un modo più o meno elegante per riproporre la storia ricostruita con i se.
Come ho già avuto modo di dire in uno dei precedenti articoli apparsi su questo giornale, questo modo di procedere si addice ai giudici e ai politici ma certamente non agli scienziati. Nel raccontare ciò che è successo, infatti, si è costretti a semplificare la realtà mettendo in ordine gli eventi e selezionando i personaggi in ragione del senso che si vuole attribuire alla storia. Il quadro d’insieme ovviamente non può essere imparziale perché dipende dal punto di vista dell’autore e difficilmente riusciamo a sottrarci al desiderio d’interpretazione. Chi racconta la storia, infatti, tra tutte le informazioni disponibili (che non sono mai tutte quelle possibili), seleziona quelle che più si prestano a dimostrare un certo particolare convincimento, avvalendosi a questo fine anche delle informazioni raccolte a posteriori. Un po’come se un giocatore di roulette potesse scegliere su quale numero puntare il proprio denaro dopo che la pallina si è fermata.
In pratica, come gli storici ben sanno, gli eventi possono essere letti e riletti in vari modi e si può sempre trovare un evento, magari marginale, che avrebbe potuto cambiare completamente il corso della storia. La Prima guerra mondiale fu scatenata dall’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’impero Austro-Ungarico? La sconfitta di Waterloo fu provocata dal ritardato attacco finale a causa dei violenti temporali della notte precedente?
In realtà la vita procede in modo aperto, costellata da un’infinita serie di avvenimenti interdipendenti, che possono incanalarsi, spesso in modo casuale, su binari differenti, sui quali solo in parte possiamo intervenire. Secondo Niklas Luhmann (uno dei più eminenti sociologi tedeschi del Novecento): “Gli uomini non sono fautori del proprio sviluppo, ma semplicemente un elemento all’interno di grovigli sistema-ambiente altamente complessi”.1
Insomma dovremmo fare molta attenzione a ricostruire i fatti e ad attribuire le responsabilità di quanto è accaduto nelle fasi convulse e imprevedibili (perlomeno nelle dimensioni e nei tempi in cui si sono presentate) che hanno caratterizzato lo scoppio della pandemia.
Di certo dalla descrizione dei fatti si possono dedurre utili indicazioni per il futuro (guai se non dovessimo apprendere dall’esperienza!) ma solo sospendendo il giudizio possiamo metterci nelle condizioni migliori per individuare gli eventuali errori. Comunque cronache, inchieste e rapporti non dovrebbero essere utilizzati per stabilire relazioni di causa-effetto di ciò che è successo.
Fallacia ecologica: troppo semplice per essere vero
Nel tentativo di chiarire le possibili cause della recente pandemia, hanno destato particolare interesse alcuni studi che segnalavano l’associazione tra l’inquinamento atmosferico e la diffusione del virus nella popolazione. Uno di questi studi, per esempio, utilizzando i dati medi provinciali di concentrazione giornaliera di polveri sottili rilevati dalle Agenzie Regionali per la protezione Ambientale (ARPA) e i dati sul numero di casi infetti da Covid-19, riportati sul sito della Protezione Civile, ha messo in evidenza una relazione lineare positiva tra il superamento dei limiti di legge delle concentrazioni di polveri sottili e il numero di casi di Covid-19. Sulla base di questi dati molti giornali hanno concluso che la concentrazione di particolato nell’aria fosse una delle cause della pandemia, sollecitando l’adozione di misure restrittive per il contenimento dell’inquinamento atmosferico.
Che la qualità dell’aria che respiriamo influisca sul nostro stato di salute non è una novità. Vi sono prove consistente che tumori, malattie respiratorie e cardiovascolari siano connesse con l’esposizione alle polveri atmosferiche2. Pertanto, indipendentemente dell’esistenza di una associazione con l’infezione da virus, intervenire per ridurre l’inquinamento atmosferico è comunque altamente raccomandato.
Questi tipi di studi, cosiddetti ecologici, confrontano i dati relativi a gruppi di persone residenti in diverse aree geografiche (stati, regioni, province, comuni) allo scopo di individuare eventuali fattori correlati con l’insorgenza delle malattie. Considerato che utilizzano dati già raccolti per qualche altro fine, essi sono poco costosi e veloci da portare a termine ma vanno presi in considerazione con molta cautela.
Gli studi ecologici, infatti, sono molto utili a scopo esplorativo per testare nuove ipotesi di lavoro ma i risultati devono essere poi confermati con disegni di ricerca più appropriati. Le conclusioni che si basano sui tassi medi registrati su gruppi di persone, infatti, non sono trasferibili sui singoli individui, perché le associazioni riscontrate possono essere dovute a qualche fattore che non è stato preso in considerazione, come per esempio alcune caratteristiche demografiche e sociali delle popolazioni oggetto dell’indagine.
Giocati dall’esperienza: fare di più non è sempre meglio
Di fronte ad una malattia dai possibili esiti gravi ed incerti è comprensibile che le persone chiedano di fare qualcosa per guarire. D’altra parte, siamo stati abituati a credere che la medicina possa fare cose straordinarie e non possiamo rassegnarci all’idea che non vi sia qualche rimedio efficace per controllare la replicazione di un virus.
Così, nel corso della pandemia tantissimi pazienti, oltre alle cure sintomatiche e di supporto alle funzioni vitali (quando necessarie), hanno ricevuto terapie antivirali di non provata efficacia, sottovalutando il fatto che tali terapie potevano avere effetti avversi, anche gravi, cioè potevano fare più male che bene. Perfino i politici si sono messi di mezzo. Donald Trump, per esempio, ha pubblicamente incoraggiato l’impiego dell’idrossiclorochina raccomandandola come la cura che avrebbe cambiato il corso della pandemia.
A questo proposito è bene ricordare che di fronte ad una malattia, sia pur grave, che guarisce in oltre il 90% dei casi, è impossibile stabilire l’efficacia di un nuovo trattamento basandosi sull’esperienza clinica. Utilità e sicurezza, infatti, si possono valutare solo confrontando il decorso della malattia nei pazienti sottoposti alla terapia in esame con un analogo gruppo di pazienti non trattati (gruppo di controllo). In mancanza di un gruppo di controllo, infatti, sia il medico che il paziente sono indotti ad attribuire la guarigione alle cure prescritte (qualsiasi esse siano) e gli esiti infausti alla cattiva sorte. L’idea che l’efficacia di un trattamento si possa valutare solo con criteri probabilistici confrontando persone simili trattate in modo diverso potrebbe sembrare un’ovvietà (almeno per i professionisti), ma la realtà, purtroppo, ci dimostra il contrario.
Non avendo a disposizione cure efficaci, lo sforzo frenetico di trovare comunque qualcosa di utile per i pazienti, ha messo l’intero sistema delle cure sotto forte pressione. In breve tempo sono partite migliaia di sperimentazioni cliniche, i cui risultati sono stati pubblicati senza la preventiva valutazione dei revisori e sono stati improvvidamente amplificati dai media, senza alcuna valutazione di merito3.
Purtroppo gli esiti di questa enorme agitazione sono stati piuttosto miseri. Due recenti revisioni di questi studi, pubblicate su riviste molto accreditate quali il BMJ e il JAMA hanno concluso che, ad eccezione del cortisone, al momento nessuna delle terapie proposte (idrossiclorochina, farmaci antivirali, plasma iperimmune) si è dimostrata capace di migliorare gli esiti dei pazienti affetti da Covid-19. Gli autori, inoltre, hanno messo in evidenza che la maggior parte degli studi realizzati erano praticamente inutilizzabili perché troppo piccoli, mal disegnati o condotti in modo inadeguato4,5.
Ovviamente questi risultati non devono fermare la ricerca e c’è da augurarsi che in un prossimo futuro qualcuna delle terapie oggetto di sperimentazione si dimostri efficace. Tuttavia gli effetti di questa situazione caotica devono servire da monito per tutti coloro che hanno a cuore il progresso della scienza e la tutela dei pazienti. La scienza procede per prove ed errori ed è proprio per discernere ciò che funziona che le nuove terapie, prima che si diffondano nella pratica clinica, devono essere testate mediante sperimentazioni controllate di buona qualità e realizzate previo il consenso informato del paziente.
Non è vero che per l’urgenza di intervenire si debba necessariamente ricorrere a pericolose scorciatoie prive di validità scientifica. Dalla diffusione di pratiche mediche il cui valore non sia stato ancora dimostrato e dalla pubblicazione di risultati dedotti da ricerche malcondotte, possono infatti derivare gravi conseguenze per i pazienti e purtroppo la medicina è costellata da simili casi.
Note
1 Moeller HG: Per comprendere Luhmann. IPOC 2011.
2 Di Ciaula A et al: Inquinamento ambientale e salute. Edizioni Aboca 2019.
3 Glasziou PP: Waste in covid-19 research. BMJ 2020; 369:m1847.
4 Siemieniuk R et al: Drug treatments for covid-19: living systematic review and network meta-analysis.* BMJ* 2020; 370:m2980.
5 Sanders JM et al: Pharmacologic Treatments for Coronavirus Disease 2019 (COVID-19) A Review. JAMA 2020, Volume 323, Number 18.